«Non ci sono parole». È una frase che in questi giorni ricorre spesso nei nostri discorsi a proposito di ciò che è avvenuto in Giappone. Eppure questa dichiarazione di silenzio è subito smentita da un inarrestabile bisogno di commentare, raccontare e giudicare. Unanime l’ammirazione per il comportamento dei giapponesi. Le parole «dignità» e «compostezza» sono ripetute di continuo. Non mi preoccupa che diventino un luogo comune. Le trovo giuste, adeguate, e non c’è bisogno di affannarsi a cercare sinonimi. Però spero che tutti coloro i quali seguono ipnotizzati le immagini della tragedia percepiscano, dietro la dignità e la compostezza, il dolore. I giapponesi lo soffrono come ogni altra popolazione del mondo, né le loro emozioni sono meno profonde e sconvolgenti di quelle degli altri.
Eventi del genere attenuano le differenze culturali che, anche in tempi di omologazione globale, continuano ad alimentare l’attrazione e la curiosità (a volte venate di razzismo) che ogni alterità ispira. Le tragedie ci ricordano l’appartenenza di tutti a un’unica razza umana e, anche se per un tempo breve, ci affratellano. Il dolore umano è lo stesso a Fukushima e ad Haiti o all’Aquila, nel Friuli o in Irpinia, anche se espresso in una lingua incomprensibile ai più, anche se meno urlato, e comunicato con una gestualità forestiera, fatta di inchini e povera di abbracci. Un dolore che parlando un linguaggio diverso dice lo stesso strazio per la perdita delle persone e delle cose materiali. La disperazione per la perdita delle case, ma anche di oggetti superflui e incongrue suppellettili, è un sentire le cui radici affondano in un’era precedente a quel consumismo su cui il Giappone ha costruito la propria fortuna nel dopoguerra, e che forse risale a vite precedenti dell’umanità.
Conservare le cose e con esse costruire il proprio ambiente ricorda il lavoro concreto e poetico degli uccelli che fabbricano il nido o di animali che si costruiscono una tana, i quali trasformano senza saperlo, attraverso la scelta di una varietà di materiali, il concetto ancestrale di rifugio in quello storico di casa. Quando guardiamo le rappresentazioni della Shoah, quegli ammassi indistinti di cose strappate alla vita delle persone tra cui si riconoscono qua e là un violino, una bambola, degli occhiali, una scarpa femminile, stringono il cuore quasi come le immagini degli uomini e delle donne che ne sono stati deprivati. Le persone, spogliate dei loro vestiti e delle loro cose, ci appaiono atrocemente decontestualizzate. Anche i giapponesi che vediamo fissare sgomenti le proprie case trasportate da una corrente violenta e impassibile, o cercare tra le macerie un figlio, un padre, una compagna, lo sono. E guardano piangenti e disorientati il loro contesto frantumato, quelle case senza muri e senza porte, fatte a pezzi, ormai indifese eppure di colpo diventate inespugnabili. Non c’è più nessun modo di costruirsi un varco in quella massa di detriti per entrare e ritrovare il proprio mondo.
Il dolore è universale. I giapponesi però, più di altri popoli, sono abituati da sempre a interrogarsi sulla natura della sofferenza e sulle sue possibili cure. Il verbo buddhista, che ha attecchito in Giappone alle origini della sua civiltà, ha individuato in quattro semplici leggi il percorso della sofferenza: dalla sua origine, che si fonda sull’attaccamento, alla via per superarlo, fino alla sua cessazione. Quale discorso più adatto a una umanità innamorata dell’eterno e condannata al transitorio? Il Giappone ha fatto proprio questo insegnamento straniero e lo ha fuso in un abbraccio sincretico con lo shintoismo, religione indigena della sacralità di rocce, alberi e nuvole, e il confucianesimo, dottrina anche questa importata, che ha segnato la posizione dell’uomo nel mondo, insegnandogli la legge del dovere e del rispetto verso l’altro. Da questa combinazione di fattori nasce la sensibilità nipponica. L’intensità dell’emozione di un giapponese di fronte alla fioritura dei ciliegi contiene in un frammento di tempo la sapienza di queste tre religioni. La sensazione di un respiro divino nel fiore, la coscienza della sua caducità, e lo sguardo di un osservatore il cui baricentro è saldamente nel mondo. Ed è questa la sensibilità che colpisce gli stranieri, i quali si riconoscono nel dolore ma si stupiscono di vederlo in forme a loro sconosciute.
Dalla pazienza all’ira
In questi giorni seguo costantemente le notizie sul canale satellitare della Nhk, la televisione di stato giapponese. La dignità e la compostezza resistono, ma nelle zone colpite e in più adesso soggette al pericolo nucleare, quando i soccorsi tardano o i viveri sono insufficienti, si cominciano a registrare segni di insofferenza e rabbia. Dicevo prima della matrice confuciana del comportamento giapponese, e del preciso senso dei propri doveri verso la società. Ma in Giappone, e questo in Occidente spesso lo si dimentica, è altrettanto vivo il senso dei propri diritti e di ciò che ci si deve attendere dagli altri e da chi governa. La loro straordinaria pazienza si basa anche su questo: un’aspettativa ragionevolmente fondata di vedere rispettati i propri diritti. L’incapacità dei responsabili di contenere i danni causati dal terremoto alle centrali nucleari o una gestione inadeguata della crisi da parte del governo potrebbero incrinare questa fiducia e mostrarci il volto irato del Giappone.
È di poco fa la notizia che i morti nella prefettura di Iwate sono saliti a oltre 1300. Questa zona, una di quelle su cui si è abbattuto lo tsunami, è la regione dove visse (tra il 1896 e il 1933) un grande poeta e autore di fiabe, Miyazawa Kenji. Iwate, che lui bambino e poi adolescente visitava nei suoi vagabondaggi alla ricerca di piante, rocce, minerali, e di cui ha descritto la natura maestosa e spesso spietata in versi e prose incantevoli, è stata in gran parte distrutta, nella zona costiera, dallo tsunami. Il paese natale di Kenji, Hanamaki, scampato all’onda anomala a causa della sua distanza dal mare, ospita in questi giorni, oltre a molti cittadini evacuati, i cadaveri trasportati dalle zone devastate. Ma anche le zone che il maremoto e il terremoto hanno risparmiato, sono minacciate dal pericolo radioattivo.
Il prezzo del benessere
Pur abituati da molti decenni a convivere con le centrali nucleari, che in un paese povero di materie prime rappresentano la migliore fonte di autonomia energetica, credo che i giapponesi comincino a chiedersi quanto alto possa essere il prezzo da pagare per il benessere fornito dall’energia nucleare. Non vi è altro popolo al mondo che abbia vissuto sulla propria pelle (nel senso letterale, non metaforico) la devastazione di due bombe atomiche. La cognizione del dolore dei giapponesi è segnata da quella tragedia senza ritorno. Grandi scrittori, a cominciare da Ôe Kenzaburô, hanno scritto sulle conseguenze della bomba pagine che bisognerebbe, spenta per qualche ora la televisione, tornare a leggere. Ma chissà perché in questi giorni il ricordo che mi accompagna con più insistenza è quello del film di un autore russo, anche se costellato di riferimenti al Giappone: Sacrificio di Tarkovskij. Il protagonista, angosciato dall’annuncio di una catastrofe nucleare imminente, decide di distruggere la casa e tutti i suoi beni «per salvare il mondo». Egli racconta al figlio la parabola di un monaco che, a forza di annaffiare un albero morto, con pazienza e disciplina, riesce a farlo rifiorire. La storia si apre proprio con l’immagine dell’uomo che, insieme al bambino, pianta un arbusto fragile e secco che chiama l’«albero giapponese».
Alla fine del film, quando il padre, dopo aver dato fuoco alla casa, viene portato via, il bambino continua a portare secchi d’acqua, fiducioso che l’albero rifiorirà. L’immagine di quel bambino che annaffia l’albero dissecato, in questi giorni di angoscia e di profonda preoccupazione per il futuro del Giappone, mi sembra rischiarare un poco, con la sua luce, un buio spaventoso.