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Il rumore dolce del tempo: “Musica e danza del principe Genji”

[…] La maestosa Amenouzume appese fresche fronde del profumato monte del cielo alla corda che le rimboccava le maniche, si acconciò la capigliatura con una bella ghirlanda, e adornò le braccia con erbe e foglioline dei bambusa del profumato monte. Sistemò poi presso la porta della rocciosa stanza del cielo [ossia la caverna in cui si era rinchiusa la dea Amaterasu, irata contro il fratello Susanowo] un recipiente capovolto, vi batté sopra i piedi con un baccano così assordante da restarne spiritata, fece penzolare fuori le mammelle e abbassò la cintola del vestito fino a mostrare il sesso. Le pianure del sommo cielo sobbalzarono e uno scoppio di risa di levò da tutte le otto centinaia di miriardi di esseri.
Amaterasu grande sovrana e sacra, incuriosita, aprì uno spiraglio nella porta della rocciosa stanza. […]
(tratto da Kojiki. Un racconto di antichi eventi, a cura di Paolo Villani)

E’ questo senz’altro uno dei passi più celebri del Kojiki, capolavoro della letteratura e della mitologia giapponese, che immortala con pochi e intensi tratti una curiosa ma efficace forma di danza. Su questa e su molte altre manifestazioni estetiche si sofferma il bel saggio Musica e danza del principe Genji. Le arti dello spettacolo nell’antico Giappone dell’etnomusicologo Daniele Sestili (ed. LIM – Libreria Musicale Italiana, pp. 190, € 19), che offre una ricca panoramica sulla raffinatissima epoca Heian (794-1185), con un’ampia pluralità di prospettive, proponendosi al contempo come un testo godibile da un largo pubblico per chiarezza e fluidità. Lo studioso non soltanto analizza i repertori (musicali, coreutici, corali…) tipici del tempo – insieme alle circostanze, ai ruoli e ai significati in cui essi si dispiegavano -, ma riesce soprattutto a ridestare il fascino imperituro di tutta un’epoca. L’autore ha inoltre corredato l’opera di cinque utili appendici, che aiutano il lettore a destreggiarsi meglio con gli argomenti trattati; all’interno di esse trova posto il saggio Il Genji monogatari visto attraverso la musica di Yamada Yoshio, che evidenzia in quali maniere, adoperando lo studio degli strumenti e delle tecniche musicali, sia possibile datare con maggior precisione il periodo storico in cui il romanzo è ambientato.

Grazie alla stabilità politica e alla maturità raggiunta dalla cultura nipponica (fecondata anche da apporti cinesi, coreani, indiani), la ristrettissima aristocrazia del periodo Heian poté dare vita a un insieme di pratiche improntate alla <<legge del gusto>>, volte da un verso a intessere e consolidare relazioni interpersonali (con ovvi risvolti politici), dall’altro a esaltare il carattere sublime ed élitario della classe nobiliare.

All’interno di questo scenario si collocava naturalmente anche la musica, che non svolse la funzione di mero sottofondo armonico, ma costituì una delle massime espressioni artistiche dell’epoca, nonché un’attività molto ricorrente nella quotidianeità dei blasonati, che individuarono in essa un fondamentale tramite per portare alla luce il mono no aware, il “sentimento delle cose” che svela la caducità di tutto ciò che ci circonda con delicato pathos.

Melodie e danze heian – coppia spesso inscindibile – si incarnavano principalmente in due tipologie, non esenti da contaminazioni reciproche o di provenienza popolare: la gagaku, legata ai riti e alle solennità della corte, e la miasobi, l'”augusto svago” amato e coltivato con assiduità da uomini e donne titolati.

Daniele Sestili, nel trattare ciò, non si limita a prendere in considerazione soltanto elementi di teoria o storia della musica, ma realizza un vero e proprio affresco del periodo storico, comprendente forme artistiche anche molto diverse tra loro (calligrafia, poesia, danza, canto, architettura, moda…), accomunate però dall’ideale heian – influenzato dal pensiero taoista (di origine cinese) e dal sostrato autoctono shintō –  che voleva tutte le attività umane “[…] specchio fedele dell’armonia presente nel cosmo”. Ciò non implicava un’imitazione pedissequa della natura, anzi. L’optimum era infatti rappresentato proprio da quel che era in grado di inserirsi con spontaneità e grazia nel paesaggio circostante:

[Genji a Tamakatsura]: Sai quello che mi piace? Suonare uno strumento come il tuo in una fresca sera d’autunno, quando la luna è alta, stando seduto proprio accanto alla finestra. Allora si suona in concerto con le cicale, inserendo il frinire nell’accompagnamento. Ne risulta una musica che è intima, ma al tempo stesso tutta moderna.
(tratto dal Genji monogatari di Murasaki Shikibu)

‘Moderno’ (imamekashi) fu una delle parole d’ordine dei secoli heian ma, paradossalmente, non entrò mai in conflitto con il carattere rituale e sacrale che molta musica nipponica custodisce tuttora in sé, retaggio di una fase – ormai persa nella notte dei tempi – in cui si adoperava  la cetra per consultare gli dèi, o si eseguivano danze per propiziare il raccolto: per questa ragione, numerose manifestazioni connesse all’ambito melodico presentavano strutture, forme e linguaggi (figurativi, espressivi, cinetici…) altamente codificati. La foggia e i colori di un abito, la scelta dei materiali (legni pregiati, carta, seta…) e degli accessori (spade, maschere, rami e fiori…), il timbro d’uno strumento o un’inclinazione particolare della voce: nulla era lasciato al caso, perché – ben prima di essere un mero intrattentimento, come già accennato sopra – la musica rivestiva molteplici altre funzioni.

