kawaii osaka insegna valeria brignaniDopo l’articolo di Valeria Brignani sul punk giapponese contro il nucleare, oggi ho il piacere di ospitare un altro suo contributo, “Il cibo è un fumetto”, apparso ne L’Unità del 18 novembre 2012, e dedicato questa volta alla presenza del kawaii (tutto ciò che è tenero e carino) nella cucina giapponese, dalle insegne dei ristoranti alle etichette degli alimenti. Anche le foto presentate sono di Valeria Brignani. Buona lettura!

Kawaizza ciò che mangi potrebbe essere il motto ufficiale dell’industria e del commercio alimentare nel Paese del Sol Levante. Non importa se si tratta di trachee di pollo, intestini suini, uova di salmone o grosse rape bianche sottaceto, qualsiasi alimento, fritto, bollito, grigliato o addirittura servito crudo, verrò venduto in negozi, ristoranti, bancarelle e carretti ambulanti decorati da buffe immagini che umanizzano il pollo, la rapa o il maiale in questione.

“Kawaii” è una parola non parola. Non è un aggettivo ne’ un sostantivo e quasi un’onomatopea che come uno strano segnale acustico, viene diffuso viralmente dalle giovani ragazze giapponesi ogni qual volta entrino in contatto con qualcosa che sia carino, cute, dolce e tenero. Cosa che accade spesso nel momento in cui stiamo parlando di un Paese che “kawaizza” persino le transenne dei lavori in corso, costruendole a forma di papero con tanto di becco e occhietti dolci; Paese in cui sulle porte dei vagoni della metropolitana, è stato affidato ad un adesivo raffigurante un procione molto simile al caro Rascal, il compito di avvisarci di non infilare le dita tra le porte al momento della chiusura delle stesse.

Qui tutto è kawaii. Dall’etichetta dei funghi freschi venduti al supermercato fino ad Ebisu, uno dei sette Shichifukujin – le divinità della fortuna, mascotte dell’omonima birra. Kawaii è persino il polpo gonfiabile presente sull’uscio di qualsiasi bottega di takoyaki (in cui “tako” sta per polpo e “yaki” per piastra) presente ad Osaka.

kawaii osaka insegna pollo valeria brignaniCamminando per Dōtonbori, la strada principale che costeggia il canale che divide in due la città, si contano centinaia di ristoranti, bancarelle e piccoli carretti ambulanti dotati della caratteristica piastra per cuocere i takoyaki, cioè delle frittelle tonde a base di uova e tentacoli di polpo, servite cosparse di salsa di soya e aceto e una dose abbondante di mayonese. Il costo si aggira sui 50/70 Yen a “palla” (meno di 1 €). Ad ogni ora del giorno e della notte, per le strade di Osaka, è possibile trovare ragazzi e ragazze, da soli o in gruppo, accovacciati in un angolo o appoggiati ad un muro, con in mano una confezione di polistirolo a gustarsi la propria razione quotidiana di takoyaki, sotto l’insegna involontariamente crudele di un polpo “kawaii” che ride.

 Tra un takoyaki ed un altro, dall’ora di pranzo in poi, le strade vengono bombardate da ogni direzione, dall’odore pungente del brodo (di carne o di tonno essiccato e alga) dei venditori di soba, ramen e udon. Con una cifra che si aggura dai 500 ai 1.000 Yen (5 – 10 €) è possibile acquistare una “scodella” di pasta lunga (all’uovo i cinesi ramen, di grano saraceno la soba e tenero gli udon) affogati in qualche litro di brodo con l’aggiunta di pesce o carne, alghe e verdure.
Lo street food in Giappone è decisamente settoriale e specializzato. È raro trovare un ristorante o una bancarella ambulante che serva dal takoyaki, all’onomiaki (una frittella a base di cavolo cappuccio cotta su una piastra rovente) fino alla soba. Vi sono ristoratori che offrono solo sushi o solo tenpura, con buona pace delle faide coniugali nel momento in cui si deve decidere dove cenare.

kawaii osaka insegna pollo valeria brignaniPasseggiare per le strade di Osaka infatti, all’ora di cena – e in qualsiasi altro momento, visto che non esiste un’ora di pranzo e un’ora di cena, in Giappone si mangia sempre a qualsiasi ora del giorno e della notte – vuol dire farsi schiacciare dall’infinita possibilità di scelta e farsi cogliere dall’abulia tipica della difficoltà (l’impossibilità!) di scartare un’ipotesi a favore di un’altra senza ripensamenti. Come se quel pollo sorridente, quel calamaro coi baffi e quel tonno con gli occhi dolci, presenti sulle insegne t’invitassero, con una certa ironia blasfema, a cibarti del loro corpo.

Il Giappone, buddhista, scintoista e un po’ cristiano a seconda delle lune e delle maree, senza una religione precisa, ma dotato di un’incredibile e profonda spiritualità, funghi kawaii valeria brignaniin cui generalmente non si ruba sia per senso civico, ma anche perché c’è la convinzione che gli oggetti posseggano un parte dell’anima della persona a cui appartengono. Quegli stessi oggetti che, nel Paese del consumismo sfrenato, se vengono buttati, abbandonati o dimenticati quando ancora potevano risultare utili, si possono trasformare in un yōkai una creatura mitologica che non è ne’ buon ne’ cattiva, ma semmai dispettosa come un bambino a cui non si dedicano le giuste attenzioni.

Perciò ecco che, forse, acquisiscono un senso quelle graziose faccine che decorano gli acini d’uva sulla confezione di caramelle e persino le smorfie delle patate dolci dell’Hokkaido che fanno da farcia dei paninetti dai mille gusti in vendita in qualsiasi kombini (mini-market aperti 24 ore su 24). Lontani anni luce dal cattivo gusto nostrano che ci ha abituato a ridere di un fu maiale, mutato in porchetta, a cui il rivenditore a infilato occhiali da sole sul grugno e una sigaretta in bocca, in occasione delle sagre di paese o fuori dallo stadio, qui in Giappone la tendenza ad umanizzare ciò che si mangia potrebbe far sorridere persino l’animalista più oltranzista.

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