Avete mai sentito parlare delle suffragette giapponesi?
Sfogliando una raccolta di saggi sulla letteratura femminile giapponese, mi imbatto in un scritto firmato da Yukyo Mishima che aveva come tema principale il narcisismo. Il celebre scrittore Mishima quasi non merita introduzioni; è sicuramente ricordato per i suoi libri gettonati ed i suoi gesti estremi. Io, personalmente, non sono mai stata un’appassionata delle sue opere. E’ forse perché i suoi contenuti rimettono quest’immagine del Giappone un po’ idealizzata, quasi epica e romantica, che lo fa apparire come uno stato d’eccezione senza paragoni. Detto questo, non vorrei suonare critica o saccente, ma penso che anche l’atto di amare necessiti qualche regola; amare il Giappone significa considerare in egual misura i suoi pregi ed i suoi difetti. Quindi, se dal lato positivo abbiamo fiori di ciliegio, folklore irriducibile, tecnologia avanzata e via discorrendo, dal lato negativo avremo quasi certamente un distinto grado di ineguaglianze sociali, che siano esse relative ad origini etniche, status economico, classe o sesso.
A proposito di quest’ultimo fattore, sarebbe interessante dare un’occhiata al saggio che ho citato innanzi. Vorrei chiarificare che il termine “narcisismo” in questo caso non ha l’accezione negativa che la parola italiana induce a pensare, ma si riferirebbe piuttosto ad una capacità intellettiva che permette al saggio di distinguere il corpo dalla mente. Il corpo, ci insegnano i grandi filosofi dell’antichità, non è altro che il contenitore putrido dell’anima; in esso la sporcizia immonda della materialità viene accumulata. L’anima è l’intelletto, quel nobile fulgore che fa luce sulla verità e combatte l’ignoranza. Gli uomini, dice Mishima, possono isolare la mente dal corpo, e questa, volando fuori dal corpo stesso, è in grado di osservarlo e osservarsi, generando così consapevolezza. Questo fenomeno è definito “narcisismo”, ossia l’amore per la consapevolezza di se stessi. Purtroppo, Mishima non dispensa la stessa benevolenza verso le donne, e anzi si prodiga in una spiegazione quasi scientifica dei motivi per cui una donna non può beneficiare degli stessi privilegi.
La mente di una donna, infatti, non può librarsi e quindi divenire atto di consapevolezza in quanto inibita dalla pressione gravitazionale dell’utero. Ebbene sì. Per Mishima, l’utero è come una zavorra di elevato tonnellaggio che mantiene le donne incollate alla più spregevole mondanità. Lo scatenato Mishima persevera poi nella sua dissertazione fornendo ulteriori chiarificazioni allo scopo di documentare la sua teoria, ossia comparando le donne ai “rettili dei tempi antichi”, i quali possedevano cervelli sia nella parte superiore che inferiore del corpo. Così, la donna sventurata sembrerebbe possidente di non uno, ma bensì due cervelli (o aeree di controllo, per essere più specifici): uno in testa (il cervello “anatomico”) e uno nell’utero. La mente anatomica della donna, impossibilitata dal poter volar liberamente via dal corpo, è perciò inconsapevole.
Una donna inconsapevole, è una donna intellettualmente inferiore.
La traduzione inglese del saggio “Sul narcisismo” è contenuto in una collezione di scritti che documentano la presa di coscienza delle donne scrittrici in Giappone a partire dai primi decenni del ventesimo secolo, e le reazioni ad essa relative. “Woman Critiqued” – (“La donna analizzata”, questo è il titolo della raccolta) rappresenta il percorso doloroso che le scrittrici hanno dovuto, e ancora oggi devono affrontare per vincere gli stereotipi. Nel 1908, un gruppo di intellettuali aveva decretato ad un raduno che una donna potesse scrivere solo ciò che fosse inerente al proprio sesso; era cioè auspicabile che ella concentrasse i suoi ozi letterari (quando questi non ostacolavano i suoi doveri di moglie e madre) sul sentimentalismo e o su temi che riguardassero la maternità. Accusata di imitare gli uomini nella scrittura, di peccare di moderazione, di non aderire a predeterminati canoni di eleganza e contegno, la donna scrittrice avrebbe dovuto esprimersi attraverso principi di femminilità sanciti dagli uomini e cristallizzati nel tempo. Una donna che non agisce da tale, dicevano questo nutrito gruppo di eruditi, non può essere minimamente presa in considerazione, e di conseguenza “non ci disturberemo a leggere i suoi scritti”.
