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“Le bugie del mare” di Nashiki Kaho

Le bugie del mare di Nashiki KahoProgetti, reminiscenze, una certa dose di malinconia, e forse anche qualche rimpianto: è con questo bagaglio che, un giorno d’estate, Akino raggiunge Osojima. Ricercatore universitario, qui l’uomo intende condurre indagini riguardanti il territorio e le leggende della piccola isola.

Nell’esplorare e scoprire le sue caratteristiche, i suoi anfratti, le sue bellezze nascoste, lo studioso stabilisce ben presto con questa un rapporto viscerale e simbiotico che va ben al di là del legame professionale:

Erano ricordi e sensazioni che provenivano dalla mia memoria? O appartenevano a quel luogo, a quella terra? La memoria dell’isola si collegava in qualche modo alla mia coscienza e la spingeva a reagire?

Introspettivo e riflessivo, Akino a Osjima ho portato con sé anche il peso della perdita e del lutto. Avventurandosi tra fronde, specchi d’acqua, rocce, esplora in verità se stesso, trovandosi inaspettatamente faccia a faccia con un vago ma persistente senso del mistero. L’isola non è più un semplice oggetto di indagine: è, a suo modo, la Destinazione, il grembo che accoglie, la cassa di risonanza delle proprie emozioni.

La voce che avevo udito e che mi era sembrata appartenere a un mondo sospeso tra la vita e la morte era il mio stesso lamento? O forse proveniva da un luogo, al di là di quello in cui mi ero fermato, dove era impossibile vedere e sentire tutto ciò che si vede e si sente abitualmente, dove i propri contorni fisici non erano più percepibili e non si era in grado di distinguere ciò che veniva da sé da ciò che veniva dagli altri? Se lo avessi voluto, se fossi stato più coraggioso, sarei stato capace di raggiungere quell’oscurità assoluta?

Le bugie del mare di Nashiki Kaho (trad. Gianluca Coci, Feltrinelli, 2021, pp. 224, € 16) è, in conclusione, un romanzo che sorprende per delicatezza e intensità, capace di proiettare lettori e lettrici in un microcosmo poetico e vibrante.

Anteprima di “High & dry”, il nuovo romanzo di Banana Yoshimoto

E’ finalmente giunto in libreria il nuovo atteso romanzo di Banana Yoshimoto – tradotto dalla bravissima Gala Maria Follaco- High & dry: primo amore (Feltrinelli, pp. 112, € 10; potete ora trovarlo qui su Amazon.it a 6,50), di cui parlerò presto più diffusamente. Per ora godetevi questa anteprima dal libro:

Nei primi giorni dell’autunno dei miei quattordici anni, come se presagissi qualcosa, il mondo mi sembrava risplendere di un colore ben preciso.
Sarà stato il marrone brillante delle castagne e il giallo vivo del loro interno, o l’odore di legno secco dei funghi maitake appena tirati fuori dal sacchetto di carta, o forse il verde e il giallo della zucca, la sua pienezza. Le foglie morte color dell’oro danzavano al soffio del vento nella luce anch’essa dorata, e l’aria era satura dell’odore che sprigionavano, un odore puro, come di qualcosa che è bruciato.
Tutto sembrava tempestato di grani d’oro, molto più del normale.
Quando la pioggia spazzava via la sporcizia dalla strada, l’aria tersa si sollevava come qualcosa di appena nato, e come un essere animato si metteva a vibrare. E tutt’intorno si diffondevano il profumo dell’osmanto, quel freddo che pizzica un po’ il naso, l’odore della terra bagnata. Che splendore, pensavo, sembra che il mondo intero renda omaggio all’autunno. Attraverso tutto ciò, la bellezza che custodivo dentro di me si spingeva con forza verso il mondo. Era una sensazione intensissima.

A quell’epoca ero sempre molto presa dalle mie riflessioni, che la maggior parte delle volte riguardavano il modo e i meccanismi in base ai quali funziona il mondo.

A causa di tutto questo riflettere, quando poi tornavo alla realtà capitava che mi trovassi davanti agli occhi cose strane.
Per esempio, una volta vidi un uomo sospeso sotto un viadotto, con un casco in testa. Vicino a lui non c’era nemmeno l’ombra di una motocicletta. Sorpresa, guardai meglio. Allora l’uomo sparì, e al suo posto c’erano dei mazzi di fiori, portati probabilmente da persone diverse, appoggiati al guardrail.
Ecco, è morto lì… mi dissi, e giunsi le mani con discrezione. Fu un pensiero spontaneo.
E così avevo imparato un’altra cosa.
Portare fiori a un morto non è una perdita di tempo. Quell’uomo stava lì apposta per reggerli. Sicuramente gli facevano bene, e gli arrivava anche il loro profumo.
Oppure, una volta che fissavo distrattamente la schiena di una compagna di classe, mi si materializzò davanti agli occhi la scena di suo padre e sua madre che litigavano. Non sapevo neanche che faccia avessero, eppure li vidi.
Mi chiesi se fosse vero e provai subito simpatia per quella ragazza, che non era nemmeno mia amica. Timidamente pensai: spero che tuo padre e tua madre facciano pace! E così lei, che non parlava quasi mai, durante la ricreazione mi fece un sorriso, e prima di tornare a casa agitò la mano e mi salutò con un “bye-bye!”.
Mi domandai cosa le fosse preso. Forse le persone sono capaci di comunicare anche così, senza che dal di fuori si veda nulla.
Allora è per questo che certe volte, dopo aver incontrato qualcuno apparentemente molto allegro, sentiamo un brivido in fondo al cuore… A volte scoprivo anche cose del genere. […]

Da Carmilla: "Antifrasi di Mishima"

Vi propongo con piacere un articolo di Franco Ricciardiello apparso su Carmilla e dedicato a Mishima. Buona lettura.

Feltrinelli ha iniziato nel 2009 la riproposizione in Italia del ciclo del “Mare della Fertilità”, che comprende gli ultimi quattro romanzi scritti da Mishima prima della morte nel 1970; la quadrilogia è apparsa in precedenza in Italia nella traduzione Bompiani (4 volumi singoli, 1999) e nei Meridiani Mondadori (volume unico, 2006). Nel marzo 2010 è appunto edito da Feltrinelli con il titolo “A briglia sciolta” il secondo volume di questo ciclo della lunghezza totale di oltre 1500 pagine; potrebbe essere l’occasione per riparlare dell’opera più ambiziosa di uno dei più discussi autori del secolo scorso, autentico personaggio mediatico che modellò la propria vita come aveva imparato dai suoi maestri europei, Wilde e Nietzsche, ma soprattutto D’Annunzio (del quale Mishima tradusse in giapponese il “Martirio di San Sebastiano”).

