Una ragazza suona assorta il violino, poggiandolo su una spalla avvolta dalla seta, mentre un voluminoso chignon le incornicia il viso bianchissimo; un’altra – capelli ricci e abito leggero – sorride, quasi colta di sorpresa, dinanzi una Sakura Biiru.
Questi sono solo due dei tanti ritratti femminili estrapolati dalla produzione pubblicitaria nipponica e proposti dall’artista visuale Alex Gross in Japanese Beauties. Vintage graphics 1900-1970 (trad. di Carme Franch, Quirino Di Zitti, Ana Carneiro; Taschen, 2004, pp. 192; qui la versione italiana e qui quella inglese). (altro…)
Malgrado possa vantare una storia ultramillenaria, solo negli ultimi decenni il sushi è diventato ovunque uno dei simboli indiscussi del Paese del Sol Levante grazie all’accorto bilanciamento degli ingredienti e all’apparente semplicità della pietanza, minuta ma sempre gustosa e curata in ogni dettaglio.
Cercare l’armonia sublime fra i sapori e le consistenze sfruttando le stagionalità è molto più che una semplice questione di tecnica, seppur portata ai livelli più alti: è arte. Non a caso, proprio Arte del sushi(Gribaudo, 2015, pp. 164, € 12,90, in offerta a € 10,97) s’intitola il volume graficamente molto suggestivo curato da Stefania Viti che raccoglie contributi riguardanti i più disparati aspetti connessi alla pietanza, redatti da un buon numero di specialisti. (altro…)
Raramente capita di imbattersi in riflessioni acute sugli haiku che non siano state prodotte da studiosi di letteratura giapponese. Molti di coloro che si addentrano in questo campo senza le necessarie conoscenze finiscono, quasi inevitabilmente, per insistere sui medesimi concetti: la brevità fulminante, la vocazione zen dei versi, il carattere illuminante dell’attimo fissato per sempre…
E’ (anche) per questo che i quattro brevi saggi raccolti in Sull’haikudel poeta, critico e traduttore Yves Bonnefoy (trad. di Andrea Cocco, O barra O edizioni, 2015, pp. 92, € 15, in offerta a 12,75) mi hanno colpito. Brevi ma densissimi, i testi propongono inconsuete prospettive interpretative del genere poetico nipponico, facendo ricorso a un linguaggio suggestivo e pregnante.
Un treno e ancora un altro, una notte dopo l’altra: è in questo curioso modo che Patrick Holland vive il suo primo incontro col Giappone. Giunto qui ad agosto, nel pieno delle commemorazioni per O-bon, dal momento che nessun alloggio è più disponibile, decide di trascorrere le ore dopo il tramonto in vagone, come racconta nei primi capitoli del suo Treni in corsa nelle notti di Kyoto(trad. di Giacomo Falconi, Exorma, 2015, pp. 252, € 15,90, ora in offerta a 13,52), volume dedicato ai ricordi dei suoi soggiorni in Giappone, Cina e Vietnam.
Facendo, dunque, di necessità virtù, lo scrittore poco alla volta si lascia andare al flusso inatteso delle esistenze che si dipanano lungo e attorno i binari, finendo così per scoprire aspetti poco noti della società nipponica e, soprattutto, storie di uomini e donne che hanno forse perso tutto, tranne la dignità. (altro…)
Questa prima metà del 2015 ci ha regalato molti interessanti titoli, fra cui l’edizione economica del Genji monogataricurata da Maria Teresa Orsi e Uomini senza donne di Murakami Haruki. I libri in arrivo per l’autunno e l’inverno 2015 potete invece trovarli qui.
