Spesso, quando si ama una nazione, si tende a trascurarne gli aspetti più spiacevoli o prosaici, enfatizzandone altri; in virtù di ciò, il Giappone rappresenta per molti soltanto il paradiso del sushi, popolato di geisha, robottoni e samurai.
Ma persino l’idilliaco Paese del Sol Levante, come dimostrano le cronache politiche degli ultimi giorni, ha i suoi problemi interni, più o meno gravi: di essi ci parla – con una prospettiva tutta sua – Taichi Yamada, in Una voce lontana (trad. di Emanuela Cervini, ed. Nord, pp. 192, € 13), presentato così dall’editore:

Durante l’arresto di sei clandestini provenienti dal Bangladesh, Tsuneo, un ufficiale dell’immigrazione, blocca uno degli stranieri in fuga, ma improvvisamente crolla a terra, travolto da un’irresistibile sensazione. Sembra un episodio isolato in una vita altrimenti tranquilla, ma, poco dopo, quel particolare «svenimento» si ripete. E non solo: Tsuneo comincia a sentire una voce – una voce di donna – che gli parla, lo ammonisce, gli dà consigli, gli chiede di ricordare: ricordare ciò che ha fatto durante la sua permanenza negli Stati Uniti, quando lui stesso era un clandestino. In breve tempo, quella voce diventa l’unica cosa veramente importante. Tsuneo abbandona il lavoro, la fidanzata e qualsiasi impegno sociale, e si getta anima e corpo nel tentativo di capire che cosa voglia da lui la voce. Uno slancio che farà emergere tutto il dolore sopito nel suo passato e che gli aprirà gli occhi su un mondo che lui non ha mai voluto vedere né ascoltare…

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