Mese: Febbraio 2012

A Roma incontro su “1Q84” di Murakami con Giorgio Amitrano e Maria Teresa Orsi

Ringrazio Francesca S. e Daniela per avermi segnalato questo interessante incontro che si terrà a Roma, dedicato a 1Q84 di Murakami:

«1Q84»: navigando in un mare di punti interrogativi
un’iniziativa a cura dell’Associazione culturale«Tokyoèvicina» e dell’Università Popolare di Roma: (altro…)

Alla scoperta dei manga e degli anime di fantascienza: “Nuove ere e nuove genesi” di Francesco Rossi

tanku tankuro
Tanku Tankuro, il primo manga-robot

Era il lontano 1934 quando, tra le pagine di un volume di Sakamoto Gajo, apparve Tanku Tankuro, il primo robot della storia dei fumetti giapponesi. Malgrado l’aspetto piuttosto curioso, sorprendentemente già racchiudeva in sé alcune particolarità che avrebbero contraddistinto i suoi successori: armi di ogni tipo, potenti strumenti per dominare cielo e terra, fattezze da samurai.

Di questa e d’altre storie che hanno contraddistinto l’evoluzione della fantascienza giapponese nell’ambito degli anime e dei manga ci racconta Francesco Rossi, (altro…)

Intervista a Silvia Pareschi, traduttrice di “Venivamo tutte per mare”

Bambini che giurano fedeltà alla bandiera americana. © Dorothea Lange

Dopo aver recensito Venivamo tutte per mare (qui il mio intervento), oggi sono felice di poter intervistare Silvia Pareschi, la traduttrice che ci ha dato la possibilità di leggere il romanzo di Julie Otsuka in una bellissima versione italiana.

Silvia ha tradotto mostri sacri del livello di Jonathan Franzen, Don DeLillo, Cormac McCarthy e E. L. Doctorow, solo per fare qualche nome, collaborando con Mondadori ed Einaudi.

Cura inoltre un blog, Nine hours of separation (http://ninehoursofseparation.blogspot.com), in cui annota da San Francisco – città in cui vive – riflessioni acute e spesso ironiche su letteratura, cultura, attualità e, naturalmente, sulla traduzione in tutte le sue sfaccettature.

 

Biblioteca giapponese (da ora abbreviata BG): Silvia, innanzitutto grazie per avermi concesso questa intervista.
Molte delle opere di cui ti sei occupata appartengono alla letteratura statunitense. Nel leggere e, successivamente, nel tradurre Venivamo tutte per mare – nato in seno all’idioma inglese – hai captato delle qualità (letterarie, stilistiche, linguistiche…) o degli scarti peculiari? Si percepisce insomma, a tuo parere, quella che, genericamente, potrebbe esser chiamata impronta giapponese? (altro…)

L’anima sintetica dell’arte contemporanea giapponese: “Kawaii art” di V. Testa

Marzo 2008, interno giapponese tradizionale. Il ministro degli Esteri Masahiko Komura è qui in veste ufficiale per nominare un nuovo ambasciatore, che avrà l’impegnativo compito di far conoscere la cultura nipponica all’estero. Eccolo: è alto press’a poco come il politico, ma ben più rotondo. Ha un colorito bluastro e non indossa il completo scuro di rito, ma nessuno pare farci caso.
E’ Doraemon, il gatto robot protagonista di una fortunata serie di cartoni animati nota in tutto il mondo. E tutti paiono essere soddisfatti della scelta del ministero.

In Giappone, il kawaii – vale a dire tutto ciò che è giocoso, tenero e “finisce in -ino” (cit. da Gomarasca – Valtorta) – non desta la sorpresa e le perplessità che lo accompagnano qui in Italia, dov’è spesso e frettolosamente giudicato stucchevole e infantile. Difatti, nel Sol Levante,  gode di tutt’altra credibilità, incarnandosi in un‘estetica pervasiva che ha contagiato persino l’arte contemporanea, come ben spiega Valentina Testa, laureata all’Accademia di Belle Arti di Brera, nel suo volumetto Kawaii Art. Fiori, colori, palloncini (e manga) nel Neo Pop giapponese (Tunué, pp.  96, € 9,70; in offerta a € 8,25  su Amazon.it cliccando qui), (altro…)

Una sola moltitudine: “Venivamo tutte per mare” di J. Otsuka

Poteva essere un mattino denso di nebbia o un tramonto piovigginoso. Alcune, trascinando le valigie, avevano già gli occhi umidi di tristezza; altre sorridevano e salutavano a gran voce.

