A lungo ho apprezzato l’architetto Frank Lloyd Wright – il creatore, tanto per capirci, della casa sulla cascata o il Guggenheim Museum di New York-, ma non sapevo spiegarmi il perché. Un libro però potrebbe probabilmente contenere la risposta: Le stampe giapponesi. Una interpretazione dello stesso Frank Lloyd Wright,  con saggi di Francesco Dal Co e Margo Stipe (Electa, 2008, pp. 126, € 45; in offerta su Amazon.it a 38,25 € cliccando qui).
Questa la presentazione tratta dal sito dell’editore:

Nel 1893 venne inaugurata a Chicago l’Esposizione Colombiana. Si concludeva il secolo che aveva visto il formarsi della nazione americana e ne iniziava un altro durante il quale gli Stati Uniti erano destinati a conquistare la supremazia mondiale. L’Esposizione mobilitò risorse enormi e segnò una tappa fondamentale anche per la storia dell’architettura americana. Tra gli artefici di secondo piano della costruzione dell’Esposizione vi fu Frank Lloyd Wright (1867-1959).
Wright era destinato, come il Paese in cui era nato, a diventare una figura dominante nella scena dell’architettura mondiale del Novecento. Se ebbe un ruolo marginale nella costruzione dell’Esposizione, Wright fu però uno dei visitatori più attenti dei Padiglioni che la costituivano. Tra questi ve ne era uno di modeste dimensioni, l’Ho-o-den, un tempio giapponese ricostruito su un’isola artificiale. L’impressione che l’Ho-o-den esercitò sul giovane architetto fu enorme e l’accompagnò per tutta la vita. Wright aveva già avuto modo di conoscere l’arte e la cultura giapponesi grazie al suo primo datore di lavoro, Joseph L. Silsbee, collezionista di stampe giapponesi e frequentando le conferenze tenute dal grande iamatologo Ernst Fenellosa.
Da allora Wright non soltanto compì diversi viaggi in Giappone, ma divenne anche uno dei più autorevoli tra i collezionisti americani di stampe giapponesi. Nel 1912 pubblicò The Japanese Print. An Interpretation, un testo da allora imprescindibile per tutti gli studiosi e i cultori dell’arte giapponese, ma non meno fondamentale per comprendere il significato dell’opera che Wright realizzò.
Questo testo viene ora tradotto per la prima volta in italiano e proposto in una preziosa edizione in facsimile, accompagnato da un saggio che ne spiega l’importanza, di Margo Stipe, una studiosa che ai legami che Wright venne tessendo con la cultura giapponese ha dedicato studi accurati e preziosi. Che il precoce incontro con l’Ho-o-den abbia segnato l’intera opera di Wright lo conferma questa confessione che l’architetto fece ai suoi allievi negli ultimi anni della sua vita, nel 1954: “Non vi ho mai confessato in che misura le stampe giapponesi mi abbiano ispirato. Non ho mai cancellato quella mia prima esperienza e mai lo farò. È stato per me il grande Vangelo della semplificazione, quello che porta all’eliminazione del superfluo”.

Nella foto:  facciata del Frank Lloyd Wright’s Imperial Hotel, Meiji Mura, vicino Nagoya, in Giappone.

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