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“Heaven” di Kawakami Mieko

Kawakami Mieko HeavenHeaven ha una curiosa collocazione.
È un luogo con le sue precise caratteristiche, le sue forme, i suoi colori, in cui arte, poesia e realtà si toccano. E, al tempo stesso, è qualcosa di impalpabile, un luogo dell’anima e, soprattutto, una condizione dello spirito che permette di distaccarsi dall’infelicità quotidiana. Non si situa: è.

Lo sanno bene i protagonisti dell’omonimo romanzo Heaven di Kawakami Mieko (trad. Gianluca Coci, 2021, Edizioni E/O, pp. 256, € 17), due adolescenti costretti ogni giorno a subire derisioni e violenze gratuite a scuola. Il dolore e la paura li hanno resi a lungo invisibili l’uno all’altra ma quando, finalmente, entrano in contatto la reciproca sofferenza non può non accadere qualcosa, legandosi a doppio filo a quanto già stanno sperimentando in autonomia — la scoperta del corpo e delle proprie pulsioni, la ridefinizione dei rapporti con i genitori, le domande sul proprio posto nel mondo e, soprattutto, sul perché.

«Quel tavolo e quel vaso possono essere malridotti e pieni di graffi e ammaccature in superficie, ma non sono mai feriti dentro».
«Sì, è vero» concordai all’istante.
«Mentre noi, all’esatto contrario, possiamo essere terribilmente feriti all’interno e non mostrare niente all’esterno. Spesso le nostre ferite sono invisibili» disse Kojima con voce ancora più flebile di prima.

Heaven non è un’opera facile: racconta di bullismo in modo aperto e talvolta brutale, di relazioni che si deteriorano, della carezza consolante dell’autodistruzione (che sia per annichilamento o per un ideale). La narrazione non tralascia, però, la bellezza struggente della natura o di un dipinto di Chagall, la messa in discussione delle proprie idee e delle proprie emozioni e, ancora di più, l’ardua ricerca di un senso — per quanto precario e fragile, pur sempre fondamentale — per vivere.

“L’isola dei senza memoria” di Ogawa Yōko

Questa è una pagina fitta di caratteri. Quello che avete davanti agli occhi uno schermo. Sul vostro capo, protetto o meno da un tetto, il cielo. Semplici, consueti elementi della quotidianeità che abitiamo ogni giorno.

Ecco: ora immaginate che, improvvisamente, qualcosa a cui tenete – un bracciale, un libro, un fiore – svanisca, e con esso tutti gli oggetti della stessa categoria. Eppure, a parte una fitta di nostalgia o di rimpianti all’inizio, nulla o quasi vi resterebbe della perdita.

«Peccato, però, che la gente dell’isola non sappia custodire per sempre nel proprio cuore le cose belle: finché vivono qui, sono destinati a perderle tutte, una dopo l’altra. È probabile che arrivi presto anche per te il momento di perdere qualcosa per la prima volta.»

«E… fa paura?» le chiesi preoccupata una volta.

«No, stai tranquilla: non è né doloroso né penoso. Ti sveglierai nel letto un giorno e sarà tutto finito, prima che te ne accorga. Prova a restare in ascolto con gli occhi chiusi e a sentire il flusso dell’aria mattutina: avvertirai qualcosa di diverso dal giorno precedente. Così anche tu capirai che cosa hai perso, che cosa è scomparso dall’isola.»

Questo è quanto, settimana dopo settimana, provano i personaggi de L’isola dei senza memoria di Ogawa Yōko (trad. Laura Testaverde, Il Saggiatore, 2018, pp. 250, € 24). Ben prima dello sviluppo della letteratura fantascientifica e distopica femminile a cui stiamo assistendo negli ultimi anni grazie al Racconto dell’ancella di Margaret Atwood (l’opera di Ogawa, infatti, risale al 1994), la scrittrice giapponese ha dato infatti vita a una storia senza tempo e senza luogo (sebbene molti elementi sembrino rimandare al Giappone) pervasa di iquietudine e tensioni.

In ‘un’isola senza nome,  inspiegabilmente, frammenti di realtà scompaiono da un istante all’altro dall’orizzonte dei residenti per ragioni sconosciute, ma sempre sotto l’occhio attento di un corpo di polizia che nulla si lascia sfuggire e nulla perdona. I principali ricercati sono, dunque, coloro che non hanno perso l’uso della memoria o che si oppongono a questo: tenere traccia del passato e di ciò che segna le nostre vite, fossero anche delle cose di poco valore, significa – ci lascia intendere Ogawa – custodire i confini del nostro agire, alimentare un rapporto empatico con quel che ci circonda, stabilire rapporti profondi e complessi con le persone che abbiamo vicino.

Non a caso, la protagonista del libro è una romanziera solitaria e anonima che fa della scrittura la sua àncora di salvezza e la sua arma. Ancora una volta (basti pensare a La formula del professore), Ogawa riflette così sulla relazione fra ricordo, cancellazione, parola, libertà, mostrandoci come il rovescio della realtà abituale sia pericolosamente attraversato da inquietudini, minacce, ombre.

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Per approfondire: The Guardian e The New York Times hanno dedicato due belle recensioni al libro, che ne evidenziano alcuni possibili legami con la storia internazionale.

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