Erano migliaia e migliaia. Tutte donne, tutte giapponesi, tutte in procinto di partire per sposare un anonimo conterraneo che viveva in America, dall’altra parte di un oceano che certe ragazze dell’entroterra non sapevano neppure immaginarsi. A ciascuna lui – e non importa se si chiamasse Kato, Jin o Tetsuya – aveva promesso una villetta, una Ford, un piccolo giardino ben curato con la staccionata appena dipinta.

Sbarcate a terra, trovarono mariti che le assaltavano nel sonno con furia, o che le guardavano appena; trovarono catapecchie in cui dormire e ville in cui servire in silenzio, e filari e filari da coltivare su cui spaccarsi la schiena sotto il sole della California per un padrone pallido mai visto. Trovarono figli indesiderati nel ventre e malattie sconosciute che prosciugavano il loro corpo, ricordo di qualche puttana amata una notte dall’uomo che aveva giurato loro fedeltà.

Le innumerevoli storie  di queste donne – sconosciute ai più e, forse, volutamente taciute da molte – sono state raccolte assieme in un’unica, grande voce corale da Julie Otsuka, artista statunitense  d’origine nipponica, nel suo Venivamo tutte per mare, tradotto dalla bravissima Silvia Pareschi (qui potete trovare l’intervista che mi ha rilasciato), edito da poche settimane per i tipi Bollati Boringhieri (pp. 142, € 14; ora in offerta su Amazon.it cliccando qui a € 11,05). (altro…)

“Giappone underground”: nelle viscere del cinema sperimentale giapponese degli anni ’60-’70

Notturno in bianco e nero. Un ragazzo con le lenti spesse canta sul tetto di un edificio, fissa l’orizzonte, o forse il vuoto. E’ ben pettinato, e la camicia bianca è stirata a perfezione. E’ un assassino, e prima ancora una vittima. Il suo destino è già scritto.

Questo l’incipit di Su su per la seconda volta vergine (Yuke yuke nidome no shojo, 1969) di Wakamatsu Kōji, capolavoro del cinema sperimentale giapponese del secondo dopoguerra: un cinema duro, crudo, violento, profondamente legato al clima di opposizione sociale e rinnovamento che si respirava in quegli anni in Giappone, in cui le proteste caratteristiche dell’epoca sessantottina erano in realtà sorte già da tempo quando l’Europa conobbe il maggio francese, diventato poi simbolo delle rivolte giovanili.

Per orientarci in questo universo torbido e poliforme – poco noto in Italia anche a causa del rifiuto operato da parte dei circuiti cinematografici e televisivi (con la lodevole eccezione del solito Ghezzi) – possiamo affidarci a Giappone underground. Il cinema sperimentale degli anni ’60 e ’70 di Beniamino Biondi (edizioni Il Foglio, 2001, pp. 133, 12 €; in offerta su Amazon.it cliccando qui a 10,20 €), che fornisce una panoramica sintetica ma ad ampio raggio sull’argomento, scansionata per registi, dei quali estrinseca la poetica e i significati delle scelte formali (talvolta azzardate ed estreme) proprio a partire dalla loro stessa produzione, con abbondanza di esempi.

In quegli anni, non pochi registi – rompendo bruscamente con le industrie cinematografiche e con l’establishment intellettuale – si dedicarono in modo intensissimo alla sperimentazione e alla ricerca di nuovi linguaggi che potessero rivelare il malessere e le contraddizioni di una società fagocitata dal capitalismo dilagante, in cui l’individuo (specie se appartenente agli strati sociali più bassi) non poteva che annichilirsi o straniarsi, sino a diventare altro da sé.

