Categoria: narrativa

Gruppo di lettura dedicato a “1q84” di Murakami: parliamone insieme

– No, non do nomi alle farfalle. Ma anche senza nomi, le distinguo l’una dall’altra dal disegno e dalla forma. Inoltre, quando si dà loro un nome, chissà perchè muoiono subito. Queste creature non hanno nome e vivono per un tempo molto breve. Ogni giorno vengo qui, le incontro, le saluto e faccio con loro vari discorsi. Ma, quando il tempo è giunto, le farfalle scompaiono da qualche parte, in silenzio. Penso siano morte, ma sebbene le cerchi, non ne trovo mai i resti. Svaniscono senza lasciare traccia, come se si fossero dissolte nell’aria. Le farfalle hanno una grazia incantevole, ma sono anche le creature più effimere che esistano. Nate chissà dove, cercano dolcemente solo poche cose limitate, e poi scompaiono silenziosamente da qualche parte. Forse in un mondo diverso da questo.

Tratto da 1Q84 di Haruki Murakami

Ed è con questa citazione che inauguro ufficialmente il gruppo di lettura dedicato a 1q84, bestseller di Murakami Haruki uscito proprio in questi giorni (Einaudi, pp. 722, € 20; ora in offerta su Amazon.it a € 15 cliccando qui). Per chi è impaziente di leggerlo, dal sito dell’Einaudi è possibile scaricare un capitolo del romanzo.
Se avete voglia di lasciare una traccia della vostra lettura nel blog, potete dare il meglio di voi nel box dei commenti qui sotto, riportando impressioni, idee, opinioni… tutto quello che volete, purché rispettoso del regolamento.

*Regolamento del gruppo di lettura*

  • Chi: al gruppo può partecipare chiunque, gratuitamente, purché abbia una connessione internet a sua disposizione e, soprattutto, tanta voglia di condividere la lettura con gli altri. Non serve conoscere la lingua o la letteratura giapponese: basta esser curiosi.
  • Cosa: nel gruppo di lettura si scambiano idee, pensieri, emozioni, ricordi legati al libro in questione. Ogni forma di dibattito è la benvenuta, purché rispettosa e meglio se non off topic (ossia fuori argomento; va bene citare altre opere, ma si dovrebbero evitare derive tematiche). Qui non vi sono guru, né luminari in cattedra e tanto meno fazioni, per cui ognuno ha la possibilità di esprimere liberamente il proprio parere, in accordo con le sue conoscenze, il suo sentire e il suo vissuto.
  • Come: per partecipare al gruppo ed esprimere la propria opinione, basta lasciare un commento qui sotto (e non altrove), che sarà visibile solo dopo la mia approvazione (come detto altrove, non si tratta di una misura antidemocratica, ma antispam). Ciascuno può scrivere quanti commenti vuole e rispondere a quelli altrui.
  • Quando: il gruppo è aperto da oggi; al momento, non è prevista una data di chiusura.
  • Perché: idealmente, il gruppo mira a demolire qualche stereotipo sulla letteratura giapponese e a farla conoscere meglio e di più; vorrebbe inoltre fornire l’occasione per creare un piccolo spazio di confronto e dialogo per appassionati e curiosi.
  • Nota bene: naturalmente, va evitata ogni forma di volgarità o di offesa nei confronti dei partecipanti, e sono vietati gli spoiler, vale a dire le anticipazioni sul finale o su punti significativi della trama. Ogni commento che dovesse infrangere qualche punto del regolamento o da me ritenuto poco consono non verrà pubblicato.

Leggiamo insieme “Io sono un gatto” di Natsume Sōseki

Ad oggi, 2 novembre, con un totale di 30 voti (21 dei quali raccolti su Facebook e 9 nel sondaggio del blog), contro i 10 di Profumo di ghiaccio di Ogawa Yōko e i 7 di Il fucile da caccia di Inoue Yasushi, dichiaro che il primo libro del gruppo virtuale di lettura è Io sono un gatto di Natsume Sōseki (disponibile in due edizioni, una standard e l’altra economica: Neri Pozza, pp. 512, € 18; ora in offerta su Amazon.it a 15,30 € cliccando qui; Giano – Beat, pp. 476, € 9, ora in offerta su Amazon.it cliccando qui a 7,65).

Ma come funziona questo benedetto gruppo, vi starete chiedendo? Nulla di complicato, non vi preoccupate. Dato che si tratta per me del primo tentativo di  realizzare un progetto simile, innanzitutto perdonatemi in anticipo le pecche dell’organizzazione. 😉 Ma ora passiamo al sodo.