Per Rebecca Copeland, traduttrice e commentatrice del convivio, tale affermazione stava a significare che la scrittrice donna non veniva considerata per la natura delle sue opere e dalla qualità che da esse ne derivava, ma veniva bensì valutata per l’immagine che dava di sé. Non è un caso che, in quello stesso periodo, venissero ingaggiati giornalisti scandalistici al fine di inventare o riportare fatti di minore importanza circa la vita delle scrittrici. Yukiko Tanaka riporta ad esempio il caso della scrittrice Otake Benikichi, citata nei giornali per essere stata vista bere un cocktail popolare tra i modaioli dell’epoca. Beh, sicuramente tali azioni dovevano suscitare scalpore durante il primo decennio del ventesimo secolo, mentre al giorno d’oggi lo stesso gesto non ci solletica neanche. Ma allora, come spiegare le posizioni di Mishima nel 1966, quando scrisse quel saggio sul narcisismo? Possibile che nell’arco di cinquanta anni la causa femminile non fosse andata avanti in Giappone?
In realtà, la missione di liberazione della donna aveva fatto notevoli passi avanti in quel pugno di decenni, almeno sul fronte intellettuale. Nel 1912 Hiratsuka Raichō fondò il giornale Seitō (Bluestocking, scarpe blu), rivista ispirata ai movimenti di liberazione femminista in Occidente scritta da donne per donne (sebbene gli uomini che sostenevano la causa femminile fossero ben accetti). Seitō non solo dava la possibilità a giovani scrittrici di mettere in pratica le loro doti senza correre il rischio di essere ostacolate nel percorso, ma forniva anche il mezzo per il tramite del quale l’informazione sulla condizione femminile potesse circolare liberamente. L’obiettivo della redazione era denunciare gli abusi del sistema patriarcale e propagandare l’unione delle donne per il riconoscimento di diritti inderogabili. Seitō iniziò presto a dar voce a coloro che si schieravano a favore dell’istruzione femminile, del matrimonio per amore, dell’indipendenza economica della donna e della libera scelta tra carriera e famiglia. Benché apparentemente non venisse dato credito a quelle opinioni – che erano comunque limitate a quella minoranza di donne istruite – le istituzioni cominciarono a temere questo nuovo movimento che andava via via acquisendo forza maggiore, al punto che il giornale fu accusato di corrompere l’animo di donne virtuose. Ciononostante, lo scoppio dei conflitti mondiali portò automaticamente ad un maggiore impiego della forza lavoro femminile in Giappone, essendosi presentata la necessità di sopperire alla mancanza di braccia maschili. Inoltre, grazie alle riforme costituzionali ed al riconoscimento di alcuni diritti quali il libero accesso all’istruzione, alla fine degli anni ‘50 la partecipazione delle donne nell’arene letterarie cominciò ad assumere una consistenza considerevole.
Il critico Hasegawa Izumi risponde alle critiche di Mishima asserendo che tale categoria di scrittori si scagliano contro le donne a causa dell’invidia che essi nutrono per non poter descrivere ciò che per la donna è innato e naturale. L’attacco contro le intellettuali donne allora fungerebbe da maschera per nascondere uno scomodo, inconscio senso di inferiorità. Sebbene questa teoria sia interessante, credo che le cause di questi atteggiamenti non debbano essere trovate dei manuali di letteratura; ma piuttosto in cause storiche ed antropologiche. Si dice che la Restaurazione Meiji abbia decretato la declassazione della donna da persona ad oggetto utile all’uomo lavoratore. Il termine ryōsai kembo (ottima moglie, saggia madre) cominciò ad entrare in uso, e valse a rimuovere le donne da ogni tipo di responsabilità e gradualmente confinarle dentro casa. Il motivo dietro tale presa di posizione è riconducibile al senso di inferiorità e al timore di essere giudicati effemminati dalle forze occidentali che avevano minacciato di attaccarli. L’istituzione di un più rigido patriarcato venne vista come la soluzione più logica e pratica. Questo senso di inadeguatezza ha portato il Giappone a fare del patriarcato un leitmotiv senza apparente via di fuga, o comunque, di lentissima risoluzione.
Certamente, al giorno d’oggi le donne hanno poteri e possibilità di gran lunga superiori a quelli delle povere malcapitate del primo ventesimo secolo. Negli anni ottanta, due scrittrici sono anche riuscite ad accaparrarsi il premio Akutagawa. Eppure, ancora non c’è donna che prenda un salario pari a quello di un uomo, e nessuna donna ancora può aspirare ad alte posizioni manageriali; la violenza domestica è stata solo da poco riconosciuta come reato punibile dallo stato. Allora mi dico, perché ci lasciamo affascinare da gesti come quello di Mishima (un harakiri da standing ovation), che in se stesso incarna l’esteta attaccato al passato e nemico di un progresso sano, invece di sostenere la causa delle donne scrittrici di ieri e di oggi, che si schierano per la giusta causa dell’uguaglianza sociale e lavorano per generare consapevolezza? Perché spesso, purtroppo, i paesi occidentali preferiscono perpetuare l’idea di un Giappone esotico e bizzarro, regno dell’imperscrutabile, per sempre lontano da ogni metro di giudizio universale. Questo fenomeno, chiamato orientalismo, innalza l’uomo occidentale a livello di giudice supremo sui popoli asiatici. Questo fenomeno non viene studiato in Italia.
Elena Faccenda
Bibliografia
Copeland, R.L. (2006) Woman critiqued – translated essays on Japanese women’s writing: University of Hawai’I Press
Hasegawa, I. (1976) quoted in Copeland, R.L. (2006) Woman critiqued – translated essays on Japanese women’s writing: University of Hawai’I Press
Mishima, Y. (1966) On narcissism, quoted in Copeland, R.L. (2006) Woman critiqued – translated essays on Japanese women’s writing: University of Hawai’I Press
Tanaka, Y. (2000) Women Writers of Meiji and Taishō Japan: Their Lives, Works and Critical Reception, 1868-1926, North Carolina: Mc Farlan & Company, Inc., Publishers
Vernon, V.V. (1988) Daughters of the moon, Berkeley: University of California Press
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L’anteprima è di straordinario interesse, sebbene mostri alla sua radice il vizio turistico fondamentale, di cercare ‘il nostro’ altrove: vado, per conoscere, verso la cultura tradizionale ( che Mishima incarnò e visse, volle rappresentare fin troppo coscientemente, per ‘salvarla’ di fronte a quella nuova che viveva come una minaccia) non per approvarne tutti gli usi ‘barbarici’ e ‘arcaici’, ma per avvicinarmi il più possibile alla verità effettuale del Giappone antico e anche Novecento…e per scoprire che nomi femminili significativi compaiono eccome nella letteratura giapponese, più di quanto non accada in molte letterature occidentali. Si tratta il più delle volte di cortigiane, inserite nel mondo coevo in modo per noi irriducibile alla morale che possiamo aver sviluppato ora. Un baratro di riferimenti ci divide già da Mishima. Un doppio baratro dal popolo analfabeta che visse i fenomeni letterari in modo certamente più laterale ma direttamente inserito nella tradizione. Le donne sono oltre questo, coglibili solo intersecando le notizie certe.
Un articolo profondo che invita a riflettere su una situazione vicina spesso vicina a molte donne donne, non solo giapponesi. Non conoscevo Hiratsuka Raichō e avrò cura di informarmi di più su questa figura che mi affascina molto. Grazie per questo bellissimo post!