Per chi ancora non avesse avuto modo di prendere in mano la nuova opera di Yoshimoto Banana, Un viaggio chiamato vita (tradotto dalla bravissima Gala Maria Follaco), può rifarsi leggendo qualche brano da esso estrapolato, tratto da wuz.it.
Per leggerne ulteriori stralci, vi consiglio di cliccare qui.
Buona lettura.
Le piramidi stanno a guardare
Giza è una città strana, che fa sentire un po’ come sollevati da terra, senza nessun appiglio. Forse dipende dal fatto che non è stata costruita per essere abitata. Quando in una città c’è una presenza così strana, l’atmosfera non può che esserne dominata. Una volta, a una persona cresciuta alle pendici del Monte Fuji, avevo detto:
“Beato te che avevi ogni giorno davanti agli occhi il bel panorama del Fuji…”.
Ma con mia grande sorpresa mi aveva risposto:
“Non scherziamo! Era spaventoso!”.
Mi diceva che quando era bambino si chiedeva come avrebbero fatto in caso di eruzione, e se, durante l’ora di educazione fisica si voltava e vedeva il Monte Fuji che sovrastava il cortile della scuola, quella che percepiva non ne era la bellezza, ma una sensazione inspiegabile di paura. Una paura forse più vicina a una sorta di timore arcano.
A Giza, sia quando il vecchio profumiere mi suggeriva un’essenza dicendo che “è economica, ma la composizione è in tutto e per tutto uguale a Chanel n. 5!” (possibile?), sia quando andavo a spasso nel deserto in groppa a un cammello, sia quando mangiavo, sia quando bevevo deliziosi cocktail di frutta fresca al bar dell’albergo, ogni volta che mi voltavo le piramidi erano lì. Apparivano fuse nel solito paesaggio, eppure emanavano un’aura diversa. Ho avuto l’impressione che le piramidi racchiudessero qualcosa di grande che guardava nella nostra direzione anche se era buio e non si vedeva niente. Quella presenza l’ho sentita arrivare da lontano mentre ero concentrata in altro e non quando mi ci trovavo di fronte, ad esempio durante gli spettacoli di suoni e luci.
In quel momento mi sono detta che è vero che le piramidi andrebbero viste almeno una volta nella vita. È come se fossero state costruite in previsione del futuro, e se noi, che siamo gli abitanti del futuro, non andiamo a vederle, chi ci andrà? Non so chi le abbia costruite e con quale finalità, ma finché non le si va a vedere non si può capire nulla del loro mistero.
Il clima secco dell’Egitto è l’ideale per asciugare per bene il cuore molle di un giapponese. Se lo si visita quando si è stanchi, aiuta a sentirsi meglio. Ho la sensazione che i raggi di quel sole possiedano una grande forza, tale da penetrare nel cuore delle persone, in qualsiasi condizione queste si trovino.
E’ probabile che le piramidi siano state costruite con quella stessa forza.Il Giappone che ho incontrato in Australia
Sono andata in Australia a raccogliere del materiale per il mio nuovo romanzo Honeymoon. In realtà avevo pensato a una storia più incentrata sull’Australia, ma mentre scrivevo questo romanzo la situazione interna in Giappone è andata complicandosi, e forse per questo mi è venuta voglia di concentrarmi su elementi come i giardini e i paesaggi giapponesi. Penso che in fondo un viaggio sia tale quando non si protrae per lungo tempo, in quanto a un certo punto si deve ritornare. E proprio sul tema del ritorno mi sono concentrata, per questa volta, e quindi non ne ho potuto parlare nel romanzo, ma durante il viaggio sono andata in un posto interessante.
Trattandosi di una piccola residenza, non mi dilungherò in dettagli (a cercarla, la si troverebbe subito), ma tra le montagne nei pressi di Brisbane c’è un alloggio in stile giapponese in cui ho trascorso una notte. Il proprietario è un monaco che produce carta di riso. E sua moglie prepara ottimi piatti giapponesi per gli ospiti. Tutt’intorno ci sono boschi di banani, serpenti e sanguisughe, un paesaggio inimmaginabile in Giappone, eppure una volta messo piede in quella casa, era in tutto e per tutto un’abitazione giapponese. Le stanze erano in stile occidentale, ma piene di libri giapponesi e saggi calligrafici, tanto che mi sembrava di trovarmi in un rifugio nelle montagne di Nagano o di Yamanashi. Poi, un po’ più in là, c’era un rotenburo di legno di cipresso, per la gioia del corpo e degli occhi esausti per quel viaggio così faticoso. Immersa nell’acqua bollente in mezzo all’aria rarefatta di montagna mi sono sentita felice di essere giapponese. Fino al giorno prima ero in una camera d’albergo e conducevo una vita del tutto diversa da quella in Giappone, mangiavo con forchetta e coltello, e il giorno dopo in un rotenburo… non mi sembrava vero. Sentivo il corpo sciogliersi. Ho pensato al fatto che noi in casa non portiamo le scarpe, che sciogliamo i muscoli nella vasca da bagno, che abbiamo una costituzione fisica che predilige alimenti leggeri. Lo si capisce meglio quando si è all’estero.
Per fare spese bisogna per forza scendere dalla montagna e raggiungere la città; occuparsi della piantagione di banani e raccogliere i filamenti per la carta è un lavoro impegnativo, e anche la gestione dell’alloggio e la cura della vasca da bagno devono essere piuttosto faticose. Eppure proprio quando ho ritrovato la cultura giapponese in mezzo a quella natura brutale, ne ho compreso fino in fondo il valore. I giapponesi sono dotati di una meravigliosa saggezza che fa sì che non rinuncino alle comodità, che tengano in grande considerazione lo spirito, che amino le cose delicate, che vivano in armonia con la natura. Chi abitava quella casa aveva davvero un bel viso, privo di ombre. Decisi che se mi fosse capitato di andare di nuovo in Australia avrei raggiunto quell’alloggio alla fine del viaggio, ritemprato il corpo e lo spirito e poi sarei tornata a casa.
Un’altra cosa che mi è rimasta impressa è il “buffet di frittura”.
… anche se, più che di cibi tipici di un paese in particolare, si trattava di una cosa per molti versi approssimativa ma estremamente divertente, che prevedeva che gli ospiti si mettessero innanzitutto in fila davanti a una specie di salad bar. Solo che quello non era un salad bar, ma un carne bar! Fettine congelate di pollo, maiale, manzo e agnello erano disposte una sopra l’altra e allineate in base al tipo di carne, e se ne potevano prendere a volontà. Poi c’era un banco pieno di verdure organizzato allo stesso modo, e anche lì si prendeva tutto quello che si voleva. E poi gli alcolici, il sale, le spezie, la salsa di soia, l’aceto, il pepe, gli intingoli e ancora tanti altri tipi di condimento a piacere. Infine si portava questo piatto verso un’enorme piastra rotonda sotto cui crepitava il fuoco. A quel punto, un signore coreano scoppiettante e vigoroso spargeva dell’olio su tutta la superficie, rovesciava in un sol gesto il contenuto del piatto e aiutato da una specie di lunga pala forata lo faceva soffriggere fragorosamente, lo girava e, dopo questa performance, lo rimetteva nel piatto. Visto che ci si poteva servire a volontà, ci divertivamo a pensare sempre cosa avremmo mangiato dopo, l’agnello con i germogli di soia, il pollo con il cavolo, il sale e il sakè, con il risultato che alla fine abbiamo mangiato moltissimo. E anche questa volta ho pensato a quanto sia bello essere giapponese. Rispetto agli australiani intorno a noi, i condimenti che avevamo scelto erano decisamente alla giapponese.