*Regolamento del gruppo di lettura*

  • Chi: al gruppo può partecipare chiunque, gratuitamente, purché abbia una connessione internet a sua disposizione e, soprattutto, tanta voglia di condividere la lettura con gli altri. Non serve conoscere la lingua o la letteratura giapponese: basta esser curiosi.
  • Cosa: nel gruppo di lettura si scambiano idee, pensieri, emozioni, ricordi legati al libro in questione. Ogni forma di dibattito è la benvenuta, purché rispettosa e meglio se non off topic (ossia fuori argomento; va bene citare altre opere, ma si dovrebbero evitare derive tematiche). Qui non vi sono guru, né luminari in cattedra e tanto meno fazioni, per cui ognuno ha la possibilità di esprimere liberamente il proprio parere, in accordo con le sue conoscenze, il suo sentire e il suo vissuto.
  • Come: per partecipare al gruppo ed esprimere la propria opinione, basta lasciare un commento qui sotto (e non altrove), che sarà visibile solo dopo la mia approvazione (come detto altrove, non si tratta di una misura antidemocratica, ma antispam). Ciascuno può scrivere quanti commenti vuole e rispondere a quelli altrui.
  • Quando: il gruppo è aperto da oggi; al momento, non è prevista una data di chiusura.
  • Perché: idealmente, il gruppo mira a demolire qualche stereotipo sulla letteratura giapponese e a farla conoscere meglio e di più; vorrebbe inoltre fornire l’occasione per creare un piccolo spazio di confronto e dialogo per appassionati e curiosi.
  • Nota bene: naturalmente, va evitata ogni forma di volgarità o di offesa nei confronti dei partecipanti, e sono vietati gli spoiler, vale a dire le anticipazioni sul finale o su punti significativi della trama. Ogni commento che dovesse infrangere qualche punto del regolamento o da me ritenuto poco consono non verrà pubblicato.

Proporrei di leggere entro il 6 novembre i primi due capitoli del libro (per l’edizione Beat, fino a p. 79), in modo tale da commentarlo insieme man mano che la lettura procede. Dato che si tratta di un romanzo piuttosto lunghetto, suggerirei di cadenzare la lettura in diverse settimane e concluderla possibilmente entro inizio dicembre. Che ne dite?

Per chi volesse saperne di più del libro, questa è la trama, descritta dall’editore Neri Pozza:

Il Novecento è appena iniziato in Giappone, e l’era Meiji sembra avere perfettamente realizzato il suo compito: restituire onore e grandezza al paese facendone una nazione moderna. Il potere feudale dei daimyo è, infatti, un pallido ricordo del passato, così come i giorni della rivolta dei samurai a Satsuma, il tragico canto del cigno degli antichi guerrieri. In questi primi anni del nuovo secolo, l’esercito nipponico contende vittoriosamente alla Russia il dominio nel Continente asiatico.
Per il Nero del vetturino, il gatto grasso che spadroneggia nel cortile del condominio in cui si svolge questo romanzo, i frutti dell’epoca moderna non sono per niente malvagi. Il Nero del vetturino ha, infatti, un pelo lucido e un’aria spavalda e robusta impensabili fino a qualche tempo fa per un felino di così umile condizione. Per il gatto protagonista di queste pagine, però, le cose non stanno per niente così. Un’oscura follia, anzi, aleggia nell’aria, nel Giappone all’alba del XX secolo.
Il nostro eroe non vive, infatti, a casa di un vetturino ma di un professore che si atteggia a grande studioso e che, a detta di tutti, lo è davvero. Quando torna a casa, il professore si chiude nello studio fino a sera e ne esce raramente. Di tanto in tanto il gatto, a passi felpati, va a sbirciare e puntualmente lo vede dormire: il colorito giallognolo, la pelle spenta, una bava che gli cola sul libro che tiene davanti a sé.
Certo, il luminare a volte non dorme, e allora si cimenta in bizzarre imprese. Compone haiku, scrive prosa inglese infarcita di errori, si esercita maldestramente nel tiro con l’arco, recita canti nel gabinetto, tanto che i vicini lo hanno soprannominato il «maestro delle latrine», accoglie esteti con gli occhiali cerchiati d’oro che si dilettano a farsi gioco di tutto e di tutti raccontando ogni genere di panzane, spettegola della vita dissoluta di libertini e debosciati… Insomma, mostra a quale grado di insensatezza può giungere il genere umano in epoca moderna…
Pubblicato per la prima volta nel 1905, Io sono un gatto non è soltanto un romanzo raro, che ha per protagonista un gatto, filosofo e scettico, che osserva distaccato un radicale mutamento epocale. È anche uno dei grandi libri della letteratura mondiale, la prima opera che, come ha scritto Claude Bonnefoy, inaugura il grande romanzo giapponese all’occidentale.

Con le spalle al muro: “Real world” di Kirino Natsuo

Ci sono libri che non andrebbero sfogliati tra le pareti accoglienti di una libreria o nel tepore amico della propria casa; dovrebbero piuttosto esser affrontati stretti in un vagone della metropolitana o – ancor meglio – con le spalle al muro, privi di alcuna via di fuga; senz’altro, Real World di Kirino Natsuo (Neri Pozza, pp. 281, € 15,50; ora in offerta su Amazon.it cliccando qui a € 13,17) è uno di questi.

Prima di leggerlo, sintonizzatevi su uno di quei programmi cosiddetti di approfondimento che amano annusare le carcasse di un delitto. Fissate allora l’inviato eccitato dal sangue, il poliziotto imbarazzato che guarda altrove, la vicina di casa del serial killer o della vittima con la messa in piega fresca fresca per la tv: vi stupirete nello scoprire che, persino dall’altra parte del mondo, in Giappone, queste cose vanno esattamente come nel nostro paese.