In primis, dal momento che ciascuna classe era dotata di generi, strumenti e tecniche peculiari, essa fungeva da mezzo di identificazione comunitario e, nel caso dei nobili, di celebrazione del proprio elevato status, poiché rispecchiava la sopraffine estetica degli yokihito (le “persone di qualità”); come se non bastasse, le manifestazioni musicali venivano utilizzate per intessere e rafforzare relazioni (è questo il caso, per esempio, del corteggiamento), adempiere obblighi religiosi e sociali, rinconciliarsi con la natura, entrare in contatto con i numi e tentare di riprodurre sulla misera terra le bellezze del paradiso, al punto tale che persino gli animi più duri erano costretti a piegarsi all’incanto:

Seguì un gran concerto, nel quale fu eseguito con mirabile effetto il brano <<Ci fu mai giorno come questo?>>. Perfino i mozzi e i facchini […] stavolta tesero l’orecchio e di lì a poco ascoltavano a bocca aperta, stupefatti e rapiti. Perché era impossibile che gli strani acuti tremoli del Modo di primavera [=sōjō], che l’insolita bellezza della notte rendeva ancor più intensi, non commovessero persino le più insensibili creature umane.
(tratto dal Genji monogatari di Murasaki Shikibu)

 

“Né di Eva né di Adamo” di Amélie Nothomb: un amore in Giappone

adamo e eva tokyo
Statua di Adamo ed Eva a Tokyo

Se abbia visto prima la luce l’uovo o la gallina, è questione che i filosofi, dai tempi di Aristotele, non sono ancora riusciti a sciogliere. Per quanto riguarda la nascita dell’amore tra la cosmopolita Amélie e Rinri, la soluzione si annida senz’altro fra le uova, anzi, per esser più precisi tra le “‘œufs” che lei, in veste di improvvisata insegnante di francese, tenta in ogni modo di far pronunciare correttamente al giovane studente giapponese.

E così, a colpi di simil-fonduta svizzera, okonomiyaki ed espressioni improbabili, tra i due si stabilisce una relazione tenera eppure contraddittoria, raccontata con ironia e sincerità nel breve romanzo Né di Eva né di Adamo di Amélie Nothomb (traduzione di M. Capuani; Voland, pp. 169, € 8, in offerta a 6,80), ambientato in una Tokyo opulenta e a tratti conformista, sul finire degli anni Ottanta. (altro…)

“La grazia sufficiente” e le strade dell’uomo

Vi fu un tempo, nel medio evo, in cui i dotti e i pensatori disputarono alacremente circa il numero di angeli capaci di danzare sulla punta di uno spillo. Non si trovò una soluzione univoca.

Alcuni secoli più tardi, in un’Europa che vede il Rinascimento cedere al Barocco, lo sguardo dei dotti s’alza al cielo e va a frugare nell’imperscrutabile volontà divina, per cercare risposte alle nuove inquietudini suscitate dalla diffusione del protestantesimo. Chi può un giorno aspirare alla gloria post mortem? Valranno qualcosa le opere di bene, i lunghi digiuni, le interminabili litanie, o è sufficiente la grazia concessa dal Signore? Dio nel segreto ha già stabilito i prescelti per il Suo regno, e dunque nessun gesto umano è in grado di mutare la sorte assegnata?

Le contese teologiche ben presto si legano a quelle politico-economiche e, dal cuore del Vecchio continente, raggiungono persino le sponde del Giappone, arcipelago noto tra il Cinquecento e il Seicento per le merci rare e preziose che offre ai mercanti intrepidi pronti a sfidare oceani e tempeste pur di accapparle. Baruch Dekker – ci racconta Giancarlo Micheli nel suo denso romanzo La grazia sufficiente (Campanotto, pp. 117, € 13; disponibile su Amazon.it cliccando qui a € 11,05) – è uno di questi. Ebreo olandese che ha abbandonato famiglia e patria sin da bambino pur di confondere il suo destino con quello dei flutti, giunto all’apice della sua carriera come capitano, finisce per naufragare rovinosamente nella baia di Nagasaki.

Da quella che pare esser la sua fine si origina invece una nuova vita, segnata dall’avventurosa ricerca del conterraneo Deyman – ora al servizio dello shogunato dei Tokugawa – e, soprattutto, di un complesso equilibrio con una cultura ermetica a partire già dai suoi caratteri di scrittura, capace però di dispiegare con generosità le sue meraviglie a tutti coloro che le si accostano con riverenza. Simile a un Ulisse che ben conosciamo, il navigatore intraprende il viaggio per le lande orientali negli anni in cui, nelle sue terre, sta nascendo un più celebre Baruch, destinato a divenire uno dei fondatori della filosofia moderna. Il cammino – che copre larga parte della prima metà del XVII secolo, una delle ere più travagliate della storia nipponica – è costellato di lotte fra clan rivali, persecuzioni contro i missionari cristiani, astuti espedienti e colpi di scena, ma rivela anche imprevedibili bellezze, impreziosite da una grazia tutta umana: le raffinatezze del teatro Nō, la squisita fattura dei versi del Kokin waka shū, la profondità incommensurabile dei testi degli illuminati.

A questa storia, con somma naturalezza, si intreccia quella novecentesca di Taisho, giovane di umili origini, ma fiero del suo modesto lavoro per la buona causa del  Monbushou, il ministero imperiale promotore di un’educazione rispettosa dei principi tradizionali nipponici, nel contempo attenta ai moderni valori occidentali. La sua esistenza è scandita da piccole cose: la livrea da usciere ben stirata, il passo marziale e un poco ridicolo, la ciotola di riso consumata in compagnia l’amata madre, devota al culto del marito ucciso in guerra per la grandezza del Giappone. Il ricordo paterno perseguita Taisho che, schiacciato dai sensi di colpa, si arruola volontario, pronto a sacrificare la sua vita combattendo contro i cinesi per il controllo della Manciuria (avvenuto nel 1931), in nome di un imperatore e di un paese che ripagano la sua devozione con un regolare salario da soldato e una baionetta per compiere onorevolmente seppuku (il suicido rituale) in caso di prigionia. Ma qualunque nobile gesto nelle sue mani sembra però destinato a tradursi in una malinconica e goffa pantomima, dal momento che Taisho, a dispetto del suo appellativo – intrepretabile fra l’altro come “grande vittoria” e “sonora risata” – non sa esser soddisfatto di sé: lo stato richiede obbedienza, l’ordine sociale rigore, la famiglia virtù, ed egli non è in grado di onorare tutto ciò.

La grazia sufficiente, sotto la veste di romanzo, nasconde in realtà un consistente midollo filosofico e spirituale. E’ un’opera colta, elaborata, a tratti impervia, dalle pagine levigate con acuta perizia. E il linguaggio – tanto cesellato e preciso da mostrare talvolta resistenze al lettore impaziente – custodisce tra i suoi termini ricercati, le sue volùte ampie, le sue inclinazioni inattese un tesoro che va al di là dello stile. Questa lingua senza tempo è fatta per raccontare una storia senza tempo: quella dell’anima.

Tra cantieri navali chiassosi e monumentali a ridosso dei mari del Nord, in piccole stanze chiuse da tatami e shōji, nelle baie meste dove riposano i naufraghi sognando il mare con una preghiera salata tra le labbra disseccate, in qualunque luogo e epoca, l’uomo ha sempre interrogato la propria coscienza: cosa ha valore e, soprattutto, cosa esiste davvero? La libertà di scelta, o l’esser prescelti da un destino casuale, celeste, beffardo, quale che sia?

Per la salvezza è necessaria la grazia sufficiente racchiusa in un benevolo sguardo divino, o quella ancor più rara dell’animo che – come giunco o stilla d’acqua – accetta serenamente la sua sorte, finita e inquieta. Perché, sebbene “[…] la via suprema non [abbia] nome e il discorso supremo non  [abbia] parole”, la sola Via reale è quella che percorriamo.

“Neve sottile” e il bookcrossing

Nei confronti del bookcrossing promosso proprio da me qui all’interno di Biblioteca giapponese, ammetto di esser stata sempre un po’ scettica. A nessuno pareva interessasse granché, e i libri che avrei voluto percorressero l’Italia se ne stavano invece mogi mogi sullo scaffale. Poi è arrivata l’estate.
Morbose fantasie di Tanizaki è finalmente volato in Puglia, da Federica, che lo ha adottato per un mese; nel frattempo, due lettrici del blog, Eleonora e Alessia si sono incontrate in quel di Pisa, e si sono prestate a vicenda Norwegian Wood di Murakami e Neve sottile, sempre di Tanizaki. Quella che segue è una recensione di quest’ultima opera, realizzata da Alessia e pubblicata anche in Sol-Levante. Che dire? Non posso che essere contenta e sperare che i volumi in viaggio siano sempre di più. 🙂

Un post notato per caso sul web, una e-mail, un appuntamento. Nasce così questa esperienza di bookcrossing, dal profumo di Giappone. E così, il libro di Tanizaki, “Neve Sottile”, dalle pagine un po’ ingiallite dal tempo, finisce nelle mie mani di lettrice appassionata di cultura nipponica. Di Tanizaki sensei, conoscevo solo il nome, ma la trama del libro mi è piaciuta fin da subito. Quelle vicende familiari che sono comuni a qualsiasi cultura, mi ricordavano i Bennet della Austen, o le sfortunate sorelle di Piccole Donne.
Ci troviamo ad Osaka dove la famiglia Makioka è rispettata e conosciuta, nonostante non possa più mantenere lo stile di vita agiato di un tempo. D’altronde, la guerra è alle porte e lo Stato in sè sta vivendo un periodo di crisi. Le vicende si svolgono a partire dal 1938 e, per tre anni, il lettore seguirà il susseguirsi di eventi che vedono come protagoniste le quattro sorelle. Tsuruko è la primogenita, fortemente legata al rispetto delle tradizioni e impegnata nel mantenimento del buon nome della famiglia, insieme a suo marito, divenuto il capofamiglia. Il suo carattere scostante e tendenzialmente freddo la differenzia dalle sorelle, dalle quali spesso si troverà isolata (e questo non solo perchè si vedrà costretta a trasferirsi a Tokyo). Sachiko, invece, con la sua premura e la sua emotività, cerca di occuparsi delle due sorelle minori, Yukiko e Taeko (la piccola Koi-san), entrambe il “motore” delle varie vicende che vedono come protagonista la famiglia. Yukiko e Taeko incarnano perfettamente il contrasto tra tradizione e modernità, occidente ed oriente, che traspare per tutta la durata del libro. Yukiko, ormai trentenne, con la sua riservatezza e compostezza, nel suo kimono affronta, uno dopo l’altro, i diversi miai, alla ricerca di un marito. Taeko, costretta ad attendere il matrimonio della sorella prima di sposarsi, come da tradizione, ha un carattere ribelle, veste abiti occidentali, si trova un lavoro e vorrebbe raggiungere l’indipendenza economica. Con le sue “avventure” amorose contribuisce ad aggiungere al romanzo dei colpi di scena, ponendo le sorelle di fronte a scelte e situazioni impensabili per una famiglia tradizionale.
La storia è a tratti forse troppo stagnante nella routine della vita quotidiana, la traduzione un po’ datata del testo non aiuta a rendere scorrevole la lettura, ma nel complesso, un bel libro. Un racconto corale di una famiglia che, come il Giappone, si trova a dover accettare dei cambiamenti, a scendere a compromessi. Ma sullo sfondo, i ciliegi continuano a fiorire dopo che la neve, leggera e sottile dell’inverno, si è disciolta.

