Con l’inizio dell’autunno, ho ripreso a bere il mio amato tè a ogni ora del giorno; come non pensare, fra sorso e sorso, alle meravigliose case del tè giapponese?
E’ per questa ragione che oggi vi presente un volume tanto bello quanto (purtroppo) costoso: si tratta de Le case del tè di Francesco Montagnana, Tadahiko Hayashi, Yoshikatsu Hayashi (Electa, pp. 200, 245 illustrazione, € 100). Le immagini – estrapolate dal libro – parlano da sole, ma preferisco accompagnarle con la presentazione dell’editore:

Il volume documenta le più significative chashitsu e, quando presenti, i roji che le completano. Si tratta delle tradizionali case e giardini per la cerimonia del tè concepiti e realizzati da maestri giapponesi a partire dal XV secolo. Luoghi straordinari per la meditazione, sono tra le più importanti fonti dell’estetica giapponese medievale e moderna.
Il testo di Francesco Montagnana, proponendo una guida concettuale a temi e immagini profondamente legati alla cultura giapponese, apre il volume illustrando i caratteri di specificità ed eccezionalità dello spazio concepito per la cerimonia del tè (chanoyu) a partire dalla svolta, agli inizi del quindicesimo secolo, in cui quella che fino allora era una piacevole consuetudine introdotta dalla Cina, nella dimensione dello zen e dei samurai, diviene un’arte e una cerimonia di grande fascino.
Il saggio di Masao Nakamura, il maggiore studioso contemporaneo dell’argomento che ha all’attivo oltre 60 libri sul tema, traccia la storia dello spazio chashitsu nell’evoluzione dagli inizi ai diversi stili che si alternano soan o rustico e shoin o formale. La stanza del tè nello stile soan, che deve la relativa perfezione principalmente al leggendario maestro del tè Sen no Rikyū (1522-1591), si evolve poi con Furuta Oribe (1545-1615), Kobori Enshū (1579-1647) oppure Oda Uraku (1547-1621), fratello minore del signore feudale Oda Nobunaga. Quest’ultimo è stato, insieme a Toyotomi Hideyoshi e Tokugawa Ieyasu, uno dei tre leader politico-militari artefici dell’unificazione del paese.
I maestri del tè in quest’epoca erano consiglieri politici, monaci, mercanti, guerrieri o una combinazione di queste categorie e il chanoyu diventava un momento di rifugio mentale nelle pause di una battaglia, preludio della ripresa delle ostilità. Lo spazio del tè continua ad essere anche per i maestri del tè-samurai uno spazio dell’utopia o della fuga dalla realtà quotidiana o uno spazio sociale all’interno dei circoli di potere.
Il chanoyu è un’arte che investe la ricerca estetica e funzionale sugli utensili del tè, la disposizione dei fiori, l’arte del giardino, la preparazione delle vivande kaiseki, la calligrafia, la ceramica e inoltre coinvolge i modi di comportamento – è una performance, è una pratica insieme mondana e rituale. Infine è filosofia stessa nella meditazione zen.
“L’arte del tè, lo si sappia, non è altro che bollire l’acqua, versare il tè e berlo” sintetizza Rikyu e chanoyu vuol dire infatti “tè e acqua calda” e la tradizione del tè assimilata dalla Cina, considerata la fonte primaria di civiltà, era un uso diffuso tra i monaci che risaliva almeno all’inizio del nono secolo ma lo spazio del tè come forma distintiva d’architettura si sviluppa solo più tardi verso la fine del sedicesimo secolo con una svolta sostanziale che ne investe ogni aspetto.
Proprio in questo periodo Sen no Rikyū conferisce espressione allo stile soan con una dimensione spesso anche solo di 2 tatami (circa 180×180 cm) in cui ogni accorgimento, la scelta dei materiali, il concetto che dà forma al giardino del tè, la luce, ogni oggetto d’uso nella cerimonia e il rituale vanno in un’unica chiara direzione: lasciare immergere il sé nello spazio assoluto. Lo spazio del chashitsu e del roji non è lo spazio che si contrappone al sé, bensì lo spazio in cui il sé si trova, il luogo della non-mente.
Rikyu seppe dare una forma ideale e insieme sintetica alle tendenze artistico filosofiche della sua epoca con uno spazio fuori dall’ordinario, microcosmo per lo spirito, con l’invenzione del roji come metafora del rifugio dell’eremita (inja), e investendo campi artistici come la pittura, la calligrafia, l’arte della ceramica e della presentazione dei cibi. Mentre l’Occidente ha privilegiato la vista, da cui è partito per la sua geometrizzazione dell’esperienza, e ha così svalutato le altre sensazioni (uditive, tattili, olfattive eccetera) lo spazio del wabi-cha (lo stile wabi del tè) è per la mente e il corpo in senso non duale, e quando ci addentriamo nella sua conoscenza scopriamo qualcosa di assolutamente fuori dall’ordinario che può essere compreso appieno solo attraverso l’esperienza dei cinque sensi, come microcosmo fenomenico a parte.
Wabi-cha è un ideale del teismo in cui il semplice atto di bere il tè costituisce una filosofia e sviluppa il nostro senso estetico. In uno spazio ridotto sino a meno di quattro metri quadri – una stanza del tè come Tai-an – circondata da un roji, giardino del tè che esprime stilizzato un sentiero di montagna, il maestro invita uno o più ospiti, ai quali serve il tè con una cerimonia, in un ambiente in cui una calligrafia, pittura e oggetti del tè circondano i partecipanti, in un arrangiamento voluto. Si tratta in definitiva di un modo semplice di bere il tè, realizzando un senso estetico profondo e creando un tempo e uno spazio unici e fuori dall’ordinario, che danno spunto a pensieri filosofici e religiosi insieme.