Mentre Sartre fumava al Café de Flore, a Parigi, disputando di politica e filosofia, alcuni cinfefili giapponesi battevano cantine, quartieri malfamati, bar d’infimo ordine per scovare idee e atmosfere, finendo per dare la parola persino ai luoghi stessi: lo dimostra Wakamatsu Kōji nel suo A.K.A. Serial Killer (Ryakushō renzoku shasatsuma, 1969), documentario dedicato a un serial killer, privo di attori, che racconta la vita dell’assassino facendo parlare gli stessi scenari degradati in cui si è svolta, costituendo così una perfetta applicazione della teoria del paesaggio, volta a dimostrare “come l’ambiente muti l’identità sociale e politica” (cit. di Adachi Masao), che ricorda la celebre formula “race, moment, milieu” (fattori ereditari, contesto sociale e momento storico sono determinanti per la costituzione di un individuo), coniata da Taine, teorico del naturalismo francese ottocentesco.

Moltissima parte delle pellicole nate a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta si presenta oggi ai nostri occhi dissacrante, oscura, incoerente, visivamente e contenutisticamente aggressiva. Il ricorso alla violenza è esplicitato in tutte le sue forme, non ultima quella sessuale: l’eros diviene una cassa di risonanza e, prima ancora, un linguaggio di opposizione e denuncia, talvolta non privo di letture allegoriche, come nel caso di Iimura Takahiko e Hara Kazuo. Per questa ragione, è possibile individuare nella produzione di questi anni numerose tracce del pinku eiga (letteralmente ‘cinema rosa’, da intendersi però come produzione erotica, spesso realizzata a basso costo e in tempi ristretti): per portare in scena il malessere delle fasce più deboli, escluse dalla buona società, si credeva fosse opportuno ricorrere a generi e stili artistici altrettanto outsider.  

Ma la rivolta (politica, ideologica, esistenziale), come ben spiega Biondi, non passò soltanto attraverso i contenuti, bensì anche per gli stessi strumenti stilistici ed espressivi, come dimostrano le esperienze di Obayashi Nobuhiko (celebre la sequenza della pianta che fa l’amore con una ragazza, tratta dal suo Huasu, ripresa da Sam Raini).

La realtà stravolta e violenta in cui si dibattevano uomini e donne in conflitto con se stessi e con il mondo poteva esser rappresentata soltanto da scelte formali coraggiose sino all’azzardo, spinte talvolta – di proposito o meno, a seconda della bravura del regista – ai limiti del trash, con incursioni nell’horror e nel grottesco: cromatismi deliranti, alterazioni improvvise nelle sequenze dei fotogrammi, collage, inquadrature stravolte e stravolgenti… I generi cinematografici si confondono tra loro, recependo al contempo stimoli e suggestioni dall’arte e del cinema occidentale; basti pensare all’influenza del mito di Edipo sul Funerale delle rose (Bara no Sōretsu; qui a sinistra un fotogramma), diretto da Matsumoto Toshio nel 1969.

Un caso a parte è rappresentato dalle pellicole di Mishima Yukio, in cui apparve nelle veste di semplice attore, oppure come ideatore e protagonista. A quest’ultima classe appartiene un’unica opera, entrata però nella leggenda: Patriotism (Yūkoku, 1966), ritenuta da molti premonitrice, dal momento che il personaggio principale, incarnato dallo scrittore, si dà la morte per seppuku (suicidio rituale).

Lo stesso Mishima fu uno dei bersagli preferiti di Terayama Shūji, autore dell’Imperatore Tomato Ketchup (Tomato kecchappu kōtei, 1970; qui a lato un fotogramma), in cui si scagliò sia contro il militarismo tanto apprezzato dall’autore del Padiglione d’oro, sia contro le alternative politiche, sociali e rivoluzionarie dell’epoca, dando vita a un film di non facile interpretazione e dai tratti visionari.

Quello underground fu insomma un cinema sfaccettato e ricco per temi, stili, polemiche, il cui spirito è forse in parte riassumibile nei versi struggenti e allucinati della canzone che apre Su su per la seconda volta vergine:

Mamma,
io  me ne vado!
Entro nella notte della città.
Un pranzo nudo,
un pranzo di sangue.

I labirinti di “1Q84” (Murakami) nel saggio di M. Soldo

Oggi ho il piacere di ospitare uno scritto di Mariella Soldo, apparso nel sito internet del GREC (Groupe de Recherche sur l’Extrême Contemporain), dedicato a 1q84 di Murakami Haruki.

