Contraddittorio, egocentrico, compiaciuto e, allo stesso tempo, prigioniero della sua vena decadente, Mizuno è uno scrittore nella Tōkyō della metà degli anni Venti del Novecento: collabora con case editrici e riviste, spende il denaro in alcool e prostitute, non si preoccupa di avere amici o famiglia.
Mizuno non era in grado di controllare la propria mente, il suo cervello era solo il proiettore di un cinematografo interiore. Un proiettore automatico da cui sgorgavano a volontà scene di mostri e fantasmi che lui stesso creava ed era costretto a guardare. Arrivati a un tale stadio non è forse già lecito parlare di pazzia?
Talmente assorbito in sé e nel desiderio di alimentare il suo ritratto di artista maledetto, quasi non bada al fatto che, in uno dei suoi ultimi racconti, immagina l’omicidio di un collega, senza preoccuparsi troppo di dissimulare la vera identità di quest’ultimo. Nel momento stesso in cui, infatti, il pensiero di non nuocergli si affaccia, ecco che la sua mente e il suo corpo vengono investiti da altri stimoli ben più terreni.
Ancora una volta, con la classica maestria, Tanizaki Jun’ichirō ci presenta nel romanzo Nero su bianco (Kokubyaku, 1928), appena pubblicato da Neri Pozza con la traduzione di Gianluca Coci (2019, pp. 266, € 17), un intreccio torbido, in cui inquietudine ed eros arrivano a confondersi e a disorientare persino colui che credeva invece di piegarli a suo piacimento.
Affascinato e intimorito da ciò che la sua mente riesce a creare, dalla sensualità esplicita e aggressiva di una modan gāru* che incrocia in un locale, dalla scrittura che egli padroneggia e che allo stesso tempo lo domina, Mizuno infatti è così creatore e attore di una serie di vicende deliberatamente ambigue. Ma anche ai lettori Tanizaki gioca un tiro: qual è la vera storia che stanno leggendo?
* Erano dette modern girls quelle ragazze che, negli anni Venti, seguivano la moda e stili di comportamento provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti.