Tokyo, primo Novecento. L’epoca del grande rinnovamento Meiji sembra aver contagiato tutto e tutti: i tram sferruzzano sulle rotaie lanciando bagliori, i servitori e i commessi s’affrettano in mille faccende; le donne preparano il pranzo o s’aggiustano davanti allo specchio il colletto del kimono.
Daisuke legge, riflette, gode del silenzio e dei profumi del suo piccolo giardino. Nulla pare turbare la sua pacata vita di intellettuale e flâneur: non lo toccano la laboriosità dei familiari (grazie alla quale può vivere di rendita, in ozio), né i rimproveri del ricco e autoritario padre, che lo spinge senza sosta a prendere le redini del suo futuro. Perché, agli occhi di tutti, Daisuke non vive davvero: piuttosto, si lascia vivere, diviso tra il culto della bellezza e una sorta di raffinata accidia decadente. Non lavora, non cerca moglie, non pare affannarsi per alcunché, compresa la sua felicità.
E poi: titolo più giusto non potrebbe esserci per quest’opera di Sōseki Natsume (trad. di A. Pastore, Neri Pozza, 2012, pp. 288, € 16,50; ora in offerta su Amazon.it cliccando qui a € 14,03), un compiutissimo romanzo dell’attesa. Appena trentenne eppure già gravato da una serietà che sa sorridere impercettibilmente di se stessa, il giovane sembra rientrare a pieno titolo in quella folta schiera di inetti che hanno popolato la letteratura europea, soprattutto agli esordi del ventesimo secolo: una generazione di uomini incapaci o privi d’ogni volontà di incidere, plasmare, aggredire la realtà circostante, senza che questa smetta di tormentarli con i suoi imprevisti accidenti.
D’altronde, i tentennamenti del protagonista si rafforzano ancor di più nei momenti decisivi: quando, tutt’a un tratto, il caso gli offre l’opportunità di impegnarsi in un matrimonio vantaggioso (in grado di appianare i problemi economici e gli attriti coi parenti) o di abbandonarsi a un antico amore creduto perso, l’uomo non può fare altro che esitare, posticipando all’infinito il dolore o la gioia, ubriaco d’incertezza.
Schivo e, a suo modo, titanico nel bel mezzo di una solitudine costruita con meticolosità, Daisuke non si sente però in conflitto con l’universo circostante, animato da milioni di individui che conoscono solo la furia del tempo e le fatiche dell’esistenza; non cova rabbia, invidia o disprezzo per loro, né tantomeno per se stesso.
C’è posto per un sentimento, lieve, che emerge poco a poco dalla prosa levigata, poetica ed esatta di questo magistrale libro: il rimpianto. Per il tempo passato, per i piaceri non colti, per la giovinezza già conclusa; un rimpianto che sa stordire di dolcezza e trafiggere la carne. E in sottofondo, piano, quasi lontano, riecheggia la voce della nostalgia più pura: quella delle cose future che non vivremo né conosceremo mai.
Un capolavoro, davvero per la letteratura giapponese del XX secolo non si può parlare di letteratura asiatica ne trovarle una nicchia, è nelle sue diversità perfettamente inserita nel contesto mondiale, tanto che mentre studiamo Pirandello e Svevo dovremmo mettere al fianco dei loro colleghi europei ed americani anche i giapponesi Natsume Soseki …