Kirino Natsuo, infatti, nel suo romanzo ci getta addosso senza troppi convenevoli un omicidio da prima pagina: un ragazzo schivo e di buona famiglia ha barbaramente ucciso la propria madre, per poi scappare senza lasciare né tracce, né tantomeno lacrime di pentimento. Le uniche persone a conoscenza dei suoi spostamenti sono quattro liceali, unite da quella confusa miscellanea di amicizia e rivalità che contraddistingue talvolta i rapporti adolescenziali; ciascuna di loro custodisce un segreto legato al proprio carattere o alla propria sessualità che solo il Vermiciattolo – ossia l’assassino – sembra in modo inspiegabile riuscire a cogliere. Terauchi, Youzan, Kirarin e Toshi (questi i loro nomi) s’impegnano, in una sorta di sfida reciproca, a compiacere e al tempo stesso provocare con la loro bellezza o le loro capacità il fuggitivo, che a tutte pare offrire la possibilità – o per lo meno la speranza – di spazzar via una vita monotona di compromessi e incertezze, per dare inizio a un’esistenza violentemente nuova.

La quotidianeità regolata dagli adulti e dalle rigide regole sociali è, in fondo, soltanto l’ennesimo palcoscenico in cui si recitano copioni mal formulati; basta l’irruzione della malattia, della morte, del tradimento, di un’ambizione cieca per rivelare le crepe del fondale e l’ambiguità dei personaggi. The real world, il mondo reale – sembra dire la scrittrice – è tutt’altro: è quello dei love hotel da quattro soldi, dei luoghi equivoci, degli appartamenti-gabbia e dei konbini (supermercati) di periferia; è quello delle pulsioni brutali e segrete, del sesso ambiguo e senza nomi, della solitudine implacabile e tagliente.

E alla realtà, purtroppo, non c’è scampo.

I doni più preziosi e il segreto di “Un’eredità di avorio e ambra”

Per definire il Novecento, Eric J. Hobsbawm ha parlato di “secolo breve”, caratterizzato da profonde trasformazioni politiche, economiche e sociali. Molte delle sue contraddizioni e, soprattutto, dei suoi nodi irrisolti sorsero però già nella seconda metà dell’Ottocento: mentre lo “spettro del comunismo” – riprendendo le parole di Marx – s’aggirava per l’Europa e i popoli (compreso quello italiano) combattevano per l’autodeterminazione, da qualche botteguccia del porto di Yokohama giunsero nel Vecchio continente migliaia e migliaia di insolite statuette, grandi poco meno d’un pugno. Erano di legno di bosso, argilla, ceramica, osso; potevano raffigurare un monaco mendicante, una tigre spaventosa e innumerevoli altri soggetti da legare alla cintola del kimono.
Molte di esse sono andate probabilmente perdute o giacciono nelle vetrine polverose di qualche museo; alcune, più fortunate, sono invece addirittura divenute protagoniste di un bel romanzo, Un’eredità di avorio e ambra (Bollati Boringhieri, pp. 398, 18 €; ora in offerta su Amazon.it cliccando qui a 15,30 €) dello studioso e ceramista inglese Edmund de Waal, che ricevette da un anziano zio materno una vera e propria collezione di  netsuke (così si chiamano questi piccoli manufatti). Attraverso il libro lo scrittore ha voluto rendere un tributo non solo alla sua famiglia d’origine, ma anche ad alcune delle epoche più sfavillanti e insieme fosche del cammino umano.

Tutto ebbe iniziò nella seconda metà dell’Ottocento, quando un ramo degli Ephrussi – i più grandi commercianti di cereali su scala planetaria – si trasferì dalla nativa Odessa nelle grandi capitali europee. Nella Ville Lumière, il giovane Charles, tanto raffinato quanto poco incline agli affari, divenne ben presto un mecenate e un arbiter elegantiae di tutto rispetto; nel bel mondo incantò anche lo scrittore Marcel Proust, che lo prese a modello per plasmare Swann, uno dei personaggi più memorabili della sua Ricerca del tempo perduto. Tra i primi ferventi sostenitori dell’impressionismo e costantemente attento a percepire nuovi fermenti artistici, Charles finì per innamorarsi ben presto del Sol Levante, in sintonia con la nascente mania del japonisme, che De Waal ci descrive magistralmente. La penna dell’autore, difatti, insegue gli appassionati della prima ora nelle loro caccie frenetiche alla ricerca di bibelot, servizi da tè e kimono; spia le ricche dame ricoprirsi di sete rare e nascondersi dietro i paraventi intarsiati per compiacere gli spasimanti; non indietreggia neppure dinanzi all’opulenza (talvolta esasperata sino al cattivo gusto) dei salotti e delle alcove pullulanti di bronzi, ceramiche, legni purché provenienti dall’estremo oriente.

A differenza dei più, Charles, esperto critico d’arte, scelse con cura persino i ninnoli e ben duecentosessantaquattro netsuke da esporre con orgoglio nelle sue stanze; a causa del mutare delle stagioni e delle mode, da curiosità esotica per rapire lo sguardo la collezione nipponica si trasformò in bislacco regalo di nozze. Le statuette finirono perciò dalla rutilante Parigi nella Vienna della Bella Epoque, dove presero parte ai giochi dei piccoli rampolli austriaci, ignari delle ondate sempre più violente di antisemitismo, che nel giro di pochi anni condussero alla tragica ascesa di Hitler. Sul calare degli anni Trenta, i potenti ed ebrei Ephrussi persero ogni bene e, soprattutto, pressoché ogni speranza: il clan si dissolse, mentre parenti e amici tentarono disperatamente di schivare la morte nei campi di concentramento o di non morire di stenti per le strade del mondo.

I netsukeemblema della magnificienza e ricordo dei giorni felici ormai trascorsi – non risplendettero più accanto ai Renoir, agli argenti e ai velluti; riposarono invece nelle tasche ingombre di un grembiule o nell’imbottitura di un vecchio materasso. E quando oramai la loro esistenza sembrava volgere al termine, ecco un nuovo, imprevedibile rovescio della sorte, pronto a catapultarli dall’altra parte del globo.

Con la sua scrittura misurata ma sempre precisa e coinvolgente, De Waal riesce egregiamente a descrivere i fasti e le miserie della vita umana, senza però fare alcun ricorso al rimpianto o a una compassione lacrimevole. Il lettore attraversa in questo modo lunghi decenni e incolmabili distanza geografiche rapito da una narrazione ricca e duttile che, a uno sguardo distratto, mirerebbe soltanto a raccontare le peripezie d’un piccolo tesoro artistico attraverso le alterne fortune di coloro che lo hanno posseduto. In realtà, il volume di De Waal è molto più di un romanzo: rivela la saga di una famiglia potente ma fragile, mostra i curiosi o tragici intrecci tra la Storia con la “s” maiuscola e le microstorie di ognuno di noi, e permette di rievocare alcune suggestive atmosfere artistiche e intellettuali. Ma sopratutto l’opera tenta di dipanare il complesso e ambivalente rapporto occidentale con il Giappone e il suo fascino esotico, dei quali l’Europa e gli Stati Uniti sono stati ripetutamente invaghiti, al punto da saccheggiare commercialmente il paese, soprattutto durante gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento e nel corso dell’occupazione americana seguita alla seconda guerra mondiale.

Al pari di mille altri oggetti, anche i netsuke sono stati a lungo uno degli obiettivi prediletti dagli intenditori o, più spesso, dai collezionisti di souvenir nipponici a buon mercato: così piccoli, curati sin nei minimi dettagli e talvolta buffi sembravano alludere loro malgrado all’immagine stereotipata e ambigua del giapponese dal fisico minuto e dal comportamento bizzarro.

Eppure, proprio fissando alcuni dei pezzi della splendida eredità di avorio e ambra di De Waal – la lepre che ci fissa pronta al balzo, l’asino piegato sotto il peso del questuante, l’intagliatore di botti dall’aspetto dimesso eppure profondamente dignitoso – ci pare di cogliere una grande lezione: forse la bellezza – a differenza di quanto riteneva Dostoevskij – non salverà il mondo, ma sa offrirci i preziosi doni della speranza e della consolazione.

“1q84” di Murakami: un articolo di M. Persivale

Per tutti coloro che stanno aspettando con impazienza novembre per poter finalmente leggere 1q84 di Murakami, riporto un interessante articolo in tema, frutto della penna di Matteo Persivale, pubblicato in questi giorni nella versione online del <<Corriere della sera>>.

Se la terra, come la luna, avesse una faccia nascosta sempre invisibile e misteriosa, il nuovo romanzo di Haruki Murakami sarebbe ambientato lì. Tutto succede nell’arco di nove mesi – tre stagioni divise in tre libri da ventiquattro capitoli ciascuno – di un 1984 che non è esattamente quello registrato dalla storia – e infatti il titolo è 1Q84, in giapponese il numero 9 si pronuncia «ku» come la lettera Q, ma «ku» significa anche «dolore» – e in un Giappone nel quale sembra, progressivamente, esserci qualcosa di sempre più fuori fase (è il Paese dove i terremoti possono essere tanto forti da riuscire a spostare l’asse di rotazione della terra). 1Q84, letto dal «Corriere» in anteprima, bestseller a sorpresa in Giappone nel 2009 (pubblicato in tre volumi separati scatenando la Murakami-mania, uscirà negli Stati Uniti a ottobre presso Knopf e a novembre in Italia da Einaudi), è una storia contemporaneamente lineare e complicatissima. Ci sono due ragazzi: la killer su commissione Aomame (ha qualcosa di simile al dono dell’invisibilità) e l’insegnante di matematica e aspirante scrittore Tengo al quale un editor senza scrupoli dà un incarico (truffaldino) da ghost-writer del libro di una ragazzina-prodigio. Aomame e Tengo, che si sono conosciuti da bambini e si sono innamorati, non si incontrano da vent’anni: vivono separati su quello che Murakami, nell’unica intervista prima dell’uscita del romanzo in Giappone, definì «il lato oscuro della luna» (citando obliquamente, lui che di musica è maniaco, The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd). Takashi Murakami, «If the double helix wake up», 2002, particolare Takashi Murakami, «If the double helix wake up», 2002, particolare Da lì parte una storia – i capitoli e i punti di vista si alternano regolarmente tra Aomame e Tengo – che procede con lentezza tanto esasperante quanto voluta. Prima che Murakami diventasse famoso i suoi libri venivano spesso massacrati dalla casa editrice e il personaggio dell’editor mariuolo di 1Q84 potrebbe essere, perché no, una piccola rivincita personale. Ma la lentezza è indispensabile perché costringe il lettore a tenere il passo dei personaggi, rendendosi conto insieme con loro che qualcosa, nella memoria di Aomame e Tengo, non corrisponde alla realtà. Che c’è qualcosa di inaffidabile: non la loro memoria, ma l’anno 1Q84 nel quale vivono. Tra sette segrete dal sapore apocalittico, pastori tedeschi che si nutrono soltanto di spinaci, primitivi computer dai prezzi esorbitanti e discussioni sull’Isola di Sakhalin di Cechov, sui Fratelli Karamazov di Dostoevskij e su 1984 di Orwell, Murakami scopre le carte e rivela che la struttura di un romanzo tanto complesso poggia sulla musica. «Nella musica religiosa, Dio è sempre presente con la Sua grazia», scriveva Johann Sebastian Bach tra le annotazioni della sua Bibbia. Murakami non è un compositore – anche se da giovane gestiva un piccolo jazz club – ma se anche lui come Bach annotasse su una Bibbia le sue riflessioni, troverebbe tracce di Dio in una marcia militare cecoslovacca (la Sinfonietta di Leos Janacek, il compositore del Caso Makropulos, che Aomame ascolta sul taxi nell’incipit del romanzo e apre anche il secondo libro) come in una canzonetta americana degli anni 30. Quasi mille pagine in inglese, con due traduttori per accorciare i tempi di pubblicazione che si sono dovuti appellare alla Cassazione dell’autore per dirimere le numerose disomogeneità tra i loro scritti, l’uscita nipponica nel 2009 che ha scatenato traduzioni «pirata» diffuse on line e caccia ai contenuti da parte di fans frettolosi, e una copia staffetta americana è da poco stata venduta su eBay per 225 dollari, 166 euro. È il libro più complesso di Murakami, e poggia su quattro semplici versi di uno standard della Hollywood del bianco e nero, anno 1933. It’s Only a Paper Moon, scritta da E.Y. Harburg e Harold Arlen (quello di Over the Rainbow, da Il mago di Oz): «È un mondo da circo Barnum / Che più fasullo non potrebbe essere / Ma non sarebbe un’illusione / Se tu credessi in me». Perché Murakami il giapponese eretico in fuga dall’establishment culturale del suo Paese, Murakami l’umanista che gioca a nascondino con l’incubo orwelliano e che ricevendo il premio Jerusalem ha recentemente regalato al pubblico israeliano una parabola su un uovo che si schianta contro un muro («E non importa quanto abbia ragione il muro e quanto abbia torto l’uovo, io sarò sempre dalla parte dell’uovo»), al caos e alla fatuità del mondo da circo Barnum trova un antidoto teneramente antiquato: l’amore. Anche se impiega quasi mille pagine per farlo: perché ci vuole tempo, al lettore e allo scrittore, per respirare e pensare e camminare allo stesso ritmo. Come ha detto tanti anni fa Jay Rubin, suo storico traduttore americano, «ho sempre avuto l’impressione che Murakami scrivesse per me».

Matteo Persivale

Presentazione a Roma di “Qualcosa di simile” in compagnia mia e dell’autrice

Cari lettori vicini e lontani, sono felice di invitarvi tutti a “Giappone tra le righe. Presentazione del libro Qualcosa di simile e dei racconti d’arte Mizumono, Tsukemono e Konomono; avrò il piacere di parlare di queste opere con l’autrice, ossia la bravissima Francesca Scotti, sabato 22 ottobre, alle 18, presso il Doozo. Art book & sushi (Via Palermo 51/53, Roma; www.doozo.it).

Della raccolta di racconti Qualcosa di simile – che sta riscuotendo ottimi riscontri dal pubblico e dalla critica – potete trovare qui nel blog una recensione, firmata da Mariella Soldo; se siete incuriositi anche dal trittico Mizumono, Tsukemono e Konomono, non vi resta allora che consultarlo liberamente nel sito internet dell’autrice (www.qualcosadisimile.it) e dare un’occhiata alle mie note di lettura.

Mi raccomando: vi aspetto!

Bisbigliare amore dal centro del mondo

Un giorno andai all’ospedale e Aki stava ancora dormendo. Era sola, non c’era nemmeno sua madre a farle  compagnia. Seduto vicino a lei studiavo il suo viso mentre dormiva: era pallido per l’anemia. Le tende color crema erano tirate. Aki, con gli occhi chiusi, era leggermente voltata sull’altro lato, per evitare la luce che filtrava, volteggiando per la stanza come minuscole ali di farfalla che si posavano sul suo volto donando alla sua espressione gentili sfumature. Continuai a osservarla come se stessi ammirando un bene prezioso. Poi mi prese l’inquietudine.
Sembrava che da quel sonno tranquillo si alzasse un seme di papavero, una piccolissima morte, quasi invisibile. Nell’ora di disegno, se uno fissava il foglio candido sotto il sole splendente, aveva l’impressione che si ricoprisse di piccolissimi puntini neri. Ecco, la sensazione era la stessa.
Chiamai il suo nome: << Aki>>.
Una volta e un’altra ancora. Tante volte. Allora lei si mosse appena, quasi lo cercasse, quel nome.

(Katayama Kyōichi, Gridare amore dal centro del mondo, pp. 94-95)

Prima di leggere Gridare amore dal centro del mondo di Katayama Kyōichi (Salani, pp. 162, € 9,90; in offerta su Amazon.it a 8,50 €; ne esiste anche una versione manga con disegni di Kazui Kazumi e un film), desumevo dal titolo che trattasse di una storia accesa, bruciante: gridata, appunto. In realtà, si è rivelato un romanzo sommesso, bisbigliato tra un ricordo e l’altro.
A prima vista la trama è quanto di più facile si possa immaginare: la giovanissima Aki scopre di essere ammalata di una grave forma di leucemia, e il suo ragazzo Sakutarō – anch’egli liceale – non riesce a farsene una ragione. Non può accettare che il loro amore – semplice e contraddittorio come solo quello adolescenziale sa essere – sia incapace di evitare una catastrofe simile; non vuole trascorrere il resto dell’esistenza con la speranza di potersi ricongiungere ad Aki in un improbabile aldilà, come da cinquant’anni sta facendo il suo nonno paterno, costretto in gioventù a rinunciare alla donna che avrebbe voluto sposare.
Chi muore in età precoce è caro agli dèi, credevano gli antichi greci, ma qui non c’è alcuna traccia di divinità; anzi, in alcuni momenti sembrerebbe che tutto l’universo sia ostinatamente sordo alle preghiere innalzate al cielo per trattenere la fanciulla ancora un po’ su questa terra.
La sostanza del libro sembra però essere altrove. Non dimora nella disperazione delle famiglie, né nel racconto d’un autunno inesorabile che si specchia nel nomen omen (il nome-destino) di Aki*, e neppure forse nello stato di apatia e incertezza esistenziale che opprime Sakutarō. Il succo vivo e agrodolce dell’opera è distillato piuttosto nelle istantanee che scandiscono un amore profondo e in evoluzione: gli appuntamenti quotidiani attesi con trepidazione, i baci dati di nascosto, il desiderio e il timore di scoprire il corpo dell’altro.
Quali siano le ingenuità da imputare agli schietti sentimenti del giovane e quali alla penna d’uno scrittore che sa bene quali corde del cuore del lettore toccare, probabilmente non è dato saperlo. I simbolismi troppo evidenti (un amore che trionfa in primavera ed è funestato dalla morte alle soglie dell’inverno; la speranza di una nuova vita che risorge con la fioritura dei ciliegi; etc.) e i segnali d’un’ingiusta predestinazione forzano la narrazione; è difficile però rimanere del tutto freddi dinanzi a una storia che risveglia  le nostre più intime paure.

*Aki, infatti, significa ‘autunno’ in giapponese. Nel romanzo è però detto che l’ideogramma con cui è scritto il nome della ragazza vuole in realtà riferirsi a hakuaki, l’era cretacea. Spiega infatti al fidanzato:  <<Fra le ere geologiche è quella in cui sono nate e prosperate nuove specie di piante e animali. Come i dinosauri o le felci. Mi hanno chiamato così con l’augurio che anche io, come questi esseri, potessi prosperare.>>.

 

“1Q84” di Murakami finalmente in italiano a novembre

Nell’attesa che si scopra nelle prossime settimane se Murakami abbia vinto il premio Nobel per la letteratura (è in lizza da diversi anni, oramai), i suoi lettori possono fare il conto alla rovescia per l’edizione italiana di 1Q84, ritenuto il capolavoro dello scrittore: Einaudi ha infatti annunciato che i primi due volumi saranno finalmente pubblicati a novembre, mentre il terzo uscirà nel 2012.

Nuove note per antiche parole: intervista a Ramona Ponzini

Un tranquillo pomeriggio di settembre, davanti al computer, a scrivere. Distrattamente, apro l’ennesima pagina del browser e clicco su un link. D’improvviso, la stanza si riempie di una musica strana, nuova, che non ho mai sentito prima. Campanelli, versi giapponesi, una melodia avvolgente e, al tempo stesso, distante, antica.
Ho appena conosciuto Ramona Ponzini e la sua bellissima voce, e ancora non lo so.

Quello che mi è parso un canto remoto, eppure vivo nella carne e nelle sonorità, proviene in effetti dal passato. A partire dal 2004 Ramona ha sviluppato insieme ai My Cat Is An Alien (Maurizio and Roberto Opalio) il progetto Painting Petals On Planet Ghost (PPOPG; http://www.mycatisanalien.com/PPOPG.htm), volto a scoprire e sperimentare le potenzialità musicali della poesia giapponese, sposandole a contaminazioni inattese.

I sorprendenti risultati sono racchiusi in tre album, il primo dei quali, Haru (Time-Lag Records; vedi sopra la copertina), del 2005, s’ispira ai versi e alla letteratura dell’epoca Heian (794-1185), ed in modo particolare a una delle più antiche antologie poetiche giapponesi, il Kokinshū (Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne); non manca un tributo al celebre incipit del Makura no Sōshi (Note del guanciale) di Sei Shōnagon.

Nel 2008 è il turno di Fallen Cammellias (A silent place), che riprende alcuni tanka (composizioni liriche strutturate in 5-7-5-7-7 sillabe) della poetessa primonovecentesca Yosano Akiko, attingendo soprattutto alla raccolta Midaregami. L’anno dopo, in Haru no omoi (PSF Records; qui a destra la copertina), vengono riuniti alcuni brani estratti dai dischi precedenti, con l’aggiunta di due pezzi inediti, ancora una volta ispirati ai tanka di Yosano Akiko.

Ramona Ponzini non si ferma qui, e collabora anche con artisti quali Z’EV e Lee Ranaldo dei Sonic Youth, eseguendo in giapponese ― sua lingua musicale ed artistica d’elezione ― improvvisazioni live e testi da lei composti, come nel caso dell’album Ankoku.

Oggi sono felice di poterla intervistare e di scoprire qualcosa di più riguardo le sue interessanti ricerche. Prima di leggere il seguito dell’articolo, vi suggerisco di ascoltare qualcuno dei brani presenti in http://paintingpetalsonplanetghost.bandcamp.com.

Biblioteca giapponese (d’ora in poi Bg): Innanzitutto, Ramona, ti ringrazio per la disponibilità. Alla tua giovane età hai già all’attivo importanti traguardi (una laurea coronata da una tesi sugli esordi letterari della poetessa Yosano Akiko; collaborazioni di valore con numerosi artisti; interventi sul tuo lavoro pubblicati negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Giappone…). Oltre che alla tua bravura, naturalmente, una parte del tuo successo è legata al progetto Painting Petals On Planet Ghost: puoi raccontarci come è nata l’idea di battere nuove strade attingendo alla poesia giapponese?

Ramona Ponzini (d’ora in poi RP): Il progetto Painting Petals on Planet Ghost nasce dopo anni di interazione sinergica tra me e i My Cat Is An Alien. Ho conosciuto i fratelli Opalio nel 2001 e sono rimasta subito affascinata dal loro approccio anticonvenzionale alla musica e all’arte in generale. All’epoca mi occupavo di teatro sperimentale ma ho seguito costantemente i loro concerti, tenuto sott’occhio le innumerevoli uscite e dopo qualche anno è iniziato il nostro sodalizio artistico. Painting Petals on Planet Ghost scaturisce dall’esigenza di coniugare l’anima più lirica e melodica dei MCIAA con il lavoro di ricerca da me condotto, e che ancora sto conducendo, sulla poesia giapponese come fonte privilegiata di testi musicabili. Il punto di partenza sono proprio le liriche in giapponese: di solito seleziono i testi, li traduco per i ragazzi affinché possano comprendere il motivo che mi ha spinto a scegliere determinate liriche, nonché il loro significato, poi passiamo a concentrarci all’unisono sulla musicalità intrinseca della lingua e della metrica delle poesie per poter creare quel tessuto sonoro che viene a costituirsi quale perfetta culla per i testi e  le melodie.

Bg: Cosa pensi che i versi giapponesi possano comunicare oggi agli ascoltatori occidentali, tanto più che essi sono spesso digiuni di poesia nipponica?

RP: Painting Petals on Planet Ghost rappresenta il punto di congiunzione tra il mio lavoro di studiosa della lingua e della letteratura del sole levante e la mia personalità artistica: parafrasando Joan La Barbara, in quanto musicista mi occupo dei “suoni come presenza fisica”, li scolpisco attraverso la voce, e lascio che il flusso dei pensieri e la visualizzazione dei gesti sonori portino alla creazione del risultato finale. Credo fortemente che non sia sempre essenziale per il fruitore di musica capire alla lettera il testo di una canzone: l’essenza del mio lavoro risiede nel tentativo di far scoprire all’ascoltatore la funzione di base della voce come primario mezzo di espressione. PPOPG è un progetto che rispecchia una fuga verso l’interiorità più delicata e poetica, uno scavo intimista che lascia spazio alla pura catarsi: la musicalità che scaturisce dalla lingua giapponese sotto forma di poesia ne è il mezzo sublime.

Bg: All’inizio del ventesimo secolo, Yosano Akiko era ritenuta una poetessa trasgressiva e una donna fuori dal comune: pioniera del femminismo, anti militarista e scrittrice estremamente prolifica. Come mai hai voluto ispirarti a lei per il tuo album Fallen Cammellias e per la realizzazione di altri brani?

RP: Sin dal liceo (ma anche all’università), scorrendo l’indice delle varie antologie letterarie, mi sono sempre chiesta come mai queste fossero così digiune di nomi femminili. Era davvero possibile che i più grandi autori delle più grandi opere fossero esclusivamente uomini? Così ho iniziato a cercare, ad andare oltre quelli che erano i programmi scolastici e ho scoperto Gaspara Stampa, Elsa Morante, Amalia Guglielminetti, Kate Chopin, Simone de Beauvoir, Virginia Woolf, Jane Austen, Emily Brontë, Sylvia Plath, Murasaki Shikibu, Yosano Akiko, per citare solo alcuni nomi. Credo sia dovere di ogni donna leggere, innanzitutto, Una stanza tutta per sé della Woolf e Il secondo sesso di  Simone de Beauvoir, ma principalmente indagare e scoprire che anche noi abbiamo lasciato un segno indelebile nella storia dell’arte, di tutte le arti, dalla poesia alla pittura, dalla musica al cinema; la nostra funzione creativa non si espleta solo nel mettere al mondo dei bambini, non può bastarci e in realtà non ci è mai bastato (anche se vogliono farci credere il contrario). Un esempio su tutti: Yosano Akiko, per l’appunto. Ha cresciuto undici figli eppure è una delle più grandi poetesse del ventesimo secolo.

Bg: Ascoltando i tuoi pezzi si rimane colpiti dalla sensazione di essere proiettati in una dimensione senza tempo; la ragione forse sta nell’aver sposato dei testi poetici – talvolta secolari – a sonorità nuove. Inserire questi versi in un tessuto musicale contemporaneo è un modo per tentare di renderli più attuali e dunque maggiormente apprezzabili anche dal pubblico?