Immagine di un giardino giapponese coperto, appunto, da una neve sottile tratta da qui.

“Mangascienza”: il futuro è qui

Centocinquant’anni fa circa, se qualcuno avesse menzionato i manga in un salotto buono di Parigi, molti avrebbero forse sorriso al pensiero degli omonimi schizzi di Hokusai che allora circolavano tra artisti e intellettuali, destando interesse e di certo qualche perplessità. Pochi avrebbero scommesso che quei disegni rapidi potessero un giorno – dopo profonde evoluzioni – finire per incantare i loro discendenti e, probabilmente, nessuno avrebbe neppure immaginato che, in questa nuova forma, sarebbero riusciti a condensare speranze e inquietudini  dei posteri.

Quest’ultimo punto è ampiamente trattato in Mangascienza. Messaggi filosofici ed ecologici nell’animazione fantascientifica giapponese per ragazzi (Tunué, pp. 259, € 16,50; ora in offerta su Amazon.it cliccando qui a € 14,03), in cui Fabio Bartoli presenta lo sviluppo degli anime collegandolo ai paralleli cambiamenti che hanno mutato (e a volte sconvolto) il volto del Sol Levante. La storia di questo paese, soprattutto a partire dal 1868 – anno inaugurale dell’epoca Meiji e della modernizzazione – è stata caratterizzata da un rapporto ambiguo con la tecnologia: dapprima appresa in modo spasmodico guardando ai modelli europei e americani, poi subìta (soprattutto nel corso della seconda guerra mondiale; si veda la tragica esperienza delle bombe atomiche), infine integrata nel quotidiano.

Una relazione equivoca tra individui e tecnica, in fondo, ha da sempre coinvolto anche l’occidente, come dimostra l’antichissimo mito di Prometeo, nume tutelare del volume. Toccato dalla mancanza di qualità nell’uomo (conseguenza della disattenzione di Epimeteo), il titano decise di aiutare la “scimmia nuda” (per dirla come Morris) rubando i tesori di Atena (in primis, l’intelligenza e la memoria) e il fuoco di Efesto, attraverso i quali foggiare un nuovo mondo in cui la cultura e la lungimiranza si sarebbero dovute coniugare a un saggio uso delle arti meccaniche. A causa del suo duplice furto, Prometeo venne duraramente punito da Zeus: legato a un’alta roccia, fu preda della furia di un’aquila che ogni giorno gli divorava le viscere. Il padre degli dèi aveva già intuito quale terribile dono era stato concesso agli uomini: attraverso la tecnica, essi sarebbero riusciti a trasformare la loro sorte, mettendo però a repentaglio se stessi e la terra che li ospita. E così è stato.

Partendo proprio da questa leggenda, Fabio Bartoli delinea sinteticamente più di duemila anni di storia, scienza e pensiero occidentale, evidenziandone le connessioni e i punti chiave. Questa – che potrebbe di primo acchitto apparire superflua – è in realtà un’operazione sagace, che mira a illuminare non soltanto il nostro complesso rapporto con la tecnologia, ma anche le numerose stratificazioni in cui, dagli ultimi decenni del secondo millennio, si è situato il duplice fenomeno manga/anime,  con tutte le implicazioni ideologiche di cui è foriero; inoltre, è bene sempre tenere a mente che questo scenario ha fortemente influito sul contesto giapponese che, in alcuni casi, ha tentato di conformarsi ad esso persino a scapito della propria identità. L’autore di Mangascienza, dando prova di intelligenza, ricostruisce anche i milieu (politici, culturali, economici…) giapponesi a partire dal XVII secolo, fornendo così le coordinate essenziali per comprendere meglio le manifestazioni del pensiero e delle arti autoctone, tra le quali si annoverano senza dubbio anche i disegni animati, non riducibili a semplici mezzi di intrattenimento per bambini e adolescenti, ma strumenti per trasmettere alle nuove generazioni propositi e valori in vista della costruzione di un’umanità migliore.

Poggiando su solide basi teoriche – che attingono all’opera di scienziati, filosofi, storici, intellettuali – Fabio Bartoli articola un discorso vivace e multidisciplinare, dedicando ampia attenzione agli effetti dell’iperestensione culturale, ossia di un progresso che procede in modo talmente rapido da originare un dislivello profondo con la stessa capacità umana di domarlo e indirizzarlo a scopi benefici. Esso ha subito un incremento nelle nazioni occidentali soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale, per poi propagarsi anche all’estremo oriente. Testimonianza di ciò sono proprio gli anime, in special modo quelli di fantascienza: attraverso la rappresentazione di un mondo futuristico fictionale, essi hanno voluto delineare i dilemmi e le difficoltà con le quali saremo destinati a confrontarci se finiremo per esser vittime – e non più signori – dei nostri ritrovati tecnologici e scientifici, quali l’ingegneria genetica, le armi nucleari, le forme di sfruttamento intensivo dell’ambiente. In particolare, i pericoli per l’uomo paiono provenire da tre tipi di conflitti, sintetizzabili da altrettante figure mitologiche: vittime e protagoniste dello scontro sarebbero la madre terra (Gea), la tradizione (Mnemosine) e l’evoluzione naturale (Epimeteo).

Mediante il ricorso a robot dall’etica samuraica o a imponenti mecha, inscenando il dramma degli orfani dell’atomica o di mondi lontani sull’orlo del baratro, i creatori di anime hanno tentato e tentano tuttora di sensibilizzare le coscienze dei lettori (giovani e non). L’autore conduce in proposito un’analisi serrata e approfondita, ricca d’esempi, godibile tanto da specialisti quanto da semplici appassionati, che si estende anche alla corposa appendice comprendente cinquanta schede, ciascuna dedicata a una diversa serie animata, di cui vengono sottolineati temi e strategie ideologiche e narrative. E così, partendo da Astroboy (1963) per arrivare sino a Last Exile (2003), passando per Neon genesis Evangelion, Mazinga Z e molti altri, fra le pagine riecheggia una speranza per il futuro prossimo: che l’uomo possa finalmente far germogliare il seme racchiuso nel nome stesso di Prometeo, “colui che pensa prima”. Prima che sia troppo tardi.

“Kokin waka shū”, o dell’eternità

Chiamiamo «classico un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari degli antichi talismani», scriveva Calvino oramai qualche decennio fa.

La definizione mi è tornata alla mente in una sera pungente di novembre, tenendo tra le mani il Kokin Waka shū (edizione italiana curata dalla grande studiosa Ikuko Sagiyama per Ariele, pp. 686, € 34), prima tra le ventuno antologie imperiali di lirica classica giapponese. Quello che, apparentemente, sembrerebbe un volume di liriche, è in realtà uno scrigno che dall’inizio del X secolo d. C. custodisce un inestimabile tesoro letterario, composto da ben millecento composizioni (più undici in origine cancellate), prevalentemente waka, il genere nipponico per eccellenza, che si struttura in brevissime poesie scandite da cinque versi di 5-7-5-7-7 sillabe, dedicate soprattutto allo scorrere delle quattro stagioni e alla tematica amorosa.

Non si tratta di un’opera da leggersi in modo compiuto, dal principio alla fine; andrebbe piuttosto aperta e scrutata come un libro sibillino, a caso, cogliendo suggestioni e arcani qua e là, tenendo così fede alle radici della parola ‘vaticinio’, che in origine indicava il ‘canto del poeta’, di colui che decifra le segrete voci degli spiriti che abitano il mondo, ma sa anche (e meglio) comprendere i singhiozzi o le maledizioni degli uomini. Scrive infatti il poeta Ki no Tsurayuki (872 – 945) nella sua Prefazione:

La poesia giapponese, avendo come seme il cuore umano, si realizza in migliaia di foglie di parole. La gente di questo mondo, poiché vive fra molti avvenimenti e azioni, esprime ciò che sta nel cuore affidandolo alle cose che vede o sente. Si ascolti la voce dell’usignolo che canta tra i fiori o della rana che dimora  nell’acqua; chi, tra tutti gli esseri viventi, non compone poesie? La poesia, senza ricorrere alla forza, muove il cielo e la terra, commuove perfino gli invisibili spiriti e divinità, armonizza anche il rapporto tra l’uomo e la donna, pacifica pure l’anima del guerriero feroce.

L’animo, il cuore (kokoro), seme della poesia, deve svilupparsi armoniosamente e fiorire nella kotoba, la parola, dal momento che «il linguaggio deve esaurire pienamente il contenuto del messaggio poetico senza margini di oscurità» (p. 20). Il risultato è un idioma complesso, ricco di finissimi espedienti retorici e lessicali, che genera e al tempo stesso è generato da immagini che preservano ancora oggi nitore e bellezza: il fiore del ciliegio dalla grazia effimera, le maniche del kimono zuppe di lacrime, il fiume Asukagawa che diventa simbolo dell’instabilità e dei destini mutevoli.

E così, procedendo con la lettura, si ha l’impressione che la carta si faccia via via più impalpabile sotto le dita e tutt’attorno sorga un’atmosfera nuova; dai testi riaffiora piano un cosmo dimenticato, che il ricco apparato  di note e rimandi del volume aiuta a ricostruire, senza mai scadere nel pedante.

Talvolta, lo scarto tra un componimento e l’altro appare minimo; ecco due uomini forse antitetici, stretti dalla medesima malinconia: l’uno si strugge al canto del grillo, l’altro reclina il capo avvolto dal lamento delle oche selvatiche. Eppure, proprio in quel sottile discrimine  vive – e non semplicemente: sta – tutto un carattere, una storia, un’esistenza.

L’autunno è qui:
le foglie cadute hanno steso
una spessa coltre intorno alla mia dimore,
e nessuno si fa strada
per venire a trovarmi.

Aki wa kinu
momiji wa yado ni
furishikunu
michi fukiwakete
tou hito wa nashi

Lirica dopo lirica, constatiamo con felice sorpresa che davvero non c’è nulla di nuovo sotto il sole: ci sembra di conoscere bene quei sospiri, le lunghi notti di tristezza e i duri giorni d’affanno cantati oramai più di mille anni fa; e persino le rughe profonde dei poeti sono le stesse che incidono i nostri volti.

“Oltre la filosofia” (Pasqualotto), sulle tracce dei pensatori orientali

Qui nel blog parlo spesso di letteratura, storia e società del Sol Levante; raramente, però, lascio spazio allo studio del pensiero – o meglio: dei pensieri plurali – che hanno condizionato e condizionano tuttora tanto la cultura quanto il comportamento dei giapponesi.  Per questa ragione, oggi sono felice di presentarvi Oltre la filosofia. Percorsi di saggezza tra Oriente e Occidente di Giangiorgio Pasqualotto (Colla Editore, pp.  221, € 19; in offerta su Amazon.it a 16,15 cliccando qui), un interessante testo di cui ci offre una recensione il collettivo di Filosofi precari. Buona lettura.

La filosofia non parla più della vita. Nella storia della cultura occidentale è avvenuta una frattura (non certo recente) fra vita reale e pensiero. Ma anche fra filosofia speculativa e pratica. Il libro di Giangiorgio Pasqualotto cerca di rimediare a questo discrimine svolgendo un iter articolato in otto interventi, un viaggio tra occidente ed oriente alla ricerca della saggezza del vivere. Del resto, lo studioso è uno dei massimi esperti italiani di pensiero filosofico orientale e più volte ha affrontato la tematica di un Oriente che avrebbe tanto da raccontare al nostro Occidente, un Occidente grecista ed eurocentrico che crede di aver inventato il pensiero, oltre che la filosofia.
Lo studioso segue un cammino intrapreso già da Pierre Hadot (Esercizi spirituali e filosofia antica), Foucault (L’uso dei piaceri, La cura di sé), in parte dalla Nussbaum (Terapia del Desiderio) e da Panikkar: paragona perciò particolari pensieri filosofici orientali e occidentali interpretabili come “stili di vita”, il cui scopo non risiede nella mera acquisizione di dati sulla struttura della realtà, quanto piuttosto nell’annullamento del dolore, nel riconoscimento e nel controllo delle passioni, nella pratica della libertà e del “conosci te stesso” – un “te stesso” che però non è separato da tutto il resto.
Nel confrontare pensieri occidentali e orientali (e sottolineo la loro pluralità), Pasqualotto non si limita a rilevare le analogie, ma anche  gli scarti, già a partire dalle basi stesse: se  “il quesito cruciale dei filosofi occidentali è: ‘Che cosa è la verità?’”, i sistemi cinesi e indiani  si sono soffermati prevalentemente sull’applicazione della “legge” o “via” alla vita (come il Dharma o  il Tao), utilizzando un metodo olistico e una meditazione legata ad un atteggiamento corporeo più che – al contrario di quanto avviene  in Occidente – all’esercizio razionale immaginativo o intuitivo.
La physis e il “tutto scorre” teorizzati da Eraclito vengono così accostati al Tao-natura e alla dottrina dell’impermanenza, con sorprendenti analogie che investono persino il livello testuale; si rivela simile a quella taoista anche la visione eraclitea della saggezza, e il Tao, nota Pasqualotto, pare inoltre consustanziale alla Natura (o Dio) dell’etica spinoziana.
Anche a Nietszche sono dedicate pagine significative. Il buddismo zen mostra curiose rassomiglianze col pensiero del filosofo tedesco: oltre alla non sostanzialità dell’io, essi condividono la non opposizione fra oggetto e soggetto, la critica del “sublime”, dell’intenzionalità dell’azione, dell’idea che vi possa essere un’essenza distinta da quella del mondo, di un dover-essere etico, a favore invece di una riscoperta dell’essere. Stupisce constatare anche altre pregnanti affinità, sintetizzabili nella similare concezione del “sapiente” e della pratica di saggezza;  addirittura il Satori (l’Illuminazione Zen) tende a coincidere con l’Eterno Ritorno nietzschiano, al punto che in alcune occorrenze è arduo distinguere le massime zen dalle citazioni di Nietzsche: “Vuoi prendere commiato dalla tua passione? Fallo pure, ma senz’odio per essa! Altrimenti hai una seconda passione” (Nietzsche, Aurora).
Nel suo complesso percorso, Pasqualotto ferma la sua attenzione anche sulle discordanze tra il Karuna (la compassione buddista) e il Mitleid (compassione) di  Schopenhauer, solitamente ritenuto un orientalista ante-litteram. Malgrado i due concetti siano spesso accomunati, in realtà esibiscono profonde differenze  sin dalle radici: se per il filosofo tedesco il saggio dovrebbe sopprimere la volontà di vivere, il vero buddhista è intenzionato a liberarsi anche dalla brama stessa della non-esistenza, cercando piuttosto un cammino che sia una “via di mezzo” (majjhimā patipadā).
La parte conclusiva del volume si concentra sulla differente concezione della natura in Asia e in Occidente, che si dibatte tra olismo (la natura e l’uomo intesi come un unico organismo), scientismo (la natura come oggetto da conquistare; Pasqualotto collega questa idea anche al giudaismo-cristianesimo) e vie di mezzo, cercando di superare le opposizioni (come quella fra scientismo ed antiscientismo), sulla scia di autori come Whitehead e Capra.
Nell’ultimo saggio, lo studioso affronta un tema tanto desueto quanto interessante: i “rimedi” filosofici orientali alla malinconia. Riprendendo e spiegando la psicologia buddista, Pasqualotto illustra le cause della cosiddetta “atra bile”: essa dipenderebbe dall’errata convinzione che esista un “io” (mentre per il buddismo ogni realtà è anatta, cioè priva di consistenza autonoma, poiché “dipende talmente da altri che non è nulla per sé o in sé”) e dalla fallace illusione di una consistenza assoluta di ciò che viviamo temporalmente. Per Pasqualotto, la pratica-teoria buddista aiuterebbe a superare qualsiasi forma di malinconia (aggressiva come masochista), eliminando  l’attaccamento all’esigenza di riconoscimento che abbiamo verso gli altri per approdare all’abbaya, la “non paura”, tramite la serena accettazione della transitorietà e dell’inconsistenza, così efficacemente sperimentate da Bashou e Kenko nei loro scritti.