Non si tratta della solita recensione, ma di un breve saggio volto soprattutto a mettere in risalto gli aspetti metanarrativi del romanzo (ossia quelli relativi al discorso dell’opera su se stessa e sui meccanismi della scrittura e della letteratura). Questo tema è forse sfuggito a molti lettori, assorbiti dalla trama, ma non al celebre book designer Chip Kidd che, di proposito, per la versione statunitense di 1Q84 (qui a destra) ha scelto una copertina formata da due immagini compenetranti,  indissolubilmente legate l’una all’altra.

Detto ciò, vi lascio alla lettura del lavoro di Mariella Soldo:

Ci sono libri inclassificabili, che sfuggono ai personaggi, alle trame, persino allo scrittore stesso, per non parlare del lettore. Ci sono libri, come 1Q84, che non si svelano e che fanno del mistero della narrazione, del suo impossibile e fallimentare controllo, un punto di forza.
1Q84 non è un romanzo, ma più romanzi che s’incrociano su piani diversi della realtà, per confondersi, senza mai tradirsi.
I protagonisti sono Aomame e Tengo, un’assassina e un aspirante scrittore, che sembrano vivere in un mondo parallelo al 1984, in cui avvengono fenomeni inspiegabili, come la presenza di due lune. Apparentemente, Aomame e Tengo non si conoscono, ma le loro vite si attraggono.
Quest’ultimo lavoro di Murakami riassume quasi la sua opera intera, dal momento che alcune tematiche ricorrono spesso. Lo scrittore si dimostra, ancora una volta, un abile narratore, che sa alternare momenti di forza e di debolezza all’interno di un romanzo.
La grande protagonista è, dunque, la narrazione, sconfinata, quasi labirintica, a scapito però dello stile, che, all’occhio di un lettore più esigente, può risultare nel complesso banale.
Per poter dare un giudizio definitivo, occorre aspettare il terzo libro che completerà la trilogia, sperando che quest’ultimo non risolva i misteri, come un semplice giallo, ma li lasci in sospeso, per poter permettere anche a noi di creare mondi, a partire da un romanzo così complesso.

«Anno 1Q84. Ecco d’ora in poi lo chiamerò così», decise Aomame. Q è la Q del question mark, il punto interrogativo.
Camminando, Aomame annuiva da sola.
«Che mi piaccia o no, adesso mi trovo in questo anno 1Q84. Il 1984 che conoscevo non esiste più da nessuna parte. Ora è l’anno 1Q84. L’aria è cambiata, il paesaggio è cambiato. Devo adattarmi il più in fretta possibile a questo mondo con un punto interrogativo. Come un animale che è stato trasportato in una nuova foresta, che per proteggersi e sopravvivere deve capire il più presto possibile le regole del luogo, e adattarvisi». (p. 141-142)

Andiamo al cinema a vedere un libro?

Vi segnalo un’iniziativa molto interessante dell’Istituto giapponese di cultura di Roma (via Gramsci 74, http://www.jfroma.it/), Il cinema giapponese legge i classici: a partire da martedì 21 febbraio sino al 22 marzo, ogni settimana saranno proiettati due film ispirati a libri celebri della letteratura giapponese. Le proiezioni iniziano alle ore 19.

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Martedì 21 febbraio
I’M A CAT
di Kon Ichikawa
(Wagahai wa neko de aru, 1975, C, 115’, 35mm)
lingua originale , sottotitoli in inglese

 
Giovedì 23 febbraio
THE MAKIOKA SISTERS
di Kon Ichikawa
(Sasameyuki, 1983, C, 140’, 35mm)
lingua originale , sottotitoli in inglese

 
Martedì 28 febbraio
LA MOGLIE DI VILLON
di Kichitaro Negishi
(Viyon no tsuma, 2009, C, 114’, DVD)
lingua originale , sottotitoli in italiano

 
Giovedì 1 marzo
FIRES ON THE PLAIN
di Kon Ichikawa
(Nobi, 1959, B/N, 104’, 35mm)
lingua originale , sottotitoli in inglese

 
Martedì 6 marzo
THE ECHO
di Mikio Naruse
(Yama no oto, 1954, B/N, 94’, 35mm)
lingua originale , sottotitoli in inglese

 
Giovedì 8 marzo
THE KI RIVER
di Noboru Nakamura
(Ki no kawa, 1966, C, 173’, 16mm)
lingua originale , sottotitoli in inglese

 
Martedì 13 marzo
THE WOMAN IN THE DUNES
di Hiroshi Teshigahara
(Suna no onna, 1964, B/N, 122’, 35mm)
lingua originale , sottotitoli in inglese

 
Giovedì 15 marzo
SILENCE
di Masahiro Shinoda
(Chinmoku, 1971, C, 130’, 16mm)
lingua originale , sottotitoli in inglese

 
Lunedì 19 marzo
TSUGUMI
di Jun Ichikawa
(Tsugumi, 1990, C, 105’, 16mm)
lingua originale , sottotitoli in italiano

 
Giovedì 22 marzo
RINCO’S RESTAURANT
di Mai Tominaga
(Shokudo katatsumuri, 2010,C, 118’, 35mm)
lingua originale , sottotitoli in inglese

Speciale san Valentino: l’amore nella letteratura giapponese

Al liceo, per qualche tempo, le mie amiche ed io avevamo preso l’abitudine di scambiarci nel giorno di san Valentino dei pensierini che testimoniassero il nostro affetto: un biglietto, un cioccolatino a forma di cuore, un oggetto da nulla scambiato sotto il banco.

Ecco, considerate questo speciale san Valentino, dedicato all’amore nella letteratura giapponese presentato in diverse forme (poetica, erotica, ironica, drammatica…), come un piccolo regalo per voi. Per leggerlo e scaricarlo nel vostro computer, è sufficiente cliccare qui e salvarlo sul vostro computer.

I brani e le poesie che troverete sono tratti da opere ed epoche molto diverse tra loro: si va dalle antiche liriche del  Kokin Waka shū per arrivare sino a 1Q84 di Murakami. Ho voluto intercalare i testi con le bellissime illustrazioni dell’artista Tanji Yōko, che mi paiono molto evocative e capaci di proiettare lo spettatore in un’avvolgente dimensione onirica, in cui le ragazze sognano sulla luna e una coppia ha sotto gli occhi l’intero cosmo.

Approfitto di questo spazio per ringraziare i miei amici Faiza e Nino, amanti come me degli haiku, per i consigli e le risate, e voi tutti che mi seguite. Buon san Valentino a tutti, che lo festeggiate o meno. 🙂

Immagine tratta da qui.

 

Hanshichi e la città delle ombre

detective hanshichi delitti città di edoApparentemente, credi solo di essere immerso nella lettura di un libro. Poi, inizi un racconto a caso e tutto scompare, per lasciare posto a una città dimenticata. Si dissolvono poco a poco le pareti della stanza, e le finestre, le porte, gli oggetti; al loro posto spuntano vivaci botteghe di legno, piccoli banchi che vendono pesce per la strada, fili su cui ondeggiano kimono messi ad asciugare al sole. Il silenzio si sfilaccia e sorge un allegro frastuono: i bambini ridono a voce alta, le vicine chiacchierano tra loro, mentre i venditori di patate arrosto incoraggiano i clienti con grida insistenti.

Ecco, questo è Detective Hanshichi. I misteri della città di Edo di Okamoto Kidō (1872 – 1939) (trad. a cura di P. Ferrari; O Barra O Edizioni, 2011, pp.  240, € 14; ora in offerta su Amazon.it a € 11,90 cliccando qui), uno dei padri del genere poliziesco in Giappone. Il volume (che a brevissimo sarà seguito da un secondo) racchiude una piccola ma significativa parte del corpus giallo dello scrittore (sviluppatosi  tra il 1917 e il ’37), ospitando undici suoi racconti mai editi prima in Italia, preceduti da un’ottima introduzione del curatore americano, lo studioso Ian MacDonald. Distaccandosi dalla produzione precedente, costituita tra l’altro da materiali di origine cinese (come Tōin hiji monogatari, Casi uditi sotto il cespuglio di ciliegie cinesi, tradotti nel 1649) e autoctona (si pensi per esempio a Honchō ōin hiji, Casi uditi sotto l’albero di ciliegio giapponese, pubblicati nel 1689 da Ihara Saikaku), e dai resoconti di cronaca nera apparsi sui giornali alla fine del diciannovesimo secolo, Kidō inaugurò il poliziesco ‘alla giapponese’, non esente però da numerose influenze, compresa la saga di Sherlock Holmes di  Arthur Conan Doyle.