Uomini senza donne di Murakami Haruki (trad. di Antonietta Pastore, Einaudi, pp. 250, € 16,15). Dalla presentazione dell’editore: “Il protagonista di Samsa innamorato, un giorno, si sveglia in un letto e scopre con orrore di essersi trasformato in un essere umano. Non ricorda nulla della sua vita precedente. Sa solo che si chiama Gregor Samsa. Che fine ha fatto lo spesso carapace che lo proteggeva? E perché adesso è ricoperto da questa sottile, delicata pelle rosa? Chi, o cosa, era prima di quel risveglio? Insomma, adesso Samsa dovrà adattarsi alla nuova e “mostruosa” condizione di uomo. Quando però alla sua porta bussa una ragazza il cui fisico è deformato da un’enorme gobba, Samsa dovrà fare i conti con qualcos’altro di sconosciuto: il desiderio e l’erotismo visto con gli occhi nuovi di chi sa andare oltre le apparenze. Habara, il protagonista di Shahrazàd, è un uomo solo, confinato in una casa nella quale gli è vietato ogni contatto col mondo. Non sapremo mai perché, e in fondo non è importante: quello che sappiamo è che il suo unico svago sono le visite regolari di una donna misteriosa che lo rifornisce di libri, musica, film… e sesso. Ma soprattutto gli racconta delle storie, come faceva Shahrazàd nelle Mille e una notte. E in queste storie Habara si tuffa come un bambino, finalmente libero.”.
Imparare le lingue attraverso la musica è un modo piacevole per affinare le proprie capacità di comprensione, ampliare il vocabolario e migliorare la memorizzazione di strutture grammaticali (anche se, non di rado, il linguaggio usato può tendere verso lo slang), senza troppa fatica.
Di recente mi sono perciò innamorata di Lyrics Training, un sito che mette gratuitamente a disposizione molte celebri canzoni in numerose lingue (giapponese, inglese, francese, italiano, turco…) per esercitarsi divertendosi.
Per ogni brano è possibile scegliere fra quattro diversi livelli di difficoltà: beginner, intermediate, advanced ed expert. All’utente viene chiesto di completare il testo della canzone durante l’ascolto, scrivendo la parola mancante o selezionando quest’ultima da un gruppo di termini (nel caso del giapponese, è purtroppo possibile soltanto usare il rōmaji), mentre un sistema di punteggi e penalità fa sì che lo svolgimento dell’attività ricordi quello di un videogioco. Infine, nel caso di alcune canzoni, è anche possibile scegliere la modalità karaoke per rilassarsi o divertirsi con gli amici.
Avete mai sentito parlare delle suffragette giapponesi?
Sfogliando una raccolta di saggi sulla letteratura femminile giapponese, mi imbatto in un scritto firmato da Yukyo Mishima che aveva come tema principale il narcisismo. Il celebre scrittore Mishima quasi non merita introduzioni; è sicuramente ricordato per i suoi libri gettonati ed i suoi gesti estremi. Io, personalmente, non sono mai stata un’appassionata delle sue opere. E’ forse perché i suoi contenuti rimettono quest’immagine del Giappone un po’ idealizzata, quasi epica e romantica, che lo fa apparire come uno stato d’eccezione senza paragoni. Detto questo, non vorrei suonare critica o saccente, ma penso che anche l’atto di amare necessiti qualche regola; amare il Giappone significa considerare in egual misura i suoi pregi ed i suoi difetti. Quindi, se dal lato positivo abbiamo fiori di ciliegio, folklore irriducibile, tecnologia avanzata e via discorrendo, dal lato negativo avremo quasi certamente un distinto grado di ineguaglianze sociali, che siano esse relative ad origini etniche, status economico, classe o sesso.
A proposito di quest’ultimo fattore, sarebbe interessante dare un’occhiata al saggio che ho citato innanzi. Vorrei chiarificare che il termine “narcisismo” in questo caso non ha l’accezione negativa che la parola italiana induce a pensare, ma si riferirebbe piuttosto ad una capacità intellettiva che permette al saggio di distinguere il corpo dalla mente. Il corpo, ci insegnano i grandi filosofi dell’antichità, non è altro che il contenitore putrido dell’anima; in esso la sporcizia immonda della materialità viene accumulata. L’anima è l’intelletto, quel nobile fulgore che fa luce sulla verità e combatte l’ignoranza. Gli uomini, dice Mishima, possono isolare la mente dal corpo, e questa, volando fuori dal corpo stesso, è in grado di osservarlo e osservarsi, generando così consapevolezza. Questo fenomeno è definito “narcisismo”, ossia l’amore per la consapevolezza di se stessi. Purtroppo, Mishima non dispensa la stessa benevolenza verso le donne, e anzi si prodiga in una spiegazione quasi scientifica dei motivi per cui una donna non può beneficiare degli stessi privilegi.
La mente di una donna, infatti, non può librarsi e quindi divenire atto di consapevolezza in quanto inibita dalla pressione gravitazionale dell’utero. Ebbene sì. Per Mishima, l’utero è come una zavorra di elevato tonnellaggio che mantiene le donne incollate alla più spregevole mondanità. Lo scatenato Mishima persevera poi nella sua dissertazione fornendo ulteriori chiarificazioni allo scopo di documentare la sua teoria, ossia comparando le donne ai “rettili dei tempi antichi”, i quali possedevano cervelli sia nella parte superiore che inferiore del corpo. Così, la donna sventurata sembrerebbe possidente di non uno, ma bensì due cervelli (o aeree di controllo, per essere più specifici): uno in testa (il cervello “anatomico”) e uno nell’utero. La mente anatomica della donna, impossibilitata dal poter volar liberamente via dal corpo, è perciò inconsapevole. Una donna inconsapevole, è una donna intellettualmente inferiore.
La traduzione inglese del saggio “Sul narcisismo” è contenuto in una collezione di scritti che documentano la presa di coscienza delle donne scrittrici in Giappone a partire dai primi decenni del ventesimo secolo, e le reazioni ad essa relative. “Woman Critiqued” – (“La donna analizzata”, questo è il titolo della raccolta) rappresenta il percorso doloroso che le scrittrici hanno dovuto, e ancora oggi devono affrontare per vincere gli stereotipi. Nel 1908, un gruppo di intellettuali aveva decretato ad un raduno che una donna potesse scrivere solo ciò che fosse inerente al proprio sesso; era cioè auspicabile che ella concentrasse i suoi ozi letterari (quando questi non ostacolavano i suoi doveri di moglie e madre) sul sentimentalismo e o su temi che riguardassero la maternità. Accusata di imitare gli uomini nella scrittura, di peccare di moderazione, di non aderire a predeterminati canoni di eleganza e contegno, la donna scrittrice avrebbe dovuto esprimersi attraverso principi di femminilità sanciti dagli uomini e cristallizzati nel tempo. Una donna che non agisce da tale, dicevano questo nutrito gruppo di eruditi, non può essere minimamente presa in considerazione, e di conseguenza “non ci disturberemo a leggere i suoi scritti”.
Per Rebecca Copeland, traduttrice e commentatrice del convivio, tale affermazione stava a significare che la scrittrice donna non veniva considerata per la natura delle sue opere e dalla qualità che da esse ne derivava, ma veniva bensì valutata per l’immagine che dava di sé. Non è un caso che, in quello stesso periodo, venissero ingaggiati giornalisti scandalistici al fine di inventare o riportare fatti di minore importanza circa la vita delle scrittrici. Yukiko Tanaka riporta ad esempio il caso della scrittrice Otake Benikichi, citata nei giornali per essere stata vista bere un cocktail popolare tra i modaioli dell’epoca. Beh, sicuramente tali azioni dovevano suscitare scalpore durante il primo decennio del ventesimo secolo, mentre al giorno d’oggi lo stesso gesto non ci solletica neanche. Ma allora, come spiegare le posizioni di Mishima nel 1966, quando scrisse quel saggio sul narcisismo? Possibile che nell’arco di cinquanta anni la causa femminile non fosse andata avanti in Giappone?
In realtà, la missione di liberazione della donna aveva fatto notevoli passi avanti in quel pugno di decenni, almeno sul fronte intellettuale. Nel 1912 Hiratsuka Raichōfondò il giornale Seitō (Bluestocking, scarpe blu), rivista ispirata ai movimenti di liberazione femminista in Occidente scritta da donne per donne (sebbene gli uomini che sostenevano la causa femminile fossero ben accetti). Seitō non solo dava la possibilità a giovani scrittrici di mettere in pratica le loro doti senza correre il rischio di essere ostacolate nel percorso, ma forniva anche il mezzo per il tramite del quale l’informazione sulla condizione femminile potesse circolare liberamente. L’obiettivo della redazione era denunciare gli abusi del sistema patriarcale e propagandare l’unione delle donne per il riconoscimento di diritti inderogabili. Seitō iniziò presto a dar voce a coloro che si schieravano a favore dell’istruzione femminile, del matrimonio per amore, dell’indipendenza economica della donna e della libera scelta tra carriera e famiglia. Benché apparentemente non venisse dato credito a quelle opinioni – che erano comunque limitate a quella minoranza di donne istruite – le istituzioni cominciarono a temere questo nuovo movimento che andava via via acquisendo forza maggiore, al punto che il giornale fu accusato di corrompere l’animo di donne virtuose. Ciononostante, lo scoppio dei conflitti mondiali portò automaticamente ad un maggiore impiego della forza lavoro femminile in Giappone, essendosi presentata la necessità di sopperire alla mancanza di braccia maschili. Inoltre, grazie alle riforme costituzionali ed al riconoscimento di alcuni diritti quali il libero accesso all’istruzione, alla fine degli anni ‘50 la partecipazione delle donne nell’arene letterarie cominciò ad assumere una consistenza considerevole.
Il critico Hasegawa Izumi risponde alle critiche di Mishima asserendo che tale categoria di scrittori si scagliano contro le donne a causa dell’invidia che essi nutrono per non poter descrivere ciò che per la donna è innato e naturale. L’attacco contro le intellettuali donne allora fungerebbe da maschera per nascondere uno scomodo, inconscio senso di inferiorità. Sebbene questa teoria sia interessante, credo che le cause di questi atteggiamenti non debbano essere trovate dei manuali di letteratura; ma piuttosto in cause storiche ed antropologiche. Si dice che la Restaurazione Meiji abbia decretato la declassazione della donna da persona ad oggetto utile all’uomo lavoratore. Il termine ryōsai kembo (ottima moglie, saggia madre) cominciò ad entrare in uso, e valse a rimuovere le donne da ogni tipo di responsabilità e gradualmente confinarle dentro casa. Il motivo dietro tale presa di posizione è riconducibile al senso di inferiorità e al timore di essere giudicati effemminati dalle forze occidentali che avevano minacciato di attaccarli. L’istituzione di un più rigido patriarcato venne vista come la soluzione più logica e pratica. Questo senso di inadeguatezza ha portato il Giappone a fare del patriarcato un leitmotiv senza apparente via di fuga, o comunque, di lentissima risoluzione.
Certamente, al giorno d’oggi le donne hanno poteri e possibilità di gran lunga superiori a quelli delle povere malcapitate del primo ventesimo secolo. Negli anni ottanta, due scrittrici sono anche riuscite ad accaparrarsi il premio Akutagawa. Eppure, ancora non c’è donna che prenda un salario pari a quello di un uomo, e nessuna donna ancora può aspirare ad alte posizioni manageriali; la violenza domestica è stata solo da poco riconosciuta come reato punibile dallo stato. Allora mi dico, perché ci lasciamo affascinare da gesti come quello di Mishima (un harakiri da standing ovation), che in se stesso incarna l’esteta attaccato al passato e nemico di un progresso sano, invece di sostenere la causa delle donne scrittrici di ieri e di oggi, che si schierano per la giusta causa dell’uguaglianza sociale e lavorano per generare consapevolezza? Perché spesso, purtroppo, i paesi occidentali preferiscono perpetuare l’idea di un Giappone esotico e bizzarro, regno dell’imperscrutabile, per sempre lontano da ogni metro di giudizio universale. Questo fenomeno, chiamato orientalismo, innalza l’uomo occidentale a livello di giudice supremo sui popoli asiatici. Questo fenomeno non viene studiato in Italia.
