La ragazza scende giù, a picco, avvolta da un sottile manto di bolle. Le braccia tese lungo i fianchi, le dita affusolate ben dritte. Del corpo abbronzato, spicca la testa avvolta in un telo fine e le piante dei piedi pallide strette attorno alla fune che la riporterà sulla superficie, dopo la caccia. Le profondità marine si aprono veloci al suo passaggio. Tra qualche minuto la pescatrice tornerà a galla, al piccolo, rumoroso battello di famiglia che attende il suo bottino di molluschi pregiati (gli awabi), mentre uno studioso riporrà la sua fidata Leica e prenderà appunti.
E’ così che mi figuro quanto accaduto nell’ormai lontano 1954, quando Fosco Maraini approdò nell’isola di Hekura per conoscere la popolazione quasi leggendaria degli Ama e, soprattutto, le sue giovani pescatrici subacquee, capaci di perlustrare il fondo pressoché senza alcuna attrezzatura.
I lunghi approcci del ricercatore per scalfire il riserbo e il sospetto degli abitanti ebbero infine la meglio, soprattutto grazie a un colpo di fortuna insperato. Il frutto di quei duri giorni di lavoro è stato immortalato in uno dei servizi fotografici a sfondo antropologico giustamente più celebri, tuttora apprezzabile per la sua bellezza e la sua fedeltà, e oggi raccolto nel catalogo di una meravigliosa mostra tenutasi a Lugano nei mesi scorsi, L’incanto delle Donne del Mare (Giunti, pp. 176, € 38, solo ora in offerta su Amazon.it a € 32,30).
Gli scatti, pubblicati originariamente in alcune riviste e poi raccolti dall’orientalista toscano ne L’isola delle pescatrici (ed. Leonardo da Vinci, 1960), sono qui riprodotti in alta qualità e accompagnati da una serie di saggi volti a evidenziare le origini e la storia delle Ama, nonché l’attenzione da loro guadagnata in ogni epoca; naturalmente, non possono mancare sentiti tributi all’opera di Maraini, alla sua poetica fotografica, ai suoi metodi documentari innovativi e acuti.
Già in passato, le Ama furono protagoniste di racconti folklorici e di stampe ukiyo-e; queste ultime, in particolare, miravano a mettere in luce tutta la sensuale bellezza delle giovani, talvolta con esplicite connotazioni erotiche (basti pensare al celebre Sogno della moglie del pescatore di Hokusai, 1814). Negli anni Sessanta, le immagini dell’orientalista fecero il giro del mondo, facendo rinverdire il mito, al punto tale da spingere Ian Fleming a dare in moglie al suo James Bond una languida pescatrice, Kissy Suzuky (“Agente 007. Si vive solo due volte”, 1967).
Eppure, guardando le istantanee dall’autore di Ore giapponesi, è inevitabile percepire quasi un senso di purezza dimenticato, perduto. Il bianco e nero accentua la forza e la grazia semplice dei corpi, ma nessuna posa, nessun gesto è calcolato e, tantomeno, volgare: accovacciate in barca e pronte a tuffarsi tra i flutti, cariche di mastelli sugli scogli o gettate a capofitto nelle profondità, le fanciulle appaiono sempre dignitose e prive di ogni malizia, sebbene siano ricoperte soltanto d’un semplice perizoma e di salsedine.
Come ricorda Campione nel volume,
[l]e Donne del Mare non sono solo le pescatrici di awabi: sono madri piene di tenerezza; sono ragazze gioiose che alla sera parlottano tra di loro allegramente <<soffocando le risate tra le mani sollevate a coprirsi>>; sono compagne di <<gagliardi pescatori coi capelli ispidi e la pelle simile a scorze d’albero>>; sono le cittadine di una minuscola repubblica marinara la cui vita è regolata da sempre dal susseguirsi di cerimonie che rimandano a una quotidianità contrassegnata da un profondo rapporto della cultura con l’ambiente; sono, in definitiva, l’espressione di una civiltà minore, di un’isola nell’isola, di una realtà quasi sconosciuta e certo sorprendente, che l’obiettivo dell’etnologo e del fotografo riuscì a immortalare ancora nella sua piena vitalità, mentre all’orizzonte si poteva intravedere già l’autunno di un mondo destinato, da lì a poco, a scomparire per sempre.
Ma che foto meravigliose, grazie! Peccato che mi sono persa la mostra.