 A leggerle oggi – abituati come siamo a qualsiasi tipo di orrore spettacolarizzato dai mezzi d’informazione – le vicende narrate ci paiono quasi ingenue, anche se è inevitabile provare ammirazione per il fiuto di Hanshichi e, ancor di più, simpatia per il suo carattere. Burbero, pragmatico, a volte ironico sino al sarcasmo e capace di sorridere dei suoi errori (come ne La stanza sopra i bagni), l’uomo sa però mostrarsi all’occorrenza sensibile e generoso, dal momento che, pur credendo fermamente nella giustizia, non ne è mai soggiogato. La “lunga faccia magra decisamente singolare, con un naso prominente e occhi espressivi […] gli [dà] l’aria di un attore di kabuki”: e Hanshichi, in fondo, attore lo è davvero per la capacità di adattarsi a qualunque situazione con naturalezza. L’ispettore, infatti, sa stare a suo agio tra samurai, religiosi e comuni cittadini, sfruttando a suo favore vizi e virtù di ogni classe sociale, facendo leva se necessario sull’onore di una dama o sul timore delle percosse da parte di un giovane furfante.

Tutti i racconti di Hanshichi sono ambientati nella Edo (la vecchia Tokyo) del pieno Ottocento, tra gli anni Quaranta e Ottanta, quando ancora non era stata pienamente travolta dal turbine della modernizzazione. Ed è lei, in fondo, la vera protagonista delle storie: una città senz’altro pittoresca, con le sue strade affollate e gli improvvisi, stupefacenti scorci, ma anche rumorosa, ambigua, contraddittoria, pronta a dare riparo nei suoi bassifondi a malviventi di ogni risma o inquietanti spettri assetati di vendetta. Una città di vicoli morti e di angoli lividi, che certo avrebbe conquistato il Tanizaki del Libro dell’ombra, e della quale Kidō appare nostalgicamente innamorato. E’ probabilmente per questa ragione che le sue pagine appaiono vivide, stilizzate, eppure così piene di poesia, anche quando la sua penna si sofferma a descrivere quartieri malfamati e attività umilissime. Persino il rintocco di una campana che scuote le stelle nella notte, il passo leggero di un ladro sul muschio o i calli dei mignoli attragono l’attenzione dell’autore, impaziente di ricreare pennellata dopo pennellata un mondo tanto vagheggiato quanto perduto.

Le giornate avevano cominciato ad accorciarsi, e quando la campana della sera suonò le sei, l’interno della piccola casa era ormai quasi buio. Okame venne sulla veranda con una fiaschetta di sakè, alcuni involtini e qualche fascio di susuki, le cui fronde frusciavano nella fredda brezza serale che si faceva sentire fin dentro al kimono senza fodera di Hanshichi. Era ora di cena, sicché il detective si fece comprare da Okame, in un negozio del posto, alcune anguille cotte alla griglia di cui offrì una parte alla sua ospite e alla figlia, sentosi a disagio a mangiare da solo.
Terminata la cena, il detective tornò nella veranda con uno stuzzicadenti dondolante dalle labbra e alzò gli occhi al vasto oceano del cielo blu scuro che si stendeva sopra di lui, irregolarmente diviso dalle gronde sovrapposte delle case nella stradina. La luna piena non si era ancora alzata, ma a oriente il pallido brillio giallino al limite di alcune nubi annunciava il suo arrivo. La rugiada che aveva cominciato a cadere mentre cenava all’interno, scintillava ora sulle foglie avvizzite di due campanule in vaso esiliate nel giardino, apparentemente non più bene accolte in casa.

(brano tratto da La dama di compagnia, p. 220)

Immagine tratta dall’Edo Meisho Zue (I siti famosi di Edo illustrati), pubblicato tra il 1829 e il 1836.

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