Categoria: cultura giapponese

“Bonsai” di Kazuhiko Tajima e Kunio Kobayashi

Un albero solo cresce in quella ciotola,
Verde puro di mille anni,
Getta un’ombra scura e pesante.
Chi conosce
La vastità di cielo e terra fatti di terriccio?
Il picco di Shukuyuho dentro il minuscolo spazio.
(lirica di Ryushu Shutaku)

Tutti coloro che amano gli alberi in miniatura non potranno lasciarsi sfuggire un bellissimo volume ad essi dedicato, Bonsai, di Kazuhiko Tajima e del maestro Kunio Kobayashi, che uscirà intorno al 20 aprile per le edizioni L’Ippocampo in edizione bilingue italiano/giapponese. (altro…)

Le vere memorie di una geiko: “Storia proibita di una geisha” di M. Iwasaki

Mineko, a sei anni

Kyoto, anni Cinquanta. Sotto un bellissimo parasole di carta, un’elegantissima donna abbozza un sorriso al fotografo; a lei cerca di stringersi una bambina dall’aria tenera e curiosa. Sotto il suo kimono a fiori, spuntano appena i piedini intrecciati in segno di timidezza. Da pochi mesi, Masako – così si chiama la piccola – ha lasciato di sua volontà, sebbene a malincuore, la propria casa per trascorrere gli anni a venire in un’okiya, la tradizionale residenza delle geiko (come si autodefiniscono le geisha) e delle maiko (le apprendiste): ignora del tutto che diventerà una delle donne più ammirate dell’intero Giappone, a costo però di enormi sacrifici. Non soltanto la bimba è costretta ad adattarsi a uno stile di vita alquanto duro, ma è tenuta a rinunciare alla propria famiglia, mutando persino il proprio nome in Mineko e il cognome in Iwasaki (tratto dalla madre adottiva).

La sua storia è raccontata per la prima volta in un volume da poco uscito in Italia, Storia segreta di una geisha, curato da lei stessa, Mineko Iwasaki, ora rispettabile signora di mezza età, (altro…)

Samurai: istruzioni per l’uso

Il nome di Stephen Turnbull a molti, probabilmente, non dirà nulla; eppure, se amate il Giappone, ci sono buone possibilità che vi siate imbattuti in lui senza saperlo. Laureato a Cambridge e specializzatosi in storia militare asiatica (in particolare, per tutto ciò che concerne i samurai), ha lavorato come consulente per il videogioco Shogun: Total War e per il film 47 Ronin (ispirato alla celebre omonima leggenda) con Keanu Reeves, che uscirà a novembre in Italia.  
A breve, per i tipi L’Ippocampo, verrà pubblicato l’ironico volume dello studioso, Samurai. Il manuale “non autorizzato” del guerriero giapponese (pp. 208, 116 illustrazioni, € 15; solo ora in offerta a 12,75); (altro…)

“Gothic Lolita” di Valentina Testa

Dubbi. Curiosità. A tratti addirittura fastidio. Ecco quello che provai qualche anno fa quando vidi per la prima volta Kamikaze girl (2004) (in realtà, il film in originale si chiama Shimotsuma monogatari, 下妻物語, ossia Storia di Shimotsuma,dal nome dell’omonima città; qui sopra ne potete vedere uno stralcio). Le mie perplessità dipendevano solo in parte dalla trama bizzarra e dalla regia un po’ fuori dalle righe: c’era piuttosto qualcosa che non mi convinceva nella protagonista Momoko, nei suoi atteggiamenti teatrali e, soprattutto, nella sua passione sfrenata per merletti e crinoline, da perfetta amante della moda lolita. La verità è che non capivo: mi sfuggiva quasi tutto di quel curioso universo, di quelle ragazze così diverse da me.