Alberto Moravia, che intervistò Mishima quando in Europa era etichettato come “fascista”, lo definì piuttosto “un conservatore decadente”. Mishima in realtà non avallò mai alcuna appartenenza ideologica, e non ebbe problemi a rispondere all’invito dello Zenkyōtō, il Comitato di Lotta interfacoltà degli studenti di sinistra, per una serie di conferenze nelle università sconvolte dal 1968, altrettanto vivace in Giappone che in Europa. Non bisogna dimenticare che da giovane lo scrittore mosse i primi passi intorno a Bungei bunka, rivista pubblicata tra il 1938 e il 1944 dal circolo neoromantico del primo periodo Shōwa, composto da artisti provenienti dal marxismo; né bisogna dimenticare che non furono considerazioni meramente ideologiche a spingerlo a denunciare pubblicamente nel 1967 la Rivoluzione culturale cinese, insieme al futuro premio Nobel Kawabata Yasuunari, bensì una concezione che precisò l’anno successivo nel saggio Sulla cultura: affinché un sistema culturale possa trasferirsi di generazione in generazione, è necessario che il sistema politico garantisca libertà di pensiero e pluralità di espressione democratica. È evidente che quest’idea è inconciliabile con la politica maoista del tempo.
La genesi del “Mare della Fertilità” risale probabilmente al 1963, la sua prima ideazione al 1960; come ha fatto rilevare Giorgio Amitrano, è significativo che il titolo scelto da Mishima per questo suo testamento letterario sia in realtà un’antifrasi: il toponimo del cratere lunare Mare fœrtilitatis richiama infatti qualcosa che è fecondo solo quando è morto, perfetta metafora del nichilismo cosmico.
Intenzionato a scrivere un “romanzo interpretazione del mondo” sull’esempio degli scrittori europei di inizio secolo, preparò il lavoro con estrema accuratezza, recandosi di persona nei luoghi scelti per l’ambientazione, dal sudest asiatico alla provincia giapponese. Scrisse in proposito: “Per quanto riflettessi, non riuscivo a immaginare un lungo romanzo che fosse diverso dalle grandi opere apparse in Occidente a partire dal XIX secolo e avesse una sua precisa ragione di esistere. […] Per fortuna ero giapponese e per fortuna avevo a portata di mano le teorie della reincarnazione.” Diverse teorie buddiste sulla metempsicosi sono infatti la “giustificazione” di fondo della tetralogia, che segue due protagonisti tra il 1910 e il 1970: il professore Honda Shigekuni, e un secondo personaggio che alla fine di ogni romanzo — è questa l’originalità del ciclo di Mishima — muore per reincarnarsi nel romanzo successivo.
Honda non è soltanto un protagonista/punto di vista, ma un vero e proprio testimone della metempsicosi, l’unico che riconosce i segni del ciclo karmico di morte e rinascita: nei quattro romanzi avrà a che fare successivamente con altrettanti giovani bellissimi destinati a morte precoce e reincarnazione. Ognuno di loro è la rappresentazione, l’alter/ego di Mishima a un certo stadio della vita.
Nel primo volume della tetralogia, “Neve di primavera”, Honda è il precettore di Matsugae Kiyoaki, giovane rampollo dell’aristocrazia nel periodo immediatamente successivo la vittoriosa guerra contro la Russia zarista: l’intreccio è una storia d’amore tra due adolescenti ai quali è impedito sposarsi. Kiyoaki è la rappresentazione della sensibilità estetica di Mishima adolescente: compresso tra la personalità della nonna paterna, che lo strappò alla madre per educarlo in prima persona, e la volontà del padre di avviarlo alla carriera diplomatica, Hiraoka Kimitake (è questo il vero nome di Mishima) ebbe un’infanzia infelice e cagionevole, che lo portò a sviluppare una sensibilità particolare, e forse anche il desiderio di ribellarsi alle imposizioni. “Neve di primavera” è il romanzo dell’amore puro, della dedizione adolescente. La sua cifra stilistica è rappresentata dal colore bianco: la neve, la purezza, i fiori di ciliegio (talvolta screziati di rosso, come un presagio di morte) e soprattutto la pelle femminile.
