Sulla nave eravamo quasi tutte vergini. Avevamo i capelli lunghi e neri e i piedi piatti e larghi, e non eravamo molto alte. Alcune di noi erano cresciute solo a pappa di riso e avevano le gambe un po’ storte, e alcune di noi avevano appena quattordici anni ed erano ancora bambine. Alcune di noi venivano dalla città e portavano abiti cittadini all’ultima moda, ma molte di più venivano dalla campagna, e sulla nave portavano gli stessi vecchi kimono che avevano portato per anni – indumenti sbiaditi smessi dalle nostre sorelle, rammendati e tinti più volte. Alcune di noi venivano dalle montagne e non avevano mai visto il mare, tranne che in fotografia, e alcune di noi erano figlie di pescatori che conoscevano il mare da sempre. Forse il mare ci aveva portato via un fratello, un padre o un fidanzato, o forse un triste mattino una persona cara si era buttata in acqua e si era allontanata a nuoto, e adesso anche per noi era arrivato il momento di voltare pagina.
Sono queste le prime parole di una storia dimenticata e a tratti crudele; una storia che non ha per protagoniste eroine o ammaliatrici, ma migliaia di donne giapponesi che – non di rado contro la loro volontà – furono costrette a lasciare tutto ciò che avevano di più caro per raggiungere gli Stati Uniti e qui sposare un connazionale, che altri non era se non un perfetto sconosciuto. Le vite struggenti di questa moltitudine silenziosa sono raccontate nel romanzo Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka, in uscita il 12 gennaio 2012 per Bollati Boringhieri, con traduzione di Silvia Pareschi (che ringrazio per la disponibilità e gli aggiornamenti costanti). Per leggere le prime pagine, basta cliccare qui; e questo, invece, è il booktrailer del volume: