Categoria: saggistica

Proposte da “Più libri, più liberi” (ed. 2011)

Ed ecco, come promesso, una brevissima carrellata delle opere che oggi alla fiera Più libri più liberi hanno colpito la mia attenzione, non necessariamente nel bene o nel male. Non ho purtroppo avuto il tempo di esaminare molte di loro con attenzione, dunque mi limiterò nella maggior parte dei casi a presentarle con le parole dell’editore. Nei prossimi giorni aggiungerò nuovi titoli.

*Narrativa*

  • Madam Butterfly [sic] di John Luther Long, a cura di Riccardo Reim (Avagliano, 2009, pp. 96, € 10; ora in offerta su Amazon.it cliccando qui a € 8,50). “Madam Butterfly di John Luther Long è il racconto al quale Giacomo Puccini si ispirò (dopo aver assistito a Londra, nel luglio 1900, alla tragedia che David Belasco ne aveva tratto a sua volta) per il soggetto della sua sesta opera – Madama Butterfly, per l’appunto – che ancora oggi viene trionfalmente replicata ogni anno in tutti i teatri del mondo. Praticamente sconosciuta in Italia, questa “novella giapponese” rappresenta una vera e propria ghiottoneria non soltanto per gli appassionati del genere, ma per tutti coloro (e sono milioni) che abbiano ascoltato almeno una volta Un bel dì vedremo o il celebre coro a bocca chiusa. Il racconto di Long, inoltre, riserva una grossa, imprevedibile sorpresa: un finale del tutto diverso (meno ad effetto, ma assai più moderno) da quello del melodramma pucciniano, uno “scioglimento” che non mancherà di sconcertare e divertire il lettore.”

*Poesia*

  • Il mangiatore di cachi che ama gli haiku di Masaoka Shiki (La Vita Felice, pp. 176, € 12; traduttore P. O. Norton; libro ora in offerta su Amazon.it a € 10,20 cliccando qui). “Shiki ha spesso affermato che un grande maestro di haiku non scriveva durante la sua vita di poeta che duecento o trecento haiku autentici. Di quelli che sono portatori di un’intuizione profonda della realtà immediata ed evidente. Di quelli che ci permettono di sentire, di sondare l’indicibile profondità, di gustare il sottile sapore dell’esistenza umana, colta nell’eternità dell’istante presente. Di quelli che traducono, senza specificare, ma solamente suggerendo l’esperienza di distacco filosofico, poetico se si preferisce, dal mondo, quando tutto diventa semplice, luminoso, meravigliosamente evidente. Quando si percepisce, molto più che il senso, l’armonia delle cose, la loro impeccabile coincidenza. Sono proprio questi haiku che Shiki compose a essere raccolti in quest’opera.”
  • Novantanove haiku di Daigu Ryokan (La Vita Felice, pp. 108, € 10; traduttore P. O. Norton; libro ora in offerta su Amazon.it a € 8,50 cliccando qui). “Ryōkan è uno dei massimi poeti della letteratura giapponese e ci ha lasciato una vasta collezione di poesie, nella forma molto diverse dai modelli tradizionali, ma profonde e semplici nel contenuto. Egli viene giustamente chiamato “il poeta dello Zen” perché chi legge le sue poesie può farsi un’idea della dottrina, della pratica e dei risultati dello Zen, i cui insegnamenti fondamentali si possono riassumere con le seguenti parole: meditazione, libertà interiore e compassione. La presente edizione comprende 99 haiku di Ryōkan con testo giapponese a fronte.”

*Bambini*

  • L’81 principe di Maria Teresa Ruta, con illustrazioni di Raffaella Brusaglino (ed. Adnav, pp. 40, €12,50; per bambini da otto anni in su). Ispirato alla storia tradizionale di Okuninushi, il racconto “compare nel 712 d.C. nella prima opera letteraria giapponese compilata su ordine imperiale. Maria Teresa Ruta riprende la storia di un mondo antico e la ripropone in una versione per bambini. La favola narra il riscatto di un principe generoso vessato dai suoi fratelli; insieme affrontano il lungo viaggio che li conduce al palazzo della Principessa Iacami, ma solo uno di loro potrà chiederla in sposa. “

 

*Fotografia*

  • Araki di Nobuyoshi Araki (ed. Contrasto, pp. 144, 89 fotografie in bianco e nero, 2008, € 12,50; ora in offerta su Amazon.it a € 10,63 cliccando qui; per sfogliare il volume, guarda questo link). “Cineasta di formazione, Nobuyoshi Araki ha fatto dell’atto fotografico la sostanza della sua esistenza. Prolifico fino all’esasperazione, in una trentina d’anni ha costituito una sorta di autobiofotografia che rivela, senza riluttanza o pudore, il tratto essenziale del suo quotidiano. Affascinato dalle donne, dalla città, in particolare da Tokyo, di cui stila una frenetica ricognizione, è il capofila di una nuova scuola, anzi il modello venerato da una generazione di giovani che insieme a lui cerca, superando l’estetica, una verità legata all’attimo.”
  • Hiroscima e Nagasaki [sic; non è un mio errore] a cura di Gian Luigi Nespoli e Giuseppe Zambon (ed. Zambon, pp. 112, € 35, illustrato e bilingue italiano-tedesco): Le esplosioni atomiche sulle due città giapponesi hanno provocato, oltre alla quasi completa distruzione delle stesse, una serie incommensurabile di lutti. Mentre le fotografie del fungo atomico sono state capillarmente diffuse a livello mondiale, a dimostrare la potenza dell’imperialismo, le foto che testimoniano la sofferenza delle vittime sono state censurate e gelosamente archiviate. Soltanto a prezzo di lunghe ed accurate ricerche, siamo in grado di presentare in questo volume, forse in anteprima mondiale, la documentazione fotografica delle atrocità connesse all’impiego dell’arma atomica. Testimonianze, testi letterari e documenti storici completano l’opera.

Un autunno e un inverno ricchi di nuove uscite

Pioverà? Farà freddo? Lo spread continuerà a salire? Non ci è dato sapere nulla di tutto ciò, ma possiamo consolarci almeno un po’ pensando alle molte uscite che ci attendono nei prossimi mesi. A questo proposito, è d0obbligo ricordare che, pochissime settimane fa, è uscito uno dei volumi certo più attesi dell’anno, vale a dire 1q84 di Murakami Haruki (pubblicato a inizio novembre per i tipi dell’Einaudi; pp. 722, € 20; ora in offerta su Amazon.it cliccando qui a € 15), cui è dedicato anche un gruppo di lettura qui nel blog.
A questo nuovo classico presto (più precisamente a gennaio) farà compagnia un altro pezzo forte: la prima vera edizione italiana del capolavoro giapponese per eccellenza, il Genji monogatari di Murasaki Shikibu. Il volume è curato da Maria Teresa Orsi e sarà diffuso con il nome di Storia di Genji. Il principe splendente (Einaudi, pp. 1100, €90).
Qui sotto potete trovare quello che, spero, sia solo un assaggio delle succose novità che i prossimi mesi ci porteranno; se avete qualche informazione in più sui titoli di prossima pubblicazione, non esitate a lasciare un commento. E ora, che si aprano le danze!

