In Giappone, Rosa vaga per templi, giardini, sale da tè, eppure sembra ignorarne il perché.
Il pretesto, certo, è chiaro: sta aspettando di assistere alla lettura del testamento del padre che non ha mai conosciuto e di cui pressoché tutto ignora.
Parimenti del paese non sa nulla: ha trascorso gran parte dei suoi quarant’anni in Francia occupandosi di botanica, rassegnata, apatica e rabbiosa. Il primo impatto con Kyōto è ambiguo: nei suoi luoghi più iconici, nelle sue bellezze, negli angoli più nascosti Rosa percepisce fascino e dolore, mistero e fastidio.
Rosa prendeva coscienza della città. Tutto a Kyōto stava nella presenza delle montagne che a est, nord e ovest la racchiudevano entro angoli retti. In realtà erano grandi colline la cui sagoma dava allo sguardo una sensazione di altitudine. Verdi e azzurre alla luce del mattino, facevano scivolare verso la città il loro arboreo colore uniforme. Di fronte a sé, al di là di un piccolo rilievo di verzura, la città appariva brutta, cementificata. Riportò lo sguardo verso i giardini in basso e fu colpita dalla loro precisione, dall’evidenza adamantina, dalla purezza dolorosamente affilata, dal modo che avevano di resuscitare le sensazioni dell’infanzia. Come nei sogni di un tempo Rosa si dibatteva in un’acqua nera e gelida, ma in pieno giorno, in mezzo a una profusione di alberi, nei petali macchiati di sangue di una peonia bianca. Appoggiò i gomiti alla ringhiera di bambù, scrutò la collina vicina e vi cercò qualcosa. La donna affacciata accanto a lei sorrise.
Poco alla volta, come ci racconta Muriel Barbery nel suo ultimo romanzo Una rosa sola (trad. Alberto Bracci Testasecca, e/o, 2021, pp.170, € 16,50), qualcosa però pare sciogliersi. Intrecciando antiche leggende e nuovi ricordi, attraverso le persone che hanno conosciuto e amato suo padre Haru, mercante d’arte ed esteta, Rose impara ad abbandonarsi ai sapori, ai profumi, ai colori del Giappone, e alle parti della sua personalità più istintiva e nascosta.