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In viaggio con Murakami: reportage di Repubblica.it (2)

Ecco qui la seconda puntata del reportage In viaggio con Murakami di Dario Olivero, pubblicato da Repubblica.it, dal calviniano titolo
Se una notte d’estate un viaggiatore:

Una porta deve essere qui, alla stazione della metro di Shinjuku. Non quella di Shibuya dove vive il protagonista di Dance dance dance. A Shinjuku, dove succede sempre qualcosa nei libri di Haruki Murakami. Un’altra porta potrebbe essere all’Albergo del Delfino, ma è a Sapporo, non a Tokyo. Un’altra in fondo a qualche pozzo, ma dove si può trovare un pozzo in una città che ha fatto dell’altezza la sua principale dimensione di sviluppo? No, la porta deve essere qui, a Shinjuku.

Shinjuku
Shinjuku

Qui, seduto da queste parti, Okada Toru impara a guardare i volti delle persone come in una pratica zen nell’Uccello che girava le viti del mondo. Qui consuma i suoi pomeriggi da disoccupato, qui incontra la donna che darà l’ennesimo giro di ruota al suo destino sempre più occulto. Qui il Ranocchio mette in atto il suo piano per salvare Tokyo chiedendo a un mediocre impiegato di banca che lavora a due passi dalla stazione di aiutarlo nella sua lotta contro il Gran Lombrico nel racconto contenuto in Tutti i figli di dio danzano. Qui, a Shinjuku, crocevia di treni e di uomini.
Fuori dalla stazione non si fuma. Dentro qualsiasi locale sì. Virtù pubblica, vizi nei posti pubblici. C’è un’area fumatori in cui tutti si ammassano, all’aperto. Un metro più in là è vietato, anche se l’aria e il cielo sono gli stessi. Un vigile controlla. Pendolari arrivano e tornano come branchi di pesci. Uno se li immagina impiegati di banche, finanziarie, società hi-tech. Murakami ha sempre avuto un’altra idea del lavoro. Contando a caso nei suoi romanzi si individuano tra le altre le seguenti meno roboanti occupazioni: contatori di uomini calvi, fabbricanti di parrucche, fabbricanti di elefanti, controllori di merci in grandi magazzini, donne delle pulizie in love hotel, modelle di moda fotografate soltanto per le loro meravigliose orecchie. Intanto, nel mondo reale, il Giappone perde il 9,6% della produzione industriale, il 46 di esportazioni e quasi il sei di crollo del Pil. Tasso di disoccupazione salito al 4,4, diecimila suicidi all’anno tra gli over sessanta rimasti senza lavoro. Quando rimangono senza lavoro, continuano ad alzarsi presto, si radono, si vestono, escono di casa e rientrano la sera. Fanno finta di niente fino a quando resistono, come un imperatore che non ammette la sconfitta. Quanti di loro stanno prendendo ora il treno a Shinjuku? Quanti conoscono la porta nascosta qua sotto?
Due compagnie della metro, ci vorrà un po’ a capire che un biglietto di una non funziona per l’altra. Anche perché spesso le linee corrono praticamente parallele, si sovrappongono. Due linee, due mondi, due città. La prima è Il Paese della meraviglie, l’altra è La fine del mondo, come il titolo del libro. Il protagonista del romanzo vive in entrambe. Una è quella di superficie, l’altra è protetta da mura e quando vi si entra occorre lasciare fuori la propria ombra. Tra le due città, una scorza impenetrabile. Ogni tanto un varco, ma come gli illuminati, da Kafka a Lewis Carroll a Rudolf Steiner sanno, a ogni soglia c’è un Guardiano. E’ lui che taglia l’ombra di chi vuole entrare nell’altra città. Questo è il prezzo da pagare per lasciare quello che si crede noto per quello che si crede ignoto.
Tutto è verosimile, niente è reale alla Fine del mondo. Prendi una linea, la Yamanote per esempio. Attraversa tutte le stazioni in cui un turista potrebbe scendere per dare corpo al suo viaggio ideale, poi ritorna a Shinjuku. Ma è ancora lo stesso treno? Quante volte, in quante fermate, a seconda dell’ora, del vento, della luce, del capriccio di un dio sotterraneo si scende nella stessa città? Le due città si assomigliano, i gusti sono leggermente diversi, il cibo meno familiare, solo le stagioni sembrano identiche. E’ tutto dietro quella porta nascosta a Sninjuku. Nessuno la conosce, sarà la porta a decidere se manifestarsi. Forse stanotte, forse in sogno. Purché ne valga la pena.
Da La fine del mondo e il paese delle meraviglie: “Il problema era che non riuscivo assolutamente a ricordarmi né la ragione né lo scopo per cui avevo abbandonato il mio vecchio mondo ed ero venuto in quel posto. Qualcosa, qualche forza mi ci aveva portato. Qualche straordinaria e assurda energia. Così avevo perso la mia ombra e i miei ricordi, e adesso stavo per perdere il mio cuore”.