 

Romanzi

  • Una storia crudele di Kirino Natsuo (Giano, pp. 235, € 16,50; ora in offerta a 14,03 su Amazon.it cliccando qui), noir fresco di stampa. “Ubukata Keiko, trentacinquenne scrittrice di successo nota con lo pseudonimo di Koumi Narumi, e da qualche tempo in crisi di creatività, scompare lasciando un’unica traccia di sé: un manoscritto intitolato “Una storia crudele”. Atsuro, il marito avvezzo alle stranezze e alla volubilità della donna, lo trova in bella vista sulla sua scrivania con il seguente post-it appiccicato sopra: “Da spedire al Dott. Yahagi della Bunchosha”. Editor della casa editrice di Koumi Narumi, Yahagi si getta subito a capofitto nella lettura dell’opera, nella speranza di avere finalmente tra le mani il nuovo best seller dell’acclamata autrice. Più si addentra nella lettura, tuttavia, più rimane sconvolto e, leggendo l’annotazione finale dell’opera: “Ciò che è scritto in queste pagine corrisponde alla pura verità. Gli eventi di cui si parla sono accaduti realmente”, non può fare a meno di avvertire un brivido corrergli lungo la schiena. Koumi Narumi narra, infatti, dell’infanzia di Keiko, vale a dire della propria fanciullezza. Descritta come una bambina di dieci anni triste e solitaria. Una sera, sperando forse di trovarvi il padre, si spinge fino a K, un quartiere ad alta concentrazione di bar e locali a luci rosse. Là si sente a un tratto picchiettare con delicatezza sulla spalla. Sorpresa, si volta di scatto e scorge un giovane uomo con in braccio un grosso gatto bianco. Frastornata, incuriosita, Keiko lo segue in un vicoletto buio, dove lo sconosciuto le infila un sacco nero sul capo e la rapisce.
  • E venivano tutte per mare di Julie Otsuka (Bollati Boringhieri; trad. di S. Pareschi; pp. 133, € 12). “Una voce forte, corale e ipnotica racconta la vita straordinaria di migliaia di donne, partite dal Giappone per andare in sposa agli immigrati giapponesi in America. È lì, su quella nave affollata, che le giovani, ignare e piene di speranza, si scambiano le fotografi e dei mariti sconosciuti, che immaginano insieme il futuro incerto in una terra straniera. A quei giorni pieni di trepidazione, seguirà l’arrivo a San Francisco; la prima notte di nozze; il lavoro sfi brante, chine a raccogliere fragole nei campi e a strofi nare i pavimenti delle donne bianche; la lotta per imparare una nuova lingua e capire una nuova cultura; l’esperienza del parto e della maternità, con l’impegno a crescere fi gli che alla fi ne rifi uteranno le proprie origini e la propria storia; il devastante arrivo della guerra, l’attacco di Pearl Harbour e la decisione di Franklin D. Roosevelt di considerare i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici e internarli nei campi di lavoro. Fin dalle prime righe, la voce collettiva inventata dall’autrice attira il lettore dentro un vortice di storie fatte di speranza, rimpianto, nostalgia, paura, dolore, fatica, orrore, incertezza, senza mai dargli tregua, dando vita a un libro essenziale e prezioso.”
  • La decomposizione dell’angelo di Mishima Yukio (Feltrinelli, pp. 240, € 10).
  • Detective Hanshichi. Indagini nei vicoli di Edo oppure Il detective Hanshichi. I misteri della città di Edo (titolo in via di conferma) di Kido Okamoto (O Barra O Edizioni, pp. 164, € 12).
  • Storia proibita di una geisha di Iwasaki Mineko e Brown Rande (Newton & Compton, pp. 336, € 9,90): “Un’infanzia felice e solitaria trascorsa in un piccolo paese lontano dal Giappone delle grandi città. Mineko è una bambina schiva e appartata. A sei anni, strappata alla famiglia e con il cuore spezzato, si trasferisce in un’okiya nel distretto di Kyoto e lì intraprende il duro cammino per diventare geisha, imparando l’antica arte del ballo, del canto, del saper parlare e vestire. È l’estenuante studio del cerimoniale rigido e severo di una corte millenaria che rende le donne maestre di etichetta, eleganza e cultura. Mineko studia con tenacia, senza mai distrarsi, coltivando un solo grande sogno: ballare. Diventa la geisha più brava, ricercata e corteggiata. Tutti la vogliono, politici, artisti, star dello spettacolo. Audace e orgogliosa, testarda e fiera, si muove in un mondo che non vuole ribelli, ma lei ha l’ardire di osare e di infrangere regole austere. Con il suo coraggio rompe il velo che da sempre avvolge un universo frainteso: si racconta con eleganza e audacia, ironia e leggerezza, e ci accompagna attraverso le trame e i segreti di una cultura millenaria e ritrosa. Mineko si confessa e denuncia un mondo che vuole rimanere nascosto, ci racconta della fatica e della tenacia per diventare la geisha più amata per poi, al culmine della sua carriera, voltare le spalle al successo e scegliere altro, una famiglia, un figlio, la normale eccezione dell’essere donna.”

Saggistica

  • Introduzione alla storia della poesia giapponese di Pierantonio Zanotti (Marsilio, pp. 240). “Il volume offre una panoramica storica dell’evoluzione della poesia giapponese dalle origini al 2000. La narrazione abbraccia circa 1300 anni di storia e cerca di fornire al lettore, non solo specialista, un quadro completo e dettagliato, ma al tempo stesso agile, sintetico, e di gradevole lettura. Al flusso centrale della narrazione storica, arricchita di riferimenti extraletterari e attenta al ruolo sociale della poesia e alle pratiche della sua composizione ed esecuzione, saranno affiancate schede e approfondimenti su singole opere, autori, o specifiche tipologie testuali.”
  • Introduzione allo studio della lingua giapponese di A. Maurizi (Carocci, pp. 252, € 21).
  • Lo Zen di A. Tollini (Einaudi, € 24). “Dopo una prima parte introduttiva sullo Zen nel panorama del buddhismo giapponese e sullo Zen in Occidente, il volume affronta il passaggio geografico e culturale di questa tradizione dalla Cina al Giappone del XIII secolo e il suo primo, difficile radicamento nell’arcipelago giapponese. Saranno due le grandi scuole che condizioneranno tutta la successiva storia dello Zen: Rinzai e Soto, di cui Tollini traccia la storia, lo sviluppo dottrinale e ricorda i principali maestri. A seguire, la descrizione del grande sviluppo culturale che fece dello Zen il principale punto di riferimento estetico, letterario e delle arti performative in Giappone, lasciando un segno indelebile sulla sensibilità estetica orientale: un segno che dura fino ai giorni nostri. Il libro è corredato dalle traduzioni dei testi originali dell’epoca, sia dei maestri che di altro tipo, allo scopo di favorire una più diretta e profonda comprensione delle tematiche trattate.”
  • Tokyo sisters. Reportage di Julie Rovéro-Carrez e Raphaëlle Choël (O Barra O edizioni; trad. di Giusi Valent, pp. 200, € 15). “La specificità e lo charme della società contemporanea giapponese, e della città di Tokyo in particolare, decodificati attraverso il mondo femminile di adolescenti, casalinghe, business women, donne single e sposate. Scritto in uno stile frizzante e ironico, Tokyo sisters descrive la vita familiare, le abitudini, le aspirazioni, i rituali e i vissuti quotidiani delle donne giapponesi tramite le numerose testimonianze dirette raccolte dalle autrici. Vengono toccati i temi della moda, della sessualità (onnipresente nei manga e nei video giochi, ma tabù all’interno della coppia), del tempo libero e del consumismo: “Per me essere una vera donna è possedere una borsa di Vuitton”, può affermare una giovane disposta a mesi di risparmio pur di acquistare l’oggetto dei suoi desideri. Ne risulta una moderna e curiosa guida antropologica al femminile per orientarsi in una cultura di grande fascino, paradossalmente sospesa tra tradizione ed estremo cambiamento.”

“Mangascienza”: il futuro è qui

Centocinquant’anni fa circa, se qualcuno avesse menzionato i manga in un salotto buono di Parigi, molti avrebbero forse sorriso al pensiero degli omonimi schizzi di Hokusai che allora circolavano tra artisti e intellettuali, destando interesse e di certo qualche perplessità. Pochi avrebbero scommesso che quei disegni rapidi potessero un giorno – dopo profonde evoluzioni – finire per incantare i loro discendenti e, probabilmente, nessuno avrebbe neppure immaginato che, in questa nuova forma, sarebbero riusciti a condensare speranze e inquietudini  dei posteri.

Quest’ultimo punto è ampiamente trattato in Mangascienza. Messaggi filosofici ed ecologici nell’animazione fantascientifica giapponese per ragazzi (Tunué, pp. 259, € 16,50; ora in offerta su Amazon.it cliccando qui a € 14,03), in cui Fabio Bartoli presenta lo sviluppo degli anime collegandolo ai paralleli cambiamenti che hanno mutato (e a volte sconvolto) il volto del Sol Levante. La storia di questo paese, soprattutto a partire dal 1868 – anno inaugurale dell’epoca Meiji e della modernizzazione – è stata caratterizzata da un rapporto ambiguo con la tecnologia: dapprima appresa in modo spasmodico guardando ai modelli europei e americani, poi subìta (soprattutto nel corso della seconda guerra mondiale; si veda la tragica esperienza delle bombe atomiche), infine integrata nel quotidiano.

Una relazione equivoca tra individui e tecnica, in fondo, ha da sempre coinvolto anche l’occidente, come dimostra l’antichissimo mito di Prometeo, nume tutelare del volume. Toccato dalla mancanza di qualità nell’uomo (conseguenza della disattenzione di Epimeteo), il titano decise di aiutare la “scimmia nuda” (per dirla come Morris) rubando i tesori di Atena (in primis, l’intelligenza e la memoria) e il fuoco di Efesto, attraverso i quali foggiare un nuovo mondo in cui la cultura e la lungimiranza si sarebbero dovute coniugare a un saggio uso delle arti meccaniche. A causa del suo duplice furto, Prometeo venne duraramente punito da Zeus: legato a un’alta roccia, fu preda della furia di un’aquila che ogni giorno gli divorava le viscere. Il padre degli dèi aveva già intuito quale terribile dono era stato concesso agli uomini: attraverso la tecnica, essi sarebbero riusciti a trasformare la loro sorte, mettendo però a repentaglio se stessi e la terra che li ospita. E così è stato.

Partendo proprio da questa leggenda, Fabio Bartoli delinea sinteticamente più di duemila anni di storia, scienza e pensiero occidentale, evidenziandone le connessioni e i punti chiave. Questa – che potrebbe di primo acchitto apparire superflua – è in realtà un’operazione sagace, che mira a illuminare non soltanto il nostro complesso rapporto con la tecnologia, ma anche le numerose stratificazioni in cui, dagli ultimi decenni del secondo millennio, si è situato il duplice fenomeno manga/anime,  con tutte le implicazioni ideologiche di cui è foriero; inoltre, è bene sempre tenere a mente che questo scenario ha fortemente influito sul contesto giapponese che, in alcuni casi, ha tentato di conformarsi ad esso persino a scapito della propria identità. L’autore di Mangascienza, dando prova di intelligenza, ricostruisce anche i milieu (politici, culturali, economici…) giapponesi a partire dal XVII secolo, fornendo così le coordinate essenziali per comprendere meglio le manifestazioni del pensiero e delle arti autoctone, tra le quali si annoverano senza dubbio anche i disegni animati, non riducibili a semplici mezzi di intrattenimento per bambini e adolescenti, ma strumenti per trasmettere alle nuove generazioni propositi e valori in vista della costruzione di un’umanità migliore.

Poggiando su solide basi teoriche – che attingono all’opera di scienziati, filosofi, storici, intellettuali – Fabio Bartoli articola un discorso vivace e multidisciplinare, dedicando ampia attenzione agli effetti dell’iperestensione culturale, ossia di un progresso che procede in modo talmente rapido da originare un dislivello profondo con la stessa capacità umana di domarlo e indirizzarlo a scopi benefici. Esso ha subito un incremento nelle nazioni occidentali soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale, per poi propagarsi anche all’estremo oriente. Testimonianza di ciò sono proprio gli anime, in special modo quelli di fantascienza: attraverso la rappresentazione di un mondo futuristico fictionale, essi hanno voluto delineare i dilemmi e le difficoltà con le quali saremo destinati a confrontarci se finiremo per esser vittime – e non più signori – dei nostri ritrovati tecnologici e scientifici, quali l’ingegneria genetica, le armi nucleari, le forme di sfruttamento intensivo dell’ambiente. In particolare, i pericoli per l’uomo paiono provenire da tre tipi di conflitti, sintetizzabili da altrettante figure mitologiche: vittime e protagoniste dello scontro sarebbero la madre terra (Gea), la tradizione (Mnemosine) e l’evoluzione naturale (Epimeteo).

Mediante il ricorso a robot dall’etica samuraica o a imponenti mecha, inscenando il dramma degli orfani dell’atomica o di mondi lontani sull’orlo del baratro, i creatori di anime hanno tentato e tentano tuttora di sensibilizzare le coscienze dei lettori (giovani e non). L’autore conduce in proposito un’analisi serrata e approfondita, ricca d’esempi, godibile tanto da specialisti quanto da semplici appassionati, che si estende anche alla corposa appendice comprendente cinquanta schede, ciascuna dedicata a una diversa serie animata, di cui vengono sottolineati temi e strategie ideologiche e narrative. E così, partendo da Astroboy (1963) per arrivare sino a Last Exile (2003), passando per Neon genesis Evangelion, Mazinga Z e molti altri, fra le pagine riecheggia una speranza per il futuro prossimo: che l’uomo possa finalmente far germogliare il seme racchiuso nel nome stesso di Prometeo, “colui che pensa prima”. Prima che sia troppo tardi.

“Oltre la filosofia” (Pasqualotto), sulle tracce dei pensatori orientali

Qui nel blog parlo spesso di letteratura, storia e società del Sol Levante; raramente, però, lascio spazio allo studio del pensiero – o meglio: dei pensieri plurali – che hanno condizionato e condizionano tuttora tanto la cultura quanto il comportamento dei giapponesi.  Per questa ragione, oggi sono felice di presentarvi Oltre la filosofia. Percorsi di saggezza tra Oriente e Occidente di Giangiorgio Pasqualotto (Colla Editore, pp.  221, € 19; in offerta su Amazon.it a 16,15 cliccando qui), un interessante testo di cui ci offre una recensione il collettivo di Filosofi precari. Buona lettura.

La filosofia non parla più della vita. Nella storia della cultura occidentale è avvenuta una frattura (non certo recente) fra vita reale e pensiero. Ma anche fra filosofia speculativa e pratica. Il libro di Giangiorgio Pasqualotto cerca di rimediare a questo discrimine svolgendo un iter articolato in otto interventi, un viaggio tra occidente ed oriente alla ricerca della saggezza del vivere. Del resto, lo studioso è uno dei massimi esperti italiani di pensiero filosofico orientale e più volte ha affrontato la tematica di un Oriente che avrebbe tanto da raccontare al nostro Occidente, un Occidente grecista ed eurocentrico che crede di aver inventato il pensiero, oltre che la filosofia.
Lo studioso segue un cammino intrapreso già da Pierre Hadot (Esercizi spirituali e filosofia antica), Foucault (L’uso dei piaceri, La cura di sé), in parte dalla Nussbaum (Terapia del Desiderio) e da Panikkar: paragona perciò particolari pensieri filosofici orientali e occidentali interpretabili come “stili di vita”, il cui scopo non risiede nella mera acquisizione di dati sulla struttura della realtà, quanto piuttosto nell’annullamento del dolore, nel riconoscimento e nel controllo delle passioni, nella pratica della libertà e del “conosci te stesso” – un “te stesso” che però non è separato da tutto il resto.
Nel confrontare pensieri occidentali e orientali (e sottolineo la loro pluralità), Pasqualotto non si limita a rilevare le analogie, ma anche  gli scarti, già a partire dalle basi stesse: se  “il quesito cruciale dei filosofi occidentali è: ‘Che cosa è la verità?’”, i sistemi cinesi e indiani  si sono soffermati prevalentemente sull’applicazione della “legge” o “via” alla vita (come il Dharma o  il Tao), utilizzando un metodo olistico e una meditazione legata ad un atteggiamento corporeo più che – al contrario di quanto avviene  in Occidente – all’esercizio razionale immaginativo o intuitivo.
La physis e il “tutto scorre” teorizzati da Eraclito vengono così accostati al Tao-natura e alla dottrina dell’impermanenza, con sorprendenti analogie che investono persino il livello testuale; si rivela simile a quella taoista anche la visione eraclitea della saggezza, e il Tao, nota Pasqualotto, pare inoltre consustanziale alla Natura (o Dio) dell’etica spinoziana.
Anche a Nietszche sono dedicate pagine significative. Il buddismo zen mostra curiose rassomiglianze col pensiero del filosofo tedesco: oltre alla non sostanzialità dell’io, essi condividono la non opposizione fra oggetto e soggetto, la critica del “sublime”, dell’intenzionalità dell’azione, dell’idea che vi possa essere un’essenza distinta da quella del mondo, di un dover-essere etico, a favore invece di una riscoperta dell’essere. Stupisce constatare anche altre pregnanti affinità, sintetizzabili nella similare concezione del “sapiente” e della pratica di saggezza;  addirittura il Satori (l’Illuminazione Zen) tende a coincidere con l’Eterno Ritorno nietzschiano, al punto che in alcune occorrenze è arduo distinguere le massime zen dalle citazioni di Nietzsche: “Vuoi prendere commiato dalla tua passione? Fallo pure, ma senz’odio per essa! Altrimenti hai una seconda passione” (Nietzsche, Aurora).
Nel suo complesso percorso, Pasqualotto ferma la sua attenzione anche sulle discordanze tra il Karuna (la compassione buddista) e il Mitleid (compassione) di  Schopenhauer, solitamente ritenuto un orientalista ante-litteram. Malgrado i due concetti siano spesso accomunati, in realtà esibiscono profonde differenze  sin dalle radici: se per il filosofo tedesco il saggio dovrebbe sopprimere la volontà di vivere, il vero buddhista è intenzionato a liberarsi anche dalla brama stessa della non-esistenza, cercando piuttosto un cammino che sia una “via di mezzo” (majjhimā patipadā).
La parte conclusiva del volume si concentra sulla differente concezione della natura in Asia e in Occidente, che si dibatte tra olismo (la natura e l’uomo intesi come un unico organismo), scientismo (la natura come oggetto da conquistare; Pasqualotto collega questa idea anche al giudaismo-cristianesimo) e vie di mezzo, cercando di superare le opposizioni (come quella fra scientismo ed antiscientismo), sulla scia di autori come Whitehead e Capra.
Nell’ultimo saggio, lo studioso affronta un tema tanto desueto quanto interessante: i “rimedi” filosofici orientali alla malinconia. Riprendendo e spiegando la psicologia buddista, Pasqualotto illustra le cause della cosiddetta “atra bile”: essa dipenderebbe dall’errata convinzione che esista un “io” (mentre per il buddismo ogni realtà è anatta, cioè priva di consistenza autonoma, poiché “dipende talmente da altri che non è nulla per sé o in sé”) e dalla fallace illusione di una consistenza assoluta di ciò che viviamo temporalmente. Per Pasqualotto, la pratica-teoria buddista aiuterebbe a superare qualsiasi forma di malinconia (aggressiva come masochista), eliminando  l’attaccamento all’esigenza di riconoscimento che abbiamo verso gli altri per approdare all’abbaya, la “non paura”, tramite la serena accettazione della transitorietà e dell’inconsistenza, così efficacemente sperimentate da Bashou e Kenko nei loro scritti.

I doni più preziosi e il segreto di “Un’eredità di avorio e ambra”

Per definire il Novecento, Eric J. Hobsbawm ha parlato di “secolo breve”, caratterizzato da profonde trasformazioni politiche, economiche e sociali. Molte delle sue contraddizioni e, soprattutto, dei suoi nodi irrisolti sorsero però già nella seconda metà dell’Ottocento: mentre lo “spettro del comunismo” – riprendendo le parole di Marx – s’aggirava per l’Europa e i popoli (compreso quello italiano) combattevano per l’autodeterminazione, da qualche botteguccia del porto di Yokohama giunsero nel Vecchio continente migliaia e migliaia di insolite statuette, grandi poco meno d’un pugno. Erano di legno di bosso, argilla, ceramica, osso; potevano raffigurare un monaco mendicante, una tigre spaventosa e innumerevoli altri soggetti da legare alla cintola del kimono.
Molte di esse sono andate probabilmente perdute o giacciono nelle vetrine polverose di qualche museo; alcune, più fortunate, sono invece addirittura divenute protagoniste di un bel romanzo, Un’eredità di avorio e ambra (Bollati Boringhieri, pp. 398, 18 €; ora in offerta su Amazon.it cliccando qui a 15,30 €) dello studioso e ceramista inglese Edmund de Waal, che ricevette da un anziano zio materno una vera e propria collezione di  netsuke (così si chiamano questi piccoli manufatti). Attraverso il libro lo scrittore ha voluto rendere un tributo non solo alla sua famiglia d’origine, ma anche ad alcune delle epoche più sfavillanti e insieme fosche del cammino umano.

Tutto ebbe iniziò nella seconda metà dell’Ottocento, quando un ramo degli Ephrussi – i più grandi commercianti di cereali su scala planetaria – si trasferì dalla nativa Odessa nelle grandi capitali europee. Nella Ville Lumière, il giovane Charles, tanto raffinato quanto poco incline agli affari, divenne ben presto un mecenate e un arbiter elegantiae di tutto rispetto; nel bel mondo incantò anche lo scrittore Marcel Proust, che lo prese a modello per plasmare Swann, uno dei personaggi più memorabili della sua Ricerca del tempo perduto. Tra i primi ferventi sostenitori dell’impressionismo e costantemente attento a percepire nuovi fermenti artistici, Charles finì per innamorarsi ben presto del Sol Levante, in sintonia con la nascente mania del japonisme, che De Waal ci descrive magistralmente. La penna dell’autore, difatti, insegue gli appassionati della prima ora nelle loro caccie frenetiche alla ricerca di bibelot, servizi da tè e kimono; spia le ricche dame ricoprirsi di sete rare e nascondersi dietro i paraventi intarsiati per compiacere gli spasimanti; non indietreggia neppure dinanzi all’opulenza (talvolta esasperata sino al cattivo gusto) dei salotti e delle alcove pullulanti di bronzi, ceramiche, legni purché provenienti dall’estremo oriente.

A differenza dei più, Charles, esperto critico d’arte, scelse con cura persino i ninnoli e ben duecentosessantaquattro netsuke da esporre con orgoglio nelle sue stanze; a causa del mutare delle stagioni e delle mode, da curiosità esotica per rapire lo sguardo la collezione nipponica si trasformò in bislacco regalo di nozze. Le statuette finirono perciò dalla rutilante Parigi nella Vienna della Bella Epoque, dove presero parte ai giochi dei piccoli rampolli austriaci, ignari delle ondate sempre più violente di antisemitismo, che nel giro di pochi anni condussero alla tragica ascesa di Hitler. Sul calare degli anni Trenta, i potenti ed ebrei Ephrussi persero ogni bene e, soprattutto, pressoché ogni speranza: il clan si dissolse, mentre parenti e amici tentarono disperatamente di schivare la morte nei campi di concentramento o di non morire di stenti per le strade del mondo.

I netsukeemblema della magnificienza e ricordo dei giorni felici ormai trascorsi – non risplendettero più accanto ai Renoir, agli argenti e ai velluti; riposarono invece nelle tasche ingombre di un grembiule o nell’imbottitura di un vecchio materasso. E quando oramai la loro esistenza sembrava volgere al termine, ecco un nuovo, imprevedibile rovescio della sorte, pronto a catapultarli dall’altra parte del globo.

Con la sua scrittura misurata ma sempre precisa e coinvolgente, De Waal riesce egregiamente a descrivere i fasti e le miserie della vita umana, senza però fare alcun ricorso al rimpianto o a una compassione lacrimevole. Il lettore attraversa in questo modo lunghi decenni e incolmabili distanza geografiche rapito da una narrazione ricca e duttile che, a uno sguardo distratto, mirerebbe soltanto a raccontare le peripezie d’un piccolo tesoro artistico attraverso le alterne fortune di coloro che lo hanno posseduto. In realtà, il volume di De Waal è molto più di un romanzo: rivela la saga di una famiglia potente ma fragile, mostra i curiosi o tragici intrecci tra la Storia con la “s” maiuscola e le microstorie di ognuno di noi, e permette di rievocare alcune suggestive atmosfere artistiche e intellettuali. Ma sopratutto l’opera tenta di dipanare il complesso e ambivalente rapporto occidentale con il Giappone e il suo fascino esotico, dei quali l’Europa e gli Stati Uniti sono stati ripetutamente invaghiti, al punto da saccheggiare commercialmente il paese, soprattutto durante gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento e nel corso dell’occupazione americana seguita alla seconda guerra mondiale.

Al pari di mille altri oggetti, anche i netsuke sono stati a lungo uno degli obiettivi prediletti dagli intenditori o, più spesso, dai collezionisti di souvenir nipponici a buon mercato: così piccoli, curati sin nei minimi dettagli e talvolta buffi sembravano alludere loro malgrado all’immagine stereotipata e ambigua del giapponese dal fisico minuto e dal comportamento bizzarro.

Eppure, proprio fissando alcuni dei pezzi della splendida eredità di avorio e ambra di De Waal – la lepre che ci fissa pronta al balzo, l’asino piegato sotto il peso del questuante, l’intagliatore di botti dall’aspetto dimesso eppure profondamente dignitoso – ci pare di cogliere una grande lezione: forse la bellezza – a differenza di quanto riteneva Dostoevskij – non salverà il mondo, ma sa offrirci i preziosi doni della speranza e della consolazione.