Il tempo è trascorso, il mio interesse per il Giappone si è approfondito e le cose sono, naturalmente, cambiate. Così, quando qualche giorno fa ho avuto tra le mani l’accattivante Gothic Lolita di Valentina Testa (giù autrice di Kawaii Art, di cui vi ho parlato qui; Tunué, pp. 112, € 9,70; in offerta su Amazon.it cliccando qui a € 8,25), ne sono stata felice. (altro…)

“Il menù di Yocchi” per scoprire la cucina giapponese

Io credo profondamente nei colpi di fulmine. Soprattutto in fatto di libri.
Con il Menù di Yocci – alias Noda Yoshiko – (ed. Corraini, 2011, pp. 44, € 9,69) è stato amore a prima vista: per via della sua genuina semplicità, del testo in italiano e in giapponese, dell’atmosfera giocosa che si respira in ogni pagina. (altro…)

Il sogno dell’effimero e la tazza di tè

La settimana scorsa ho avuto la fortuna di prendere parte a una piccola cerimonia del tè tenutasi al centro Urasenke di Roma, una delle principali scuole giapponesi attive in questo ambito. Avevo già parlato della mia prima visita qualche tempo fa, ma allora mi ero limitata ad assistere al rituale.

Un giovedì pomeriggio d’inverno come tanti, tiepido e terso. Finalmente, dopo aver attraversato un cortile silenzioso e verdeggiante, arrivo alla sede dell’Urasenke. Basta attraversare la soglia per perdere qualunque orientamento spazio-temporale. Lo sguardo si posa sui tatami, sul mobilio essenziale, sui numerosi volumi col dorso intarsiato di ideogrammi: e sembra quasi assurdo pensare che, solo poche centinaia di metri più in là, vi siano caffè affollati, clacson, telefoni che non smettono di trillare.

Entro, a piedi nudi, in una piccola stanza del tè; il rotolo del tokonoma mostra un monte dalle pendici ripide, e gli accessori scelti – ci spiegano – sono particolarmente eleganti in onore del Capodanno appena trascorso. Mi fanno accomodare sui talloni accanto a una ragazza giapponese, in un kimono dai colori lievi; i miei pantaloni, il mio maglione, il mio imbarazzo non possono competere con il suo obi ben tirato, il collo diritto e le mani addormentate nel grembo come due farfalle, ma senza alcuna mollezza.

Con un gesto lieve mi porge un piccolo biscotto ovale, su cui è stampata una foglia di ginkgo; il sapore è curioso, quasi salato. Nel frattempo, l’anziana maestra del tè, sorridendo, prepara la mia tazza. Con lo chashaku prende la giusta quantità di matcha e riversa la polvere in una tazza scura; aggiunge un poco d’acqua e agita il chasen con minimi, fermi gesti del polso, sino a che – tutt’a un tratto – ecco venire alla luce il tè. Il suo colore spicca sulla superficie ruvida della ceramica, tra le pareti tenui della sala.

Nulla a che vedere con la bevanda cupa e tavolta torbida da sorseggiare alle cinque, che in un attimo scivola dalle labbra per poi perdersi in gola, lasciando – nel migliore dei casi – un vago aroma dietro di sé. Il tè utilizzato nella cerimonia è una spuma densa, bollente, di un verde talmente brillante da parere insolente; il suo gusto sacro e antico scava la lingua e s’infrange su papille dimenticate, quasi tribali. Anche noi dopo tutto siamo, come il matcha, acqua e polvere.

Oriente e occidente, come due draghi scagliati in un mare agitato, lottano invano per riconquistar il gioiello della vita… Beviamo, nel frattempo, un sorso di tè. Lo splendore del meriggio illumina i bambù, le sorgenti gorgogliano lievemente, e nella nostra teiera risuona il mormorio dei pini. Abbandoniamoci al sogno dell’effimero, lasciandoci trasportare dalla meravigliosa insensatezza delle cose. (Okakura Kakuzō)

La bellissima foto è opera di LaSere (blog: Là dove fumano le tazze), tratta da questo link.

