Chiamiamo «classico un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari degli antichi talismani», scriveva Calvino oramai qualche decennio fa.

La definizione mi è tornata alla mente in una sera pungente di novembre, tenendo tra le mani il Kokin Waka shū (edizione italiana curata dalla grande studiosa Ikuko Sagiyama per Ariele, pp. 686, € 34), prima tra le ventuno antologie imperiali di lirica classica giapponese. Quello che, apparentemente, sembrerebbe un volume di liriche, è in realtà uno scrigno che dall’inizio del X secolo d. C. custodisce un inestimabile tesoro letterario, composto da ben millecento composizioni (più undici in origine cancellate), prevalentemente waka, il genere nipponico per eccellenza, che si struttura in brevissime poesie scandite da cinque versi di 5-7-5-7-7 sillabe, dedicate soprattutto allo scorrere delle quattro stagioni e alla tematica amorosa.

Non si tratta di un’opera da leggersi in modo compiuto, dal principio alla fine; andrebbe piuttosto aperta e scrutata come un libro sibillino, a caso, cogliendo suggestioni e arcani qua e là, tenendo così fede alle radici della parola ‘vaticinio’, che in origine indicava il ‘canto del poeta’, di colui che decifra le segrete voci degli spiriti che abitano il mondo, ma sa anche (e meglio) comprendere i singhiozzi o le maledizioni degli uomini. Scrive infatti il poeta Ki no Tsurayuki (872 – 945) nella sua Prefazione:

La poesia giapponese, avendo come seme il cuore umano, si realizza in migliaia di foglie di parole. La gente di questo mondo, poiché vive fra molti avvenimenti e azioni, esprime ciò che sta nel cuore affidandolo alle cose che vede o sente. Si ascolti la voce dell’usignolo che canta tra i fiori o della rana che dimora  nell’acqua; chi, tra tutti gli esseri viventi, non compone poesie? La poesia, senza ricorrere alla forza, muove il cielo e la terra, commuove perfino gli invisibili spiriti e divinità, armonizza anche il rapporto tra l’uomo e la donna, pacifica pure l’anima del guerriero feroce.

L’animo, il cuore (kokoro), seme della poesia, deve svilupparsi armoniosamente e fiorire nella kotoba, la parola, dal momento che «il linguaggio deve esaurire pienamente il contenuto del messaggio poetico senza margini di oscurità» (p. 20). Il risultato è un idioma complesso, ricco di finissimi espedienti retorici e lessicali, che genera e al tempo stesso è generato da immagini che preservano ancora oggi nitore e bellezza: il fiore del ciliegio dalla grazia effimera, le maniche del kimono zuppe di lacrime, il fiume Asukagawa che diventa simbolo dell’instabilità e dei destini mutevoli.

E così, procedendo con la lettura, si ha l’impressione che la carta si faccia via via più impalpabile sotto le dita e tutt’attorno sorga un’atmosfera nuova; dai testi riaffiora piano un cosmo dimenticato, che il ricco apparato  di note e rimandi del volume aiuta a ricostruire, senza mai scadere nel pedante.

Talvolta, lo scarto tra un componimento e l’altro appare minimo; ecco due uomini forse antitetici, stretti dalla medesima malinconia: l’uno si strugge al canto del grillo, l’altro reclina il capo avvolto dal lamento delle oche selvatiche. Eppure, proprio in quel sottile discrimine  vive – e non semplicemente: sta – tutto un carattere, una storia, un’esistenza.

L’autunno è qui:
le foglie cadute hanno steso
una spessa coltre intorno alla mia dimore,
e nessuno si fa strada
per venire a trovarmi.

Aki wa kinu
momiji wa yado ni
furishikunu
michi fukiwakete
tou hito wa nashi

Lirica dopo lirica, constatiamo con felice sorpresa che davvero non c’è nulla di nuovo sotto il sole: ci sembra di conoscere bene quei sospiri, le lunghi notti di tristezza e i duri giorni d’affanno cantati oramai più di mille anni fa; e persino le rughe profonde dei poeti sono le stesse che incidono i nostri volti.

4 commenti il “Kokin waka shū”, o dell’eternità

  1. Interessantissimo…ma su IBS non l’ho trovato. Dove è possibile reperire questo libro? O dovrò aspettare la Fiera della Piccola e Media Editoria, a dicembre, nella speranza che la casa editrice disponga un banchetto???
    Salutissimi

  2. Bellissima segnalazione. Grazie. Una domanda: dalla tua recensione sembra di capire che il volume è ben curato. Puoi dire qualcosa di più? Curatore e traduttore sono la stessa persona? Come è l’apparato: introduzione, note? Dalle pagine del volume la racoclta appare molto grossa. È la prima edizione così ampia? Ce ne erano state altre prima? Che editore è Ariele? E Ikuko Sagiyama laovra in Italia? Insegna? Grazie per le informazioni in più che potrai dare.

  3. Caro Pierfranco, cerco di rispondere alle tue domande:
    1. Traduzione dal giapponese, premessa, introduzione e note sono di Ikuko Sagiyama, docente ordinario di Lingue e letterature del Giappone e della Corea a Firenze (ma non se insegni ancora lì).
    2. Pressoché ogni composizione è commentata sinteticamente, talvolta su più piani (contenutistico, stilistico, lessicale…), in modo tale che anche un lettore digiuno di letteratura giapponese riesca a orientarsi abbastanza agevolmente. La premessa e l’introduzione coprono ben trentasei pagine e mi sembrano dettagliate.
    3. Penso che questa sia in assoluto la prima comparsa del “Kokin Waka shū” in Italia. La prima edizione – sempre per Ariele – era del marzo 2000, la seconda (quella che ho recensito) del febbraio 2002; il catologo Opac mi rivela che il numero di pagine è rimasto lo stesso, per cui non credo siano state apportate modifiche nel corso del tempo.
    4. Per quel che riguarda le edizioni Ariele, confesso che non possiedo altri loro libri. Leggo su internet che la loro “scelta editoriale […] è improntata fin dal principio al criterio di pubblicare testi mai usciti in Italia”. Il catalogo, comunque, mi pare buono; spazia dalla librettistica musicale sino alla letteratura orientale (tamil, araba, turca, ecc.).

    Se avessi dimenticato qualcosa o c’è altro che vuoi sapere, chiedi pure.

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