“Goodbye Madame Butterfly”: sei storie per scoprire la nuova donna giapponese

Dolce, remissiva, a tratti sottomessa: questa è l’immagine stereotipata che molti uomini occidentali hanno della tipica donna giapponese. I tempi, però, sono cambiati, e a farlo notare a chi non se ne fosse accorto ci pensa Kawakami Sumie, autrice di Goodbye Madame Butterfly. Sex, Marriage and the Modern Japanese Woman (Chin Music Press, pp. 224, 20 dollari comprese le spese di spedizione dal sito dell’autrice; disponibile in inglese ora a prezzo scontato su Amazon.it a questo link).
Come s’intuisce già dal titolo, obiettivo del volume è sfatare pregiudizi e luoghi comuni sull’universo femminile nipponico; per raggiungere la sua meta, l’autrice racconta sei storie reali, senza perbenismi, vissute talvolta nell’ombra, talaltra con orgoglio. Troviamo Ai, divorziata, in tresca con il suo capo, contrario a lasciare la moglie, che decide di dare una svolta alla sua vita dopo aver conosciuto un altro uomo; c’è Emi, che scopre di essere incinta proprio quando lo è l’amante del marito; e poi ecco Mitsuko, che a cinquantotto anni s’innamora di una pop star coreana; e ci sono anche ragazze, rispettabili signore, mogli di preti Shinto che cercano – ciascuna a suo modo – amore, sesso, attenzioni, o soltanto un po’ di felicità.

“Cucina giapponese di casa” di Kurihara Harumi: la bontà è servita

Ingredienti:

– Kurihara Harumi, un’ottima cuoca e food writer giapponese;
– una buona dose di entusiasmo;
– una nutrita raccolta di gustose ricette casalinghe pressoché sconosciute in Europa;
– un ricco apparato di bellissime foto;
– una casa editrice di classe, ossia la Guido Tommasi Editore.

Procedimento:

  1. Ponete la cuoca-foodwriter dinanzi al suo ricettario privato; non dimenticate di lasciarle accanto carta e penna.
  2. Aspettate che gli occhi le si illumino e che l’ispirazione prenda il sopravvento.
  3. Consegnate tutto a un buon grafico, capace di dare a ogni pagina una nota di originalità e di colore.
  4. Et voilà, Cucina giapponese di casa è pronto!

 Oggi mi sono concessa questo piccolo divertissement per parlarvi di un volume che apprezzo molto, Cucina giapponese di casa di Kurihara Harumi (Guido Tommasi Editore, pp. 192, € 25; ora in offerta su Amazon.it a 21,25 € cliccando qui). Si tratta di un’opera molto diversa da quelle che siamo abituati a scorgere negli scaffali delle librerie: niente sushi a profusione, niente banalità, niente ricette alchemiche che prevedono difficilmente reperibili o costosi.

Nell’Introduzione, l’autrice delinea in modo rapido e limpido i principi fondanti della cucina del Sol Levante e della sua personale visione dell’universo culinario: prodotti di stagione e di qualità, piatti leggeri e vari, attenzione costante agli accostamenti gastronomici ed estetici. Seguono una veloce panoramica sugli ingredienti da tenere in dispensa e un’ampia rassegna di ricette ‘rubate’ alle casalinghe nipponiche, facili da realizzare e adatte alla vita di tutti i giorni; penso, per esempio, al riso saltato con polpa di granchio, agli onigiri al pollo, al maiale allo zenzero… Neppure i vegetariani rimarranno a bocca asciutta: le patate con salsa alla soia dolce si accompagnano all’insalata di tofu con condimento al sesamo e ad altre numerose preparazioni animally correct.

Ogni ricetta è introdotta da alcune righe di presentazione, in cui l’autrice prodiga consigli, alternandoli con note sulla cucina giapponese; subito dopo troviamo l’indicazione delle dosi esatte degli ingredienti e la descrizione del procedimento spiegato passo passo con estrema chiarezza. Conclude il tutto una breve appendice dedicata agli indirizzi utili – italiani e inglesi – per reperire cibi, salse e accessori giapponesi.

L’entusiasmo di Harumi e il suo costante desiderio di aiutare anche il lettore-cuoco più sprovveduto sono percepibili in ogni pagina e si riflettono persino nelle immagini che la ritraggono; scopriamo così una donna dal volto dolce, che sorride in quel modo discreto e un po’ timido tipico dei giapponesi: altro che le espressioni accigliate o pretenziose di certi chef!

Insomma, il ricettario (anche se è riduttivo chiamarlo in questa maniera) presenta un unico inconveniente: al momento di chiudere il libro avrete sicuramente l’acquolina in bocca, ma – in compenso – vi ritroverete con lo sguardo sazio di piccole meraviglie e, di certo, un po’ più innamorati della sorprendente cucina giapponese.

Foto tratta da qui.

Nuove note per antiche parole: intervista a Ramona Ponzini

Un tranquillo pomeriggio di settembre, davanti al computer, a scrivere. Distrattamente, apro l’ennesima pagina del browser e clicco su un link. D’improvviso, la stanza si riempie di una musica strana, nuova, che non ho mai sentito prima. Campanelli, versi giapponesi, una melodia avvolgente e, al tempo stesso, distante, antica.
Ho appena conosciuto Ramona Ponzini e la sua bellissima voce, e ancora non lo so.

Quello che mi è parso un canto remoto, eppure vivo nella carne e nelle sonorità, proviene in effetti dal passato. A partire dal 2004 Ramona ha sviluppato insieme ai My Cat Is An Alien (Maurizio and Roberto Opalio) il progetto Painting Petals On Planet Ghost (PPOPG; http://www.mycatisanalien.com/PPOPG.htm), volto a scoprire e sperimentare le potenzialità musicali della poesia giapponese, sposandole a contaminazioni inattese.

I sorprendenti risultati sono racchiusi in tre album, il primo dei quali, Haru (Time-Lag Records; vedi sopra la copertina), del 2005, s’ispira ai versi e alla letteratura dell’epoca Heian (794-1185), ed in modo particolare a una delle più antiche antologie poetiche giapponesi, il Kokinshū (Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne); non manca un tributo al celebre incipit del Makura no Sōshi (Note del guanciale) di Sei Shōnagon.

Nel 2008 è il turno di Fallen Cammellias (A silent place), che riprende alcuni tanka (composizioni liriche strutturate in 5-7-5-7-7 sillabe) della poetessa primonovecentesca Yosano Akiko, attingendo soprattutto alla raccolta Midaregami. L’anno dopo, in Haru no omoi (PSF Records; qui a destra la copertina), vengono riuniti alcuni brani estratti dai dischi precedenti, con l’aggiunta di due pezzi inediti, ancora una volta ispirati ai tanka di Yosano Akiko.

Ramona Ponzini non si ferma qui, e collabora anche con artisti quali Z’EV e Lee Ranaldo dei Sonic Youth, eseguendo in giapponese ― sua lingua musicale ed artistica d’elezione ― improvvisazioni live e testi da lei composti, come nel caso dell’album Ankoku.

Oggi sono felice di poterla intervistare e di scoprire qualcosa di più riguardo le sue interessanti ricerche. Prima di leggere il seguito dell’articolo, vi suggerisco di ascoltare qualcuno dei brani presenti in http://paintingpetalsonplanetghost.bandcamp.com.

Biblioteca giapponese (d’ora in poi Bg): Innanzitutto, Ramona, ti ringrazio per la disponibilità. Alla tua giovane età hai già all’attivo importanti traguardi (una laurea coronata da una tesi sugli esordi letterari della poetessa Yosano Akiko; collaborazioni di valore con numerosi artisti; interventi sul tuo lavoro pubblicati negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Giappone…). Oltre che alla tua bravura, naturalmente, una parte del tuo successo è legata al progetto Painting Petals On Planet Ghost: puoi raccontarci come è nata l’idea di battere nuove strade attingendo alla poesia giapponese?

Ramona Ponzini (d’ora in poi RP): Il progetto Painting Petals on Planet Ghost nasce dopo anni di interazione sinergica tra me e i My Cat Is An Alien. Ho conosciuto i fratelli Opalio nel 2001 e sono rimasta subito affascinata dal loro approccio anticonvenzionale alla musica e all’arte in generale. All’epoca mi occupavo di teatro sperimentale ma ho seguito costantemente i loro concerti, tenuto sott’occhio le innumerevoli uscite e dopo qualche anno è iniziato il nostro sodalizio artistico. Painting Petals on Planet Ghost scaturisce dall’esigenza di coniugare l’anima più lirica e melodica dei MCIAA con il lavoro di ricerca da me condotto, e che ancora sto conducendo, sulla poesia giapponese come fonte privilegiata di testi musicabili. Il punto di partenza sono proprio le liriche in giapponese: di solito seleziono i testi, li traduco per i ragazzi affinché possano comprendere il motivo che mi ha spinto a scegliere determinate liriche, nonché il loro significato, poi passiamo a concentrarci all’unisono sulla musicalità intrinseca della lingua e della metrica delle poesie per poter creare quel tessuto sonoro che viene a costituirsi quale perfetta culla per i testi e  le melodie.

Bg: Cosa pensi che i versi giapponesi possano comunicare oggi agli ascoltatori occidentali, tanto più che essi sono spesso digiuni di poesia nipponica?

RP: Painting Petals on Planet Ghost rappresenta il punto di congiunzione tra il mio lavoro di studiosa della lingua e della letteratura del sole levante e la mia personalità artistica: parafrasando Joan La Barbara, in quanto musicista mi occupo dei “suoni come presenza fisica”, li scolpisco attraverso la voce, e lascio che il flusso dei pensieri e la visualizzazione dei gesti sonori portino alla creazione del risultato finale. Credo fortemente che non sia sempre essenziale per il fruitore di musica capire alla lettera il testo di una canzone: l’essenza del mio lavoro risiede nel tentativo di far scoprire all’ascoltatore la funzione di base della voce come primario mezzo di espressione. PPOPG è un progetto che rispecchia una fuga verso l’interiorità più delicata e poetica, uno scavo intimista che lascia spazio alla pura catarsi: la musicalità che scaturisce dalla lingua giapponese sotto forma di poesia ne è il mezzo sublime.

Bg: All’inizio del ventesimo secolo, Yosano Akiko era ritenuta una poetessa trasgressiva e una donna fuori dal comune: pioniera del femminismo, anti militarista e scrittrice estremamente prolifica. Come mai hai voluto ispirarti a lei per il tuo album Fallen Cammellias e per la realizzazione di altri brani?

RP: Sin dal liceo (ma anche all’università), scorrendo l’indice delle varie antologie letterarie, mi sono sempre chiesta come mai queste fossero così digiune di nomi femminili. Era davvero possibile che i più grandi autori delle più grandi opere fossero esclusivamente uomini? Così ho iniziato a cercare, ad andare oltre quelli che erano i programmi scolastici e ho scoperto Gaspara Stampa, Elsa Morante, Amalia Guglielminetti, Kate Chopin, Simone de Beauvoir, Virginia Woolf, Jane Austen, Emily Brontë, Sylvia Plath, Murasaki Shikibu, Yosano Akiko, per citare solo alcuni nomi. Credo sia dovere di ogni donna leggere, innanzitutto, Una stanza tutta per sé della Woolf e Il secondo sesso di  Simone de Beauvoir, ma principalmente indagare e scoprire che anche noi abbiamo lasciato un segno indelebile nella storia dell’arte, di tutte le arti, dalla poesia alla pittura, dalla musica al cinema; la nostra funzione creativa non si espleta solo nel mettere al mondo dei bambini, non può bastarci e in realtà non ci è mai bastato (anche se vogliono farci credere il contrario). Un esempio su tutti: Yosano Akiko, per l’appunto. Ha cresciuto undici figli eppure è una delle più grandi poetesse del ventesimo secolo.

Bg: Ascoltando i tuoi pezzi si rimane colpiti dalla sensazione di essere proiettati in una dimensione senza tempo; la ragione forse sta nell’aver sposato dei testi poetici – talvolta secolari – a sonorità nuove. Inserire questi versi in un tessuto musicale contemporaneo è un modo per tentare di renderli più attuali e dunque maggiormente apprezzabili anche dal pubblico?

RP: Credo che il nocciolo della questione risieda nella natura stessa della musica in quanto arte: l’Arte per eccellenza, secondo Nietzsche, il punto di sutura tra l’Uomo e il Dionisiaco.
In Musica e parola il filosofo ha sostenuto: “Mettere la musica completamente al servizio di immagini, e di concetti, utilizzarla come mezzo allo scopo di dar loro forza e chiarezza, questa è la strana arroganza del concetto di “opera”; (…) Perché la musica non può mai diventare un mezzo anche se la si vessa, se la si tormenta; come suono, come rullo di tamburo, ai suoi livelli più rozzi e più semplici essa supera ancora la poesia e la abbassa ad un proprio riflesso. (…) Certamente la musica mai può diventare mezzo al servizio del testo, ma in ogni caso supera il testo; diventa dunque sicuramente cattiva musica se il compositore spezza in se medesimo ogni forza dionisiaca che in lui prende corpo, per gettare uno sguardo pieno d’ansia sulle parole (…).”
Volendo bilanciare quelli che sono i due elementi del contendere, reputo che l’interazione sinergica, nonché paritaria, tra musica e poesia faccia sì che il testo poetico arrivi all’ascoltatore in maniera più immediata e viscerale, fino a toccare le corde più profonde dell’anima.

Bg: Oltre ad essere una bravissima cantante, sei certamente un’amante della letteratura giapponese: quali opere e autori ami, escludendo i testi e gli artisti su menzionati?

RP: La lista potrebbe essere molto lunga! Per dovere di cronaca credo sia giusto partire da quelle che sono state le mie letture al liceo: Yoshimoto Banana, in un primo tempo, e poi Kawabata Yasunari e Tanizaki Jun’ichirō. Tanikazi ha segnato profondamente la mia formazione letteraria, in particolare i primi racconti brevi, quali Shisei (Il tatuaggio) e Shōnen (Adolescenti), ma soprattutto opere come Bushūkō hiwa (Vita segreta del signore di Bushū) e Hakuchū kigo (Morbose fantasie), con la loro “estetica della crudeltà” continuano ad essere un’inesauribile fonte di stimoli e d’ispirazione. Rischio di essere scontata ma non posso non citare Mishima Yukio con Kinkakuji (Il padiglione d’oro), Tayō to tetsu (Sole e acciaio) e Eirei no koe (La voce degli spiriti eroici). Potrei mai omettere Murasaki Shikibu e il Genji monogatari? No. Categoricamente impossibile. Sarà sempre una delle più grandi opere della letteratura mondiale, non solo giapponese.

Bg: Rimanendo in tema: c’è qualche opera o qualche scrittore cui vorresti rivolgere le tue attenzioni musicali in futuro? Quali progetti hai in cantiere?

RP: Al momento sto lavorando sulle liriche di Takamura Kōtarō: è in uscita proprio in questi giorni un vinile intitolato Transaparent winter, per l’etichetta inglese Blackest Rainbow, che presenta due pezzi ispirati ai testi del poeta dell’epoca Shōwa, ma rielaborati e dilatati, frutto di un lavoro di improvvisazione e composizione istantanea che catapulta le sonorità tipiche di PPOPG in una dimensione più sperimentale rispetto ai primi tre album.
Il 23 novembre parteciperò insieme ai MCIAA e allo scrittore inglese Ken Hollings (autore di Benvenuti su Marte) ad uno show radiofonico alla londinese Resonance: il titolo della performance è ‘Ghost Blood Spectrum’ e per l’occasione selezionerò delle liriche giapponesi incentrate su quella che definisco “l’estetica del sangue”. Il 25 novembre sarò in concerto con Painting Petals On Planet Ghost al Cafe OTO di Londra, venue di culto per la musica sperimentale contemporanea (http://cafeoto.co.uk/my-cat-is-an-alien.shtm).

Bg: Grazie ancora, Ramona, e in bocca al lupo per i tuoi progetti.

“Io sarò sempre lì”: lettera di un kamikaze alla figlia

Nell’ottobre del 1944, in piena seconda guerra mondiale, Uemura Masahisa aveva venticinque anni. Era un tenente, forse un ragazzo come tanti, arruolatosi per necessità o desiderio, chissà.
Ma soprattutto era padre di una bambina piccola, cui scrisse una tenera lettera prima di salire a bordo del suo aereo e compiere la sua ultima missione. Da kamikaze.

Motoko,
mi guardavi spesso sorridendo, avevi l’abitudine di addormentarti tra le mie braccia e facevamo il bagno insieme. Quando sarai grande e vorrai sapere chi fosse tuo padre, chiedi a tua madre e a tua zia Kayo. A casa è rimasto un album con mie foto. Sono stato io, tuo padre, a darti il nome Motoko, pensando che saresti divenuta una persona dolce e tenera, che si prende cura degli altri. Voglio essere sicuro che tu cresca felice e diventi una magnifica fanciulla, e anche se io muoio senza che tu possa conoscermi non dovrai mai essere triste.
Quando sarai grande e vorrai incontrarmi, recati al santuario di Kudan. Se preghi con tutto il tuo cuore, ti apparirà il mio volto, […] Anche se mi è capitata la peggiore delle cose, tu non devi considerarti una figlia senza padre. Io sarò sempre lì a proteggerti. Ti prego, prenditi cura degli altri con tutto il tuo amore.
Quando sarai cresciuta e comincerai a pensare a me, ti prego di leggere questa lettera.
Sul mio aereo, ho portato come portafortuna una bambola che ti avevo regalato alla tua nascita. In questo modo sarai sempre con me.

(lettera tratta da R. Calvet, Storia del Giappone e dei giapponesi, pp. 353-354)

Qui a lato: fotografia d’epoca di kamikaze.

Sushi o non sushi? La risposta in “Roma. Il mondo nel piatto”

Da qualche giorno in tv sta andando in onda una (imbarazzante) pubblicità in cui il testimonial, Francesco Totti, nelle vesti di cuoco giapponese, in risposta ad alcuni nipponici che lo hanno ringraziato con il consueto “arigatou”, precisa: “Macché rigatoni, è sushi!”.
Questa breve nota di costume mi fornisce l’occasione per parlare della dilagante presenza dei locali estremo orientali nella capitale: se fino a pochi anni fa ogni quartiere aveva la sua osteria in cui assaporare i piatti tipici romani, pare ora invece non esserci zona che non possa vantare un ristorante giapponese o, per lo meno, un sushi bar. Insomma: la coda alla vaccinara e la pajata sembrano essere state sostitute dai più leggeri maki di salmone o da un piatto fumante di ramen.
Come raccapezzarsi, dunque, in questa selva di offerte, talvolta più o meno discutibili sotto molti punti di vista (piatti snaturati, dubbia qualità, cibi mal conservati, etc.)? Per fortuna, la critica gastronomica Fernanda D’Arienzo, insieme al suo team, ha dato vita a una guida-bussola da portare sempre con sé (non a caso, ha il formato adatto per essere infilata nel cruscotto o nella borsetta), vale a dire Roma. Il mondo nel piatto – ed. 2011/12 (La Pecora Nera edizioni, pp. 252, €8,90).
Quest’anno, in linea con le novità nel panorama gastronomico su citate, il volume riserva una particolare attenzione ai numerosi locali in cui si può assaporare la cucina del Sol Levante, senza però tralasciare al contempo un panorama culinario etnico  a 360°, che spazia dal brasiliano al vietnamita.
Gli esercizi commerciali recensiti appartengono a tre diverse categorie: ristoranti, take away e food shop. Ogni ristorante è dotato di un voto da 1 a 10 e di una propria scheda in cui figurano una serie di informazioni utili (tipo di cucina, giorno di chiusura, carte di credito accettate…); completa il tutto una breve descrizione dell’ambiente, del servizio e del pasto consumato. Vale la pena sottolineare che gli autori hanno agito in anonimato, pagando di tasca propria il conto e basando dunque il giudizio su un’esperienza reale, non condizionata da trattamenti di favore.
Nella categoria food shop – dedicata a coloro che vogliono cimentarsi nello sperimentare a casa le diverse cucine del mondo – potete trovare non soltanto negozi di alimentari, ma anche pasticcerie, rivenditori di tè e di alimenti bio, macellerie, botteghe equo-solidali e molto altro.
Concludono la guida un utile glossario delle pietanze etniche e una serie di praticissimi indici in cui i locali sono suddivisi  in ordine alfabetico, per zona o per area geografica.
Insomma: Roma. Il mondo nel piatto è davvero una miniera di idee sia per i romani, sia per i turisti che, una volta nella Città eterna, sono preda dell’eterno dubbio: “Che famo? ‘Ndo annamo?”.

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