[Recensione] Le giapponesi allo specchio: “Tokyo sisters”

Donne che lavorano, che viaggiano, che abbandonano tutto per amore di un uomo o di un figlio; donne che passano ore a farsi belle, che cantano scatenate al karaoke, che fanno shopping; donne che vestono in kimono, che seguono l’ultima moda, che hanno un cancro ma non smettono di sorridere…  Sono decine e decine le figure che, con le loro parole e i loro gesti hanno plasmato – talvolta inconsapevolmente – Tokyo sistersReportage dall’universo femminile giapponese (traduzione di Giusi Valent; O barra O edizioni, pp. 196, € 15; ora in offerta su Amazon.it a € 12,75 cliccando qui), delle giornaliste francesi Julie Rovéro-Carrez e Raphaëlle Choël.

Miki, Miyoko, Chika, Megume e le altre intrecciano le loro voci, ponendo tra le nostre mani un frammento delle loro vite, frivolo o drammatico che sia, ma comunque sincero. Senza mai vergognarsi delle debolezze e degli errori compiuti, raccontano un momento cruciale della loro esistenza (una separazione dolorosa, una partenza, un’opportunità sfumata) oppure, più semplicemente, una passione segreta o un’abitudine inconsueta.

Mettendo da parte qualunque intento pedagogico o qualsivoglia tono didascalico, le due autrici ritraggono con schiettezza e, non di rado, una buona dose di ironia il presente e il passato di donne diversissime per età, professione, carattere e ambizioni, conosciute nel corso dei loro soggiorni in terra nipponica. In questo modo, pagina dopo pagina, emerge un panorama ad ampio raggio, capace di includere aspetti e comportamenti poco noti o addrittura disdegnati dagli studiosi. Quotidianeità, sesso, progetti, piccoli e grandi problemi, hobby, sogni… : non è infatti tralasciato alcun argomento che possa aiutare il lettore a comprendere meglio la complessità dell’orizzonte femminile, stimolando al tempo stesso la sua curiosità con centinaia di aneddoti e note di costume.

Libere dalla necessità di fornire riscontri a complesse quanto claustrofobiche teorie socio-antropologiche, le due scrittrici possono abbandonarsi al fluire della frenetica Tokyo: non importa che ci si trovi al tavolo di un raffinato ristorante oppure sotto il casco del parrucchiere, se tutte le occasioni sono utili per conoscere meglio non la donna, ma le tante e dissimili donne che animano la capitale. Infrangendo ogni stereotipo che dipinge la tipica giapponese remissiva e misurata o, al contrario, dotata di una sensualità conturbante da geisha, si apre così, finalmente, il vaso di Pandora, e ne fuoriescono contraddizioni, ferite, lacrime, delusioni, ma anche risate a crepapelle, pettegolezzi e manie.

Può trattarsi di Akane – studentessa innamorata della propria immagine allo specchio -, di Yuki, surfista provetta, o di un’anonima ragazza emersa dalle ben trecentomila donne nipponiche che ogni anno ricorrono alla procreazione assistita: l’impressione è sempre la stessa.  Che la posta in gioco sia un buon marito, una borsetta firmata, un bambino da amare o un corpo perfetto, le donne del Sol Levante sono sempre alla ricerca di qualcosa o qualcuno. Infaticabilmente, testardamente perché, come recita il proverbio, anche un viaggio di mille miglia inizia con un passo, e la strada verso la felicità non è mai breve.

Per l’immagine: copyright di Biblioteca giapponese.

Dove dormono il piccolo lottatore di sumo e l’apprendista geisha

Kaya, Ryuta, Kana, Risa: i loro nomi sono uguali a quelli di altre migliaia di bambini giapponesi, ma le loro camere da letto no. Ognuna racconta qualcosa di loro: la passione per i manga, l’amore per un cantante o persino una scelta radicale.

I luoghi in cui sognano i poveri, invece, si assomigliano tutti: un angolo spoglio con qualche coperta ammassata, sperduto in un tugurio delle bidonville o in una capanna di lamiere. Copertoni vecchi, un materasso sfondato da convidere con un nugolo di parenti, una stuoia di paglia: ogni oggetto può rivelarsi un giaciglio, come ci mostra James Mollison nel suo volume fotografico Dove dormono i bambini (ed. contrasto DUE, pp. 120, € 35; ora in offerta su Amazon.it a 29,75 cliccando qui; per un’anticipazione, si può dare un’occhiata a questo link), nato strettamente in relazione a un progetto per i diritti dell’infanzia.

Nel corso dei suoi viaggi intorno al mondo, l’autore ha ritratto numerosissimi bambini e adolescenti, immortalando anche gli spazi dove trascorrono la notte o le poche ore di riposo tra un lavoro e l’altro; di ciascuno di loro è riportata una breve scheda, con i dati anagrafici, gli interessi, le ambizioni e le difficoltà del vivere quotidiano: se il rampollino Jaime passa i rari momenti liberi a controllare lo stato delle sue finanze, a quattordici anni la brasiliana Erien deve fare i conti con la terza gravidanza e una vita di stenti.

 

Il destino è stato più generoso con i quattro ragazzi del Sol Levante presentati nel volume, che conducono esistenze diversissime tra loro, come raccontano anche le loro camerette. La sedicenne Kana vive a Tokyo circondata dai peluche dell’infanzia e segue le ultime tendenze in fatto di moda, anche a costo di lavorare nel weekend per acquistare parrucche e abiti; sotto il suo stesso cielo troviamo Ryuta, mini (si fa per dire) campione di sumo, che tra fumetti e videogiochi sogna di diventare un giorno conduttore televisivo e mettere su famiglia. E se la piccola Kaya gioca a fare la bambola nel suo paradiso privato fatto di balocchi, nastri e vestitini (qui a lato), a quindici anni Risa ha deciso di diventare una geisha e risiede perciò in una casa da tè a Kyoto, in una stanza tanto elegante quanto spartana.

Dopo le immagini di Syra – che probabilmente sarà scacciata dal villaggio perché creduta vittima di un maleficio – o di un bambino senza nome dai grandi occhi azzurri che al calar del buio si nasconde tra le erbe della periferia romana, una volta letta anche l’ultima pagina del libro, non si ha il coraggio di alzare la testa e guardarsi attorno. Un nodo stringe la gola e le guance bruciano.

Per le immagini: copyright di J. Mollison.

Il rumore dolce del tempo: “Musica e danza del principe Genji”

[…] La maestosa Amenouzume appese fresche fronde del profumato monte del cielo alla corda che le rimboccava le maniche, si acconciò la capigliatura con una bella ghirlanda, e adornò le braccia con erbe e foglioline dei bambusa del profumato monte. Sistemò poi presso la porta della rocciosa stanza del cielo [ossia la caverna in cui si era rinchiusa la dea Amaterasu, irata contro il fratello Susanowo] un recipiente capovolto, vi batté sopra i piedi con un baccano così assordante da restarne spiritata, fece penzolare fuori le mammelle e abbassò la cintola del vestito fino a mostrare il sesso. Le pianure del sommo cielo sobbalzarono e uno scoppio di risa di levò da tutte le otto centinaia di miriardi di esseri.
Amaterasu grande sovrana e sacra, incuriosita, aprì uno spiraglio nella porta della rocciosa stanza. […]
(tratto da Kojiki. Un racconto di antichi eventi, a cura di Paolo Villani)

E’ questo senz’altro uno dei passi più celebri del Kojiki, capolavoro della letteratura e della mitologia giapponese, che immortala con pochi e intensi tratti una curiosa ma efficace forma di danza. Su questa e su molte altre manifestazioni estetiche si sofferma il bel saggio Musica e danza del principe Genji. Le arti dello spettacolo nell’antico Giappone dell’etnomusicologo Daniele Sestili (ed. LIM – Libreria Musicale Italiana, pp. 190, € 19), che offre una ricca panoramica sulla raffinatissima epoca Heian (794-1185), con un’ampia pluralità di prospettive, proponendosi al contempo come un testo godibile da un largo pubblico per chiarezza e fluidità. Lo studioso non soltanto analizza i repertori (musicali, coreutici, corali…) tipici del tempo – insieme alle circostanze, ai ruoli e ai significati in cui essi si dispiegavano -, ma riesce soprattutto a ridestare il fascino imperituro di tutta un’epoca. L’autore ha inoltre corredato l’opera di cinque utili appendici, che aiutano il lettore a destreggiarsi meglio con gli argomenti trattati; all’interno di esse trova posto il saggio Il Genji monogatari visto attraverso la musica di Yamada Yoshio, che evidenzia in quali maniere, adoperando lo studio degli strumenti e delle tecniche musicali, sia possibile datare con maggior precisione il periodo storico in cui il romanzo è ambientato.

Grazie alla stabilità politica e alla maturità raggiunta dalla cultura nipponica (fecondata anche da apporti cinesi, coreani, indiani), la ristrettissima aristocrazia del periodo Heian poté dare vita a un insieme di pratiche improntate alla <<legge del gusto>>, volte da un verso a intessere e consolidare relazioni interpersonali (con ovvi risvolti politici), dall’altro a esaltare il carattere sublime ed élitario della classe nobiliare.

All’interno di questo scenario si collocava naturalmente anche la musica, che non svolse la funzione di mero sottofondo armonico, ma costituì una delle massime espressioni artistiche dell’epoca, nonché un’attività molto ricorrente nella quotidianeità dei blasonati, che individuarono in essa un fondamentale tramite per portare alla luce il mono no aware, il “sentimento delle cose” che svela la caducità di tutto ciò che ci circonda con delicato pathos.

Melodie e danze heian – coppia spesso inscindibile – si incarnavano principalmente in due tipologie, non esenti da contaminazioni reciproche o di provenienza popolare: la gagaku, legata ai riti e alle solennità della corte, e la miasobi, l'”augusto svago” amato e coltivato con assiduità da uomini e donne titolati.

Daniele Sestili, nel trattare ciò, non si limita a prendere in considerazione soltanto elementi di teoria o storia della musica, ma realizza un vero e proprio affresco del periodo storico, comprendente forme artistiche anche molto diverse tra loro (calligrafia, poesia, danza, canto, architettura, moda…), accomunate però dall’ideale heian – influenzato dal pensiero taoista (di origine cinese) e dal sostrato autoctono shintō –  che voleva tutte le attività umane “[…] specchio fedele dell’armonia presente nel cosmo”. Ciò non implicava un’imitazione pedissequa della natura, anzi. L’optimum era infatti rappresentato proprio da quel che era in grado di inserirsi con spontaneità e grazia nel paesaggio circostante:

[Genji a Tamakatsura]: Sai quello che mi piace? Suonare uno strumento come il tuo in una fresca sera d’autunno, quando la luna è alta, stando seduto proprio accanto alla finestra. Allora si suona in concerto con le cicale, inserendo il frinire nell’accompagnamento. Ne risulta una musica che è intima, ma al tempo stesso tutta moderna.
(tratto dal Genji monogatari di Murasaki Shikibu)

‘Moderno’ (imamekashi) fu una delle parole d’ordine dei secoli heian ma, paradossalmente, non entrò mai in conflitto con il carattere rituale e sacrale che molta musica nipponica custodisce tuttora in sé, retaggio di una fase – ormai persa nella notte dei tempi – in cui si adoperava  la cetra per consultare gli dèi, o si eseguivano danze per propiziare il raccolto: per questa ragione, numerose manifestazioni connesse all’ambito melodico presentavano strutture, forme e linguaggi (figurativi, espressivi, cinetici…) altamente codificati. La foggia e i colori di un abito, la scelta dei materiali (legni pregiati, carta, seta…) e degli accessori (spade, maschere, rami e fiori…), il timbro d’uno strumento o un’inclinazione particolare della voce: nulla era lasciato al caso, perché – ben prima di essere un mero intrattentimento, come già accennato sopra – la musica rivestiva molteplici altre funzioni.

In primis, dal momento che ciascuna classe era dotata di generi, strumenti e tecniche peculiari, essa fungeva da mezzo di identificazione comunitario e, nel caso dei nobili, di celebrazione del proprio elevato status, poiché rispecchiava la sopraffine estetica degli yokihito (le “persone di qualità”); come se non bastasse, le manifestazioni musicali venivano utilizzate per intessere e rafforzare relazioni (è questo il caso, per esempio, del corteggiamento), adempiere obblighi religiosi e sociali, rinconciliarsi con la natura, entrare in contatto con i numi e tentare di riprodurre sulla misera terra le bellezze del paradiso, al punto tale che persino gli animi più duri erano costretti a piegarsi all’incanto:

Seguì un gran concerto, nel quale fu eseguito con mirabile effetto il brano <<Ci fu mai giorno come questo?>>. Perfino i mozzi e i facchini […] stavolta tesero l’orecchio e di lì a poco ascoltavano a bocca aperta, stupefatti e rapiti. Perché era impossibile che gli strani acuti tremoli del Modo di primavera [=sōjō], che l’insolita bellezza della notte rendeva ancor più intensi, non commovessero persino le più insensibili creature umane.
(tratto dal Genji monogatari di Murasaki Shikibu)

 

Un Giappone color seppia: “L’uccello nero del Sol Levante” di Paul Claudel

All’inizio del secolo scorso, raggiungere il Giappone si profilava un’impresa ardita, che richiedeva settimane di viaggio e una grande determinazione. Buona parte dei coraggiosi si spinsero fino ai confini del mondo soltanto per ragioni economiche; nello sparuto gruppo dei curiosi – che pur esisteva ed aveva una sua dignità – figurava anche Paul Claudel, poeta, drammaturgo e diplomatico francese, che dalla fine del 1921 sino quasi alla primavera del 1927 risiedette (con qualche interruzione) nel Sol Levante, in veste di ambasciatore.
Nato nel 1868 – l’anno che inaugurò l’era Meiji e il rapido processo di modernizzazione -, Claudel giunse in Giappone ormai maturo, dopo aver risieduto e lavorato in molte nazioni; ciò gli permise di guardare alla cultura nipponica con un’ampiezza di vedute certamente poco comune all’epoca, come ben testimoniano i numerosi saggi raccolti ne L’uccello nero del Sol Levante (a cura di Maria Antonietta Di Paco Triglia, ed. il Cerchio, pp. 148, € 15).
In queste pagine trovano ospitalità gli argomenti più disparati, in grado di far breccia nella vita e nell’animo dello shijin taishi (il diplomatico-poeta, come veniva chiamato): e così ci si avventura tra le cronache dei solenni funerali dell’imperatore o fra quelle della devastazione, fisica ed emotiva, provocata dal terremoto di Tokyo del settembre 1923; si rimane incantati dalle affascinanti leggende degli autoctoni e dalla poesia nipponica, allora semisconosciuta in Europa. E ancora: si riflette sulla politica, la letteratura, l’antropologia e le forme di devozione locali, tanto differenti da quelle del cattolicissimo Claudel. Una consistente parte degli scritti raccolti nel volume, infine, è dedicata ad uno dei più grandi amori dell’autore, il teatro: i principali espedienti narrativi, scenici e drammatici del kabuki, del e del bunraku vengono analizzati con acume e vivo interesse.
Lo sguardo dell’autore d’oltralpe vaga qua e là per l’orizzonte giapponese, riuscendo a cogliere i tratti salienti dei fenomeni, per portarli poi alla luce con sincera ammirazione attraverso una prosa ricca e suggestiva, capace di fecondare la fantasia del lettore, sino a farlo immergere nel Giappone fantasmagorico e nostalgico dei lontani anni Venti.

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