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Il sogno dell’effimero e la tazza di tè

La settimana scorsa ho avuto la fortuna di prendere parte a una piccola cerimonia del tè tenutasi al centro Urasenke di Roma, una delle principali scuole giapponesi attive in questo ambito. Avevo già parlato della mia prima visita qualche tempo fa, ma allora mi ero limitata ad assistere al rituale.

Un giovedì pomeriggio d’inverno come tanti, tiepido e terso. Finalmente, dopo aver attraversato un cortile silenzioso e verdeggiante, arrivo alla sede dell’Urasenke. Basta attraversare la soglia per perdere qualunque orientamento spazio-temporale. Lo sguardo si posa sui tatami, sul mobilio essenziale, sui numerosi volumi col dorso intarsiato di ideogrammi: e sembra quasi assurdo pensare che, solo poche centinaia di metri più in là, vi siano caffè affollati, clacson, telefoni che non smettono di trillare.

Entro, a piedi nudi, in una piccola stanza del tè; il rotolo del tokonoma mostra un monte dalle pendici ripide, e gli accessori scelti – ci spiegano – sono particolarmente eleganti in onore del Capodanno appena trascorso. Mi fanno accomodare sui talloni accanto a una ragazza giapponese, in un kimono dai colori lievi; i miei pantaloni, il mio maglione, il mio imbarazzo non possono competere con il suo obi ben tirato, il collo diritto e le mani addormentate nel grembo come due farfalle, ma senza alcuna mollezza.

Con un gesto lieve mi porge un piccolo biscotto ovale, su cui è stampata una foglia di ginkgo; il sapore è curioso, quasi salato. Nel frattempo, l’anziana maestra del tè, sorridendo, prepara la mia tazza. Con lo chashaku prende la giusta quantità di matcha e riversa la polvere in una tazza scura; aggiunge un poco d’acqua e agita il chasen con minimi, fermi gesti del polso, sino a che – tutt’a un tratto – ecco venire alla luce il tè. Il suo colore spicca sulla superficie ruvida della ceramica, tra le pareti tenui della sala.

Nulla a che vedere con la bevanda cupa e tavolta torbida da sorseggiare alle cinque, che in un attimo scivola dalle labbra per poi perdersi in gola, lasciando – nel migliore dei casi – un vago aroma dietro di sé. Il tè utilizzato nella cerimonia è una spuma densa, bollente, di un verde talmente brillante da parere insolente; il suo gusto sacro e antico scava la lingua e s’infrange su papille dimenticate, quasi tribali. Anche noi dopo tutto siamo, come il matcha, acqua e polvere.

Oriente e occidente, come due draghi scagliati in un mare agitato, lottano invano per riconquistar il gioiello della vita… Beviamo, nel frattempo, un sorso di tè. Lo splendore del meriggio illumina i bambù, le sorgenti gorgogliano lievemente, e nella nostra teiera risuona il mormorio dei pini. Abbandoniamoci al sogno dell’effimero, lasciandoci trasportare dalla meravigliosa insensatezza delle cose. (Okakura Kakuzō)

La bellissima foto è opera di LaSere (blog: Là dove fumano le tazze), tratta da questo link.

Un tè fra amiche

Durante un viaggio in Giappone, qualunque occidentale – appassionato del Sol Levante o semplice curioso – non può resistere alla tentazione di assaggiare qualche varietà di tè locale. Che si tratti di un bancha sorseggiato in fretta o di un raffinato matcha, attraverso questa bevanda – come abbiamo visto già in passato – si ha comunque l’impressione di entrare in contatto con una sfera di tradizioni e percezioni molto diverse dalle nostre (per approfondire, vedi Una stanza tutta per [il] tè), che titillano le nostre papille gustative e i nostri neuroni; persino da un semplice tè fra amiche, come quello descritto da Carla Vasio in Come la luna dietro la luna (saggio-romanzo dedicato alla scrittrice Higuchi Ichiyō), possono emergere le caratteristiche e la raffinatezza della cultura nipponica.

Sono venuta a chiedere l’aiuto di Sachiko [per una traduzione]. Le sue mani affusolate mi porgono una tazza di the verde: con le dita della mano destra la tiene in delicato equilibrio sul palmo della mano sinistra che tende verso di me. Stiamo inginocchiate sui cuscini, nella sua stanza, e guardiamo le ombre del nespolo che in forma di grandi foglie oscillano sui vetri della finestra. Osservo la grazia distaccata dei suoi gesti, come non afferri il cestino dei biscotti ma si limiti a portare la mano verso il manico toccandolo appena: un attimo di apparente esistazione e il piccolo cesto di fili di bambù intrecciati pende dalle sue dita privo di peso. Mentre il dischetto di farina di riso, verde e bianco, dolcissimo, mi si scioglie sulla lingua, mi porge la tazza di un the senza colore, più caldo di quanto io possa sopportare. […]

Immagine tratta da qui.

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