Nel secondo volume, “A briglia sciolta”, Honda Shigekuni ha occasione di vedere nudo durante una esercitazione di arti marziali il figlio di un suo conoscente: riconosce su di lui alcuni segni fisici di Kiyoaki, l’amico morto di consunzione alla fine del romanzo precedente. Qualche indagine lo porta a appurare che si tratta di un caso di reincarnazione, proprio come sostengono numerose teorie religiose. Inuma Isao è affiliato a una setta tradizionalista che propugna il ritorno alla tradizione dell’onore giapponese tramite l’omicidio politico dei ministri fiolo-occidentali. Il gruppo si ispira allo Shinpūren (Lega del vento divino), una cospirazione di ex-samurai che nel 1876 si ribellò alla restaurazione imperiale, e fu soffocata nel sangue. Significativamente, lo Shinpūren storico è anche l’ispirazione ideale del Tatenokai, l’Associazione degli scudi, milizia privata fondata da Mishima con l’obiettivo di tornare ai valori tradizionali giapponesi, rappresentati dalla persona del Tenno, l’imperatore. Di nuovo risulta difficile distinguere letteratura e vita in Mishima. Épater le bourgeois è il motto imparato dagli europei, e sconcertare la borghesia sarà il suo fine; ci riuscirà anche nei romanzi più “borghesi” scritti per le riviste femminili, come “Musica e abito da sera”. Alla fine del secondo romanzo, la polizia scopre e sgomina la cospirazione; Isao, che dell’autore rappresenta la volontà di azione, è costretto al suicidio rituale con la spada, il seppuku, in un’anticipazione della morte di Mishima stesso. Con uno stile quanto mai decadente, la politica diventa opera d’arte.
Il terzo romanzo, “Il tempio dell’alba”, è in parte ambientato in Thailandia. Dopo la morte di Isao, ancora una volta Honda riconosce la reincarnazione di Kiyoaki in una principessa siamese, figlia di un vecchio compagno di studi: la giovanissima Ying Chang che viene a sua volta a studiare in Giappone. La sua bellezza conturbante provoca in Honda reazioni contrastanti, non solo ispirate dal ciclo di morte e rinascita che è costretto a osservare; diventa addirittura un voyeur, e arriva a spiare di nascosto la sua ospite. Ritorna il simbolismo dei colori di “Neve di primavera”, ma con una differenza significativa: il bianco associato alla pelle femminile contraddice in apparenza il bruno-dorato della carnagione di Ying Chang, colore che Mishima associa con la virilità della pelle maschile ambrata, abbronzata (v. per esempio il saggio “Sole e acciaio”), ma è chiaro che la principessa rappresenta l’amore temporale, carnale. Per contrasto, e in maniera molto significativa, nella simbologia dello scrittore la pelle di San Sebastiano appare bianca come marmo; celebre la foto in cui Mishima impersona il santo cristiano in un’esibizione vagamente masochista. Ancora una volta èpater le bourgeois. Questo culto della forma fisica, misto di omosessualità e virilità, appare come una rivincita su un’infanzia gracile vissuta all’ombra della madre (e della nonna). Del carattere di Mishima, la principessa Ying Chang rappresenta il narcisismo.
Invece il giovane protagonista dell’ultimo episodio della serie, Tōru, ne impersona il nichilismo assoluto. Il romanzo si intitola “La decomposizione dell’angelo”, il titolo originale allude alla tradizione buddista: la morte di un angelo è preannunciata da cinque segni di decomposizione. “Gli angeli sono come principesse senza scampo, colte dalla peste in un giardino tropicale” (pag. 1348 ed. Mondadori). Honda Shigekuni, ormai anziano e vedovo, riconosce e adotta un giovane orfano solitario che lavora in un faro sulla scogliera, anche se nutre dubbi sulla sua identità segreta (il ragazzo infatti risulta concepito qualche giorno prima della morte di Ying Chang). Il giovane cerca lo scontro con il padre adottivo, la sua ribellione è dettata da un nichilismo che spiega il pessimismo cosmico dell’autore. Simbolicamente, dopo la parola fine Mishima appone sul manoscritto lasciato a disposizione dell’editore la data del 25-11-1970, che non è quella di termine del lavoro bensì quella progettata per il seppuku davanti a un reparto delle Jietai, le Forze di Autodifesa nazionali che erano il solo esercito permesso al Giappone dopo la sconfitta nella guerra mondiale.
Il ciclo del “Mare della fertilità” è l’ultima opera composta da Mishima. Il 25 novembre 1970 insieme a quattro giovani attivisti del Tatenokai sequestra il generale comandante della guarnigione militare di Ichigaya, costretta a radunarsi per ascoltare l’arringa dello scrittore. Mentre già si sentono gli elicotteri dalla polizia, Mishima si rende conto che il suo appello alla fedeltà verso il Tenno cade nell’indifferenza o peggio nella derisione; si ritira nell’ufficio del generale per il suicidio rituale. Il seppuku si prolunga in maniera innaturale a causa della giovane età e dell’inesperienza degli attivisti, la decapitazione di Mishima dopo l’autosventramento è lunga e penosa, molto diversa dal gesto stilