I giochi fra la polvere, gli appostamenti per rubare cani selvatici, la fame atavica resa più acuta dai tempi di guerra, l’osservazione minuziosa e, allo stesso tempo, pigra della quotidianità per scovarci dentro qualche segno nuovo, sorprendente.
E poi, tutt’a un tratto, un giorno, una cometa di metallo e fumo segna il cielo: un aereo nemico è precipitato laggiù, sulla montagna. Nello squallido villaggio in cui persino le maestre giungono mal volentieri per far lezione a studenti tanto miseri, tutti si mobilitano per vedere l’essere bizzarro fuoriuscito dai rottami: un pilota di colore, americano, enorme e taciturno.
Eccitati dall’inaspettata novità, i ragazzi si avvicinano con timore all’uomo – fatto subito prigioniero dagli abitanti – e indagano ogni suo minimo movimento. Ciascun dettaglio del suo corpo, ciascuna azione fa germogliare curiosità:
Ridemmo fino a che le gambe non ci ressero più e cademmo a terra esausti, come se la tristezza si fosse insinuata nelle nostre morbide teste. Per noi il soldato nero era come un raro e splendido animale domestico, un animale di talento. Come posso esprimere il bene che gli volevamo, il sole che brillava sulla nostra pelle bagnata e pesante in quel lontano pomeriggio di estate, l’ombra spessa sull’acciottolato, l’odore dei bambini e del soldato negro, le grida di gioia, il senso di appagamento, il ritmo di tutto questo?
A noi sembrava che quell’estate che ci aveva mostrato un muscolo tanto vigoroso e splendente, quell’estate che ci inzuppava con un pesante olio nero e dispensava felicità come un pozzo di petrolio improvvisamente zampillante, non sarebbe finita mai, avrebbe continuato per sempre.
Immedesimatosi in uno dei bambini del paese, Rana, Ōe Kenzaburō narra magistralmente ne L’animale d’allevamento (racconto che fa parte di Insegnaci a superare la nostra pazzia) lo stupore, la paura e il fascino scaturito dall’incontro con l’Altro, che non è mai solo e coerentemente se stesso, ma un enigma fatto di contraddizioni, gesti inaspettati, istintualità.
La luce accecante della bella stagione – metafora, neppure tanto velata, della spensieratezza dell’infanzia – si impasta e si confonde con mille ombre. Non la guerra o le prime rivelazioni sulla sessualità, ma la conoscenza del dolore, della morte e, soprattutto, dell’imprevedibilità del male contaminano l’esistenza di Rana: d’improvviso, la durezza e la violenza degli odiati adulti si insediano nei suoi occhi bambini, stravolgendone per sempre lo sguardo. E impara così, bruscamente, come in chiunque possa nascondersi sempre, ben protetta, una bestia che si nutre di terrore e sangue.
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Ōe Kenzaburō, L’animale d’allevamento, in Insegnaci a superare la nostra pazzia (trad. di N. Spadavecchia, Garzanti, 2009, p. 203, € 10,20)
Eccellente articolo. Sono trattare con alcuni di questi
come pure .. Maramures Grazie, buona giornata!