RP: Credo che il nocciolo della questione risieda nella natura stessa della musica in quanto arte: l’Arte per eccellenza, secondo Nietzsche, il punto di sutura tra l’Uomo e il Dionisiaco.
In Musica e parola il filosofo ha sostenuto: “Mettere la musica completamente al servizio di immagini, e di concetti, utilizzarla come mezzo allo scopo di dar loro forza e chiarezza, questa è la strana arroganza del concetto di “opera”; (…) Perché la musica non può mai diventare un mezzo anche se la si vessa, se la si tormenta; come suono, come rullo di tamburo, ai suoi livelli più rozzi e più semplici essa supera ancora la poesia e la abbassa ad un proprio riflesso. (…) Certamente la musica mai può diventare mezzo al servizio del testo, ma in ogni caso supera il testo; diventa dunque sicuramente cattiva musica se il compositore spezza in se medesimo ogni forza dionisiaca che in lui prende corpo, per gettare uno sguardo pieno d’ansia sulle parole (…).”
Volendo bilanciare quelli che sono i due elementi del contendere, reputo che l’interazione sinergica, nonché paritaria, tra musica e poesia faccia sì che il testo poetico arrivi all’ascoltatore in maniera più immediata e viscerale, fino a toccare le corde più profonde dell’anima.

Bg: Oltre ad essere una bravissima cantante, sei certamente un’amante della letteratura giapponese: quali opere e autori ami, escludendo i testi e gli artisti su menzionati?

RP: La lista potrebbe essere molto lunga! Per dovere di cronaca credo sia giusto partire da quelle che sono state le mie letture al liceo: Yoshimoto Banana, in un primo tempo, e poi Kawabata Yasunari e Tanizaki Jun’ichirō. Tanikazi ha segnato profondamente la mia formazione letteraria, in particolare i primi racconti brevi, quali Shisei (Il tatuaggio) e Shōnen (Adolescenti), ma soprattutto opere come Bushūkō hiwa (Vita segreta del signore di Bushū) e Hakuchū kigo (Morbose fantasie), con la loro “estetica della crudeltà” continuano ad essere un’inesauribile fonte di stimoli e d’ispirazione. Rischio di essere scontata ma non posso non citare Mishima Yukio con Kinkakuji (Il padiglione d’oro), Tayō to tetsu (Sole e acciaio) e Eirei no koe (La voce degli spiriti eroici). Potrei mai omettere Murasaki Shikibu e il Genji monogatari? No. Categoricamente impossibile. Sarà sempre una delle più grandi opere della letteratura mondiale, non solo giapponese.

Bg: Rimanendo in tema: c’è qualche opera o qualche scrittore cui vorresti rivolgere le tue attenzioni musicali in futuro? Quali progetti hai in cantiere?

RP: Al momento sto lavorando sulle liriche di Takamura Kōtarō: è in uscita proprio in questi giorni un vinile intitolato Transaparent winter, per l’etichetta inglese Blackest Rainbow, che presenta due pezzi ispirati ai testi del poeta dell’epoca Shōwa, ma rielaborati e dilatati, frutto di un lavoro di improvvisazione e composizione istantanea che catapulta le sonorità tipiche di PPOPG in una dimensione più sperimentale rispetto ai primi tre album.
Il 23 novembre parteciperò insieme ai MCIAA e allo scrittore inglese Ken Hollings (autore di Benvenuti su Marte) ad uno show radiofonico alla londinese Resonance: il titolo della performance è ‘Ghost Blood Spectrum’ e per l’occasione selezionerò delle liriche giapponesi incentrate su quella che definisco “l’estetica del sangue”. Il 25 novembre sarò in concerto con Painting Petals On Planet Ghost al Cafe OTO di Londra, venue di culto per la musica sperimentale contemporanea (http://cafeoto.co.uk/my-cat-is-an-alien.shtm).

Bg: Grazie ancora, Ramona, e in bocca al lupo per i tuoi progetti.

Il giornalista americano che sfidò la yakuza: “Tokyo Vice” di Jake Adelstein

«Un libro fantastico. Con umorismo sardonico e stile hardboiled, Adelstein accompagna il lettore in un viaggio appassionante nel mondo del crimine giapponese, esaminando i rapporti spesso ambigui tra giornalisti, poliziotti e gangster». Così George Pelecanos, significativo scrittore noir statunitense, ha commentato Tokyo Vice di Jake Adelstein (Einaudi, pp. 466, € 19,50), volume da poco uscito in Italia e ispirato a una storia vera dalle tinte forte. Questa la presentazione dell’editore:

La storia di Jake Adelstein, per dodici anni, dal 1993 al 2005, cronista di nera per lo «Yomiuri Shimbun», il piú grande quotidiano del Giappone, e dal 2005 al 2007 investigatore capo del Dipartimento di Stato americano e responsabile di una colossale inchiesta sul traffico di donne nel Sol Levante.
Un’indagine rigorosa sul crimine organizzato giapponese, tra estorsioni, sfruttamento della prostituzione, collusioni con la politica. E il resoconto emozionante delle vicende che hanno portato Adelstein a incrociare le armi con uno dei piú grandi boss della yakuza fino a rischiare la vita (al punto di entrare per piú di un anno nel programma protezione testimoni).
Un libro indispensabile per comprendere l’anima nera del Giappone, ma anche per penetrare nei meccanismi piú reconditi del crimine, e scoprirli vicini, a volte fin troppo simili a quelli di casa nostra.

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