Elena Faccenda
Bibliografia
Copeland, R.L. (2006) Woman critiqued – translated essays on Japanese women’s writing: University of Hawai’I Press
Hasegawa, I. (1976) quoted in Copeland, R.L. (2006) Woman critiqued – translated essays on Japanese women’s writing: University of Hawai’I Press
Mishima, Y. (1966) On narcissism, quoted in Copeland, R.L. (2006) Woman critiqued – translated essays on Japanese women’s writing: University of Hawai’I Press
Tanaka, Y. (2000) Women Writers of Meiji and Taishō Japan: Their Lives, Works and Critical Reception, 1868-1926, North Carolina: Mc Farlan & Company, Inc., Publishers
Vernon, V.V. (1988) Daughters of the moon, Berkeley: University of California Press
Utamaro e Hokusai sono solo due degli artisti giapponesi di cui è possibile conoscere di più grazie ai bei volumi che il Metropolitan Museum of Art di New York (MET) ha messo gratuitamente a disposizione online; oltre a questi ve sono centinaia dedicati a ogni tipo di arte (in lingua inglese) – dalla saggistica sino ai catologhi di mostre -, scaricabili gratuitamente dal sito www.metmuseum.org.
Ecco quelli dedicati all’arte giapponese che ho selezionato per voi:
“Nel go o nello shōgi, non ci si deve sforzare di comprendere la personalità dell’avversario. Scrutare l’animo di chi ti sta di fronte, secondo lo spirito del go, è la via sbagliata” disse una volta il maestro a proposito di certe tesi dilettantistiche. Doveva essere piuttosto seccato da simili superficiali teorie.
“Gente come me, invece, si perde completamente nel gioco, in un’immersione totale”.
Così scrive Kawabata nel suo Il maestro di go (trad. di Cristiana Ceci, ed. SE), evidenziando involontariamente una delle figure orientali per noi più tipiche, quella del giocatore di go saggio, paziente e imperturbabile.
Questa attività, d’altronde, è ben più di un semplice passatempo nato secoli e secoli orsono, come ben ci spiega Marco Milone – scrittore, attore, studioso, nonché curatore di diversi siti dedicati al Giappone (Ukiyo-e,Shintoismo e Emakimono) -, che fornisce una dettagliata ricostruzione della nascita e dello sviluppo del gioco nella sua Storia del go (acquistabile in formato ebook da questa piattaforma e in versione cartacea su Amazon). (altro…)
Un’ultima incursione seria ebbe luogo ai primissimi d’aprile, in pieno giorno.*
Nagoya, come città, era ormai distrutta, ma qualcosa doveva pur rimanere in piedi, se valeva la pena di venire fin là. Questa volta gli apparecchi volavano bassi e tranquilli, come si fosse trattato d’una gita turistica oppure d’un lavoro di rifinitura pedante e minuzioso. Era ovvio che gli apparecchi prendevano con gran cura la loro mira.
Fu allora che i detenuti, tra i quali Clé [alter ego di Fosco Maraini], videro apparire in cielo certi puntolini neri che, accanto alla mole dei B29 americani, sembravano dei moscerini intorno a dei falchi. Fu subito chiaro che si trattava di kamikaze, di piloti suicidi sui loro apparecchi di morte, adatti a partire dal suolo ma senza mezzi per atterrare. Proprio sopra al Tempaku, forse a un migliaio di metri d’altezza, uno dei moscerini puntò diritto verso il suo B29: le distanze s’accorciarono, s’annullarono, ecco il terribile scontro!
Una gran fiamma rossa scoppiò allora in cielo e il gigante, dal quale si era subito staccata un’ala, cominciò a precipitare a foglia morta, bruciando ed esplodendo verso terra. Mentre bombe, corpi, frammenti d’apparecchi calavano con quella che sembrava una solenne e tragica lentezza, da tutta la città si levò un grido di straordinaria potenza, lanciato da migliaia di petti: “Banzai!” urlavano tutti. “Banzai!”.
A quel fatale punto degli eventi, un vano, inutile: “Evviva!” per un tragico giovane eroe.
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