“Aiuto! Il Giappone mi ingoia!”, scriveva Gabriele d’Annunzio nel 1884, travolto dall’entusiasmo per il japonisme, il gusto giapponesizzante, che lo spingeva a circondarsi (dilapidando non poco denaro) di oggetti e bibelot che gli ricordassero la lontana terra orientale. Nel suo Piacere ritroviamo la stessa passione: riflesso di una moda, di una vocazione di vita – il giapponismo – che contraddistinse tutta un’epoca, dal finire del diciannovesimo secolo sin quasi alla metà del Novecento.
Testimonianza più unica che rara di questo periodo è Giapponismo. Suggestioni dell’Estremo Oriente dai Macchiaioli agli anni Trenta, a cura di Vincenzo Farinella e Francesco Morena (Sillabe, 2012, pp. 270, € 30 ora scontati a 25,50 ), catalogo della mostra tenutasi a Firenze presso Palazzo Pitti tra l’aprile e il luglio 2012 nell’ambito del ciclo espositivo Giappone. Terra d’incanti.
Il volume è suddiviso in due parti. La prima ospita sei saggi, scritti da altrettanti studiosi, che inquadrano il fenomeno del japonisme nel nostro paese nelle sue coordinate storiche, artistiche e critiche, ripercorrendo anche lo sviluppo del concetto di giapponismo nel panorama italiano, tra equivoci ed entusiasmi, dando così vita a un solido e vivido quadro di riferimento. A partire da questo si struttura la seconda sezione del libro, focalizzata sulle opere presentate alla mostra, che spaziano dai classici moderni dell’arte nipponica (Hokusai, Hiroshige, Utamaro), sino ai grandi autori della scena europea (Monet, De Nittis, Signorini, Fattori, Ragusa, Balla, De Pisis, Boldini).
Nato, secondo la leggenda, grazie alla scoperta da parte dell’incisore Felix Bracquemond di un volume dei manga (schizzi) di Hokusai presso il laboratorio dello stampatore Delatre nel 1856, il japonisme ben presto giunse anche nei salotti degli intellettuali francesi e negli atelier dei pittori, contagiando le tele di artisti quali Van Gogh, Manet e Monet, solo per fare i nomi più celebri. De Nittis, Boldini, Zandomeneghi – trasferitisi a Parigi sul finire dell’Ottocento – poterono dunque attingere di prima mano a queste inesauribili fonti del gusto allora d’avanguardia, per poi veicolarle in Italia dopo averle diligentemente assorbite e reinterpretate, dando vita a opere apprezzabili e originali, sebbene tutt’ora poco conosciute.
Al di là della ripresa di temi divenuti col tempo stereotipati (la donna in kimono, i repertori di ventagli e ombrelli, le stoffe fini e preziose…), la vera e rivoluzionaria lezione tratta dal Giappone investì il modo di concepire e trattare le forme, che divennero così meno retoriche, guadagnandone in essenzialità e asimmetria.
Basti pensare agli straordinari Pioppi nell’acqua (1876) di De Nittis o alla Veduta di Villa Borghese (1918) di Balla, tanto simile a un kakemono: nessun tratto è di troppo, nessun colore tenta di scalzarne un altro. Il japonisme – nei suoi migliori esemplari – ha realizzato un incantesimo: rendere più rarefatta l’arte e, soprattutto, la sua sostanza emotiva.
Incantevole post per un incantevole tema! Salutissimi, Annarita.
Grazie mille, Annarita.