(fonte: http://olivero.blogautore.repubblica.it/2009/07/29/in-viaggio-con-murakami-2/;)
(foto: http://farm1.static.flickr.com/151/391469293_e89e2dac08.jpg)

In viaggio con Murakami: reportage di Repubblica.it (1)

Per non smentire la fama planetaria di Murakami Haruki e, soprattutto, il fatto che, oramai, in Italia la letteratura nipponica si identifichi quasi esclusivamente con lui e la Yoshimoto, Dario Olivero, di Repubblica.it, dedica in questi giorni un reportage in più puntate allo scrittore di Kafka sulla spiaggia, dal significativo nome di In viaggio con Murakami. Attraverso il Giappone, s’intende. Ecco il primo estratto:

Forse semplicemente non esiste, non a Tokyo. O forse non in questa dimensione. Abituati a tutto, anche ai viaggi cosiddetti letterari, cerchiamo atmosfere e ispirazione dove altri l’hanno trovata prima di noi. Visitiamo la Praga di Kafka, la Londra di Dickens, la New York di Capote, la Parigi di Sartre. Ci sono viaggi organizzati per questo genere di cose. L’ultimo nato è la Stoccolma di Stieg Larsson. Città che prima aveva poco da offrire se non gli spazi troppo o troppo poco illuminati e respingenti di Bergman, ora diventa location a ore e a tariffa dei luoghi da cui il giornalista Mikael Blomkvist ha conquistato milioni di lettori. Ma Tokyo è un’altra cosa. Haruki Murakami è un’altra cosa.

L’hanno cercata in tanti la Tokyo di Murakami. Migliaia di lettori hanno creduto di individuare i luoghi che racconta nei suoi romanzi. Una di quelle che è andata più vicino è un’italiana, Rossella Marangoni (Tokyo, Unicopli, 2007). Ma andare vicino non vuol dire arrivare. La periferia in cui abita Okada Toru, il protagonista di L’uccello che girava le viti del mondo? Qualsiasi periferia. L’università di Norwegian Wood? La Tokyo University o forse la Waseda dove lo stesso Murakami ha studiato. Il caffè della ragazza che legge il suo immenso libro mentre il mondo le scorre attorno in After Dark? A Shibuya, a Ginza, a Aoyama. Potrebbe essere ovunque. Murakami racconta Tokyo senza lasciare nessun indizio reale. Nessuna traccia. Tranne una, la stazione di Shinjuku. Ammesso che quella che racconta sia la Shinjuku reale e non un varco verso altre dimensioni che corrono parallele alla metropolitana e si perdono verso la fine del mondo.

Certi inviati di giornali con poco tempo e messi alle strette tra fuso orario e scadenza di consegna del pezzo se la cavavano a volte con quattro chiacchiere con il tassista che dall’aeroporto li portava a destinazione. Si facevano una prima idea sommaria. In alcuni casi restava quella. A Tokyo questo rischio non c’è. I tassisti parlano solo giapponese, nessuna speranza di fare conversazione. E poi sono troppo impegnati a districarsi in un mestiere che, da Roma a New York nessuno invidia, ma che qui diventa usurante. Una toponomastica assente, il nome di qualche arteria principale, una sommaria divisione per quartieri. Il tassista che lavora a Ginza sa poco e niente di Odaiba, quello di Ogikubo non sa dove sono i Giardini del palazzo imperiale. Legge il nome in giapponese che la guida riporta prevedendo la difficoltà del viaggiatore, ma le cose non vanno meglio. Semplicemente non lo sa. Un altro si arrende di fronte a quello che un occidentale sa essere un monumento nazionale giapponese: Ghibli Museum, la fabbrica dei sogni di Hayao Miyazaki, il maestro dell’animazione, quello di Princess Mononoke, La città incantata e l’ultimo, Ponyo sulla scogliera. Quello che disegna tutto a mano. Ma il tassista non lo sa, non lo capisce, dà la colpa all’inglese che non parla.

Nessun tassista vi aiuterà. Non riescono a venire a capo, nonostante i sofisticati navigatori che avrebbero dovuto semplificare la loro vita della Tokyo di superficie, la Tokyo reale. Figurarsi la Tokyo di Murakami che forse non esiste nemmeno. Quella di Kokubunji, quella di Sendagaya dove Murakami aprì due jazz bar prima di dedicarsi alla letteratura è nascosta da un velo più denso della foschia di luglio. Manca la toponomastica in superficie, manca quella letteraria. Una metafora, tutto è metafora, tutto è sincronicità, tutto è attributo di un’unica sostanza. Tutto in una sola città.

Così cambiano anche le coordinate dell’inizio di After Dark: “E’ una metropoli quella che abbiamo sotto gli occhi. La vediamo attraverso lo sguardo di un uccello notturno che vola alto nel cielo. Nel nostro sconfinato campo visivo, appare come un gigantesco animale. O un confuso agglomerato, composto da tanti organi avvinghiati l’uno all’altro. Un’infinità di arterie si protendono fino all’estremità di un corpo inaferrabile, vi fanno circolare il sangue e ne rigenerano di continuo le cellule. Trasmettono nuove informazioni, e raccolgono quelle vecchie. Comunicano nuovi bisogni, e raccolgono quelli vecchi. Portano nuove contraddizioni, e raccolgono quelle vecchie. Al ritmo di queste pulsazioni, il corpo si accende in più punti, si infiamma, si contorce. La mezzanotte è vicina, il metabolismo di base per sostenre la vita dell’organismo, che ha appena superato la fase culminante della sua attività, continua con vigore inalterato. Un gemito, quasi un accompagnamento in sottofondo, si leva dalla città. Un gemito monotono, privo di alti e bassi, eppure denso di presagi”.

(Fonte: http://olivero.blogautore.repubblica.it/2009/07/28/in-viaggio-con-murakami-1)
(Foto: Tokyo, 2004. Fotografo: Sutton-Hibbert/Rex Features; fonte: http://www.guardian.co.uk/culture/tvandradioblog/2008/jun/25/imaginefailstofindmurakami)

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