Con le spalle al muro: “Real world” di Kirino Natsuo

Ci sono libri che non andrebbero sfogliati tra le pareti accoglienti di una libreria o nel tepore amico della propria casa; dovrebbero piuttosto esser affrontati stretti in un vagone della metropolitana o – ancor meglio – con le spalle al muro, privi di alcuna via di fuga; senz’altro, Real World di Kirino Natsuo (Neri Pozza, pp. 281, € 15,50; ora in offerta su Amazon.it cliccando qui a € 13,17) è uno di questi.

Prima di leggerlo, sintonizzatevi su uno di quei programmi cosiddetti di approfondimento che amano annusare le carcasse di un delitto. Fissate allora l’inviato eccitato dal sangue, il poliziotto imbarazzato che guarda altrove, la vicina di casa del serial killer o della vittima con la messa in piega fresca fresca per la tv: vi stupirete nello scoprire che, persino dall’altra parte del mondo, in Giappone, queste cose vanno esattamente come nel nostro paese.

Kirino Natsuo, infatti, nel suo romanzo ci getta addosso senza troppi convenevoli un omicidio da prima pagina: un ragazzo schivo e di buona famiglia ha barbaramente ucciso la propria madre, per poi scappare senza lasciare né tracce, né tantomeno lacrime di pentimento. Le uniche persone a conoscenza dei suoi spostamenti sono quattro liceali, unite da quella confusa miscellanea di amicizia e rivalità che contraddistingue talvolta i rapporti adolescenziali; ciascuna di loro custodisce un segreto legato al proprio carattere o alla propria sessualità che solo il Vermiciattolo – ossia l’assassino – sembra in modo inspiegabile riuscire a cogliere. Terauchi, Youzan, Kirarin e Toshi (questi i loro nomi) s’impegnano, in una sorta di sfida reciproca, a compiacere e al tempo stesso provocare con la loro bellezza o le loro capacità il fuggitivo, che a tutte pare offrire la possibilità – o per lo meno la speranza – di spazzar via una vita monotona di compromessi e incertezze, per dare inizio a un’esistenza violentemente nuova.

La quotidianeità regolata dagli adulti e dalle rigide regole sociali è, in fondo, soltanto l’ennesimo palcoscenico in cui si recitano copioni mal formulati; basta l’irruzione della malattia, della morte, del tradimento, di un’ambizione cieca per rivelare le crepe del fondale e l’ambiguità dei personaggi. The real world, il mondo reale – sembra dire la scrittrice – è tutt’altro: è quello dei love hotel da quattro soldi, dei luoghi equivoci, degli appartamenti-gabbia e dei konbini (supermercati) di periferia; è quello delle pulsioni brutali e segrete, del sesso ambiguo e senza nomi, della solitudine implacabile e tagliente.

E alla realtà, purtroppo, non c’è scampo.

Sushi o non sushi? La risposta in “Roma. Il mondo nel piatto”

Da qualche giorno in tv sta andando in onda una (imbarazzante) pubblicità in cui il testimonial, Francesco Totti, nelle vesti di cuoco giapponese, in risposta ad alcuni nipponici che lo hanno ringraziato con il consueto “arigatou”, precisa: “Macché rigatoni, è sushi!”.
Questa breve nota di costume mi fornisce l’occasione per parlare della dilagante presenza dei locali estremo orientali nella capitale: se fino a pochi anni fa ogni quartiere aveva la sua osteria in cui assaporare i piatti tipici romani, pare ora invece non esserci zona che non possa vantare un ristorante giapponese o, per lo meno, un sushi bar. Insomma: la coda alla vaccinara e la pajata sembrano essere state sostitute dai più leggeri maki di salmone o da un piatto fumante di ramen.
Come raccapezzarsi, dunque, in questa selva di offerte, talvolta più o meno discutibili sotto molti punti di vista (piatti snaturati, dubbia qualità, cibi mal conservati, etc.)? Per fortuna, la critica gastronomica Fernanda D’Arienzo, insieme al suo team, ha dato vita a una guida-bussola da portare sempre con sé (non a caso, ha il formato adatto per essere infilata nel cruscotto o nella borsetta), vale a dire Roma. Il mondo nel piatto – ed. 2011/12 (La Pecora Nera edizioni, pp. 252, €8,90).
Quest’anno, in linea con le novità nel panorama gastronomico su citate, il volume riserva una particolare attenzione ai numerosi locali in cui si può assaporare la cucina del Sol Levante, senza però tralasciare al contempo un panorama culinario etnico  a 360°, che spazia dal brasiliano al vietnamita.
Gli esercizi commerciali recensiti appartengono a tre diverse categorie: ristoranti, take away e food shop. Ogni ristorante è dotato di un voto da 1 a 10 e di una propria scheda in cui figurano una serie di informazioni utili (tipo di cucina, giorno di chiusura, carte di credito accettate…); completa il tutto una breve descrizione dell’ambiente, del servizio e del pasto consumato. Vale la pena sottolineare che gli autori hanno agito in anonimato, pagando di tasca propria il conto e basando dunque il giudizio su un’esperienza reale, non condizionata da trattamenti di favore.
Nella categoria food shop – dedicata a coloro che vogliono cimentarsi nello sperimentare a casa le diverse cucine del mondo – potete trovare non soltanto negozi di alimentari, ma anche pasticcerie, rivenditori di tè e di alimenti bio, macellerie, botteghe equo-solidali e molto altro.
Concludono la guida un utile glossario delle pietanze etniche e una serie di praticissimi indici in cui i locali sono suddivisi  in ordine alfabetico, per zona o per area geografica.
Insomma: Roma. Il mondo nel piatto è davvero una miniera di idee sia per i romani, sia per i turisti che, una volta nella Città eterna, sono preda dell’eterno dubbio: “Che famo? ‘Ndo annamo?”.

Nella penombra dei quartieri del piacere, “La luce della luna” di Kafū Nagai

Già quasi un secolo prima del celebre Memorie di una geisha di Arthur Goldon, l’intento di descrivere la vita nei quartieri giapponesi del piacere aveva mosso la penna di uno scrittore purtroppo poco noto in occidente, Kafū Nagai (1879 – 1959), diretto conoscitore delle gioie e delle tribolazioni delle geisha, avendo vissuto per diverso tempo in mezzo a loro.

Testimonianza impareggiabile di ciò è il romanzo La luce della luna, pubblicato in patria per la prima volta nel 1918 e ora edito da pochissimo per i tipi Castelvecchi (trad. di V. Cerqua, pp. 240, € 16; in offerta ora su Amazon.it a 13,60 € cliccando qui), in cui vengono rivelate luci e ombre dell’esistenza delle geisha attraverso gli amori di Komayo, giovane donna sola al mondo, costretta a riprendere dopo la vedovanza il suo antico mestiere per tentare di mantenersi. Una volta fatto ritorno con vergogna all’okiya (la residenza delle geisha) dove è stata educata, incontra casualmente una vecchia fiamma, Yoshioka, che l’aveva abbandonata quando lei era appena diciottenne.

Pentito e, soprattutto, stanco delle solite amanti, l’uomo s’invaghisce ben presto del candore di Komayo. Ma lei, ormai, ha abbandonato ogni ingenuità, spinta dall’impellenza di trovare una sistemazione che le permetta di non arrabattarsi più; per questa ragione, si avvicina – sebbene a malincuore – a personaggi viscidi e discutibili, quali il cosiddetto “mostro marino”, un antiquario tanto facoltoso quanto ripugnante. Le sue reali simpatie si dirigono invece verso un attore di talento, Segawa, che pare ricambiare con ardore i sentimenti della geisha, ben attenta a non far scoprire la tresca a Yoshioka, divenuto frattanto il suo danna (protettore). Komayo ha però, senza accorgersene, oltrepassato il punto di non ritorno: l’eccessiva fiducia nei suoi progetti le impedisce di accorgersi che gli ingranaggi della vendetta e della rivalità sono già entrati in moto.

Il racconto delle avventure della ragazza è intervallato da quello della vita senz’altro più ardua di coloro che, per  sopravvivere con un briciolo di dignità, sono costretti a rimettersi continuamente in discussione, mentre nelle ochaya, le case da tè dove si esibiscono le geisha, ricche donne svendono il proprio corpo per noia e uomini d’affari riflettono sul denaro da sborsare per la prossima fanciulla.

Lo stile dello scrittore assorbe costantemente l’attenzione per la sua fluidità e piacevolezza, tanto che si ha spesso l’impressione di essere dinanzi a un variopinto set cinematografico, in cui la macchina da presa si concentra talvolta su scene drammatiche e complesse, talaltre sui dettagli minimi e quotidiani della vita nascosta delle geisha, fatta anche di spilloni che s’inceppano, di trucco sciolto, di sigarette fumate in penombra dopo una notte di lavoro.

Non mancano in questo quadro picchi lirici di sommessa bellezza, capaci di far intuire anche al lettore italiano quel tesoro di meraviglie della natura che i giapponesi sanno cantare con rara delicatezza. Questi momenti poetici contrastano espressionisticamente con la fauna di personaggi pittoreschi e sovente equivoci del quartiere Shimbashi di Tokyo, dei quali Kafū Nagai mostra squarci di un’esistenza improntata all’espediente e al compromesso. Per ritrarli, l’autore si è ispirato a tutta una folla di attori, cantastorie, cameriere, geisha, maiko, parassiti, figli ripudiati, bohemien, intellettuali in declino e ubriaconi che hanno realmente profuso se stessi nelle torbide notti del Giappone primonovecentesco: di essi oggi non rimane neppure il nome, eppure – attraverso La luce della luna – ci pare ancora di udire l’allegria squillante delle loro risate o il suono secco delle lacrime nascoste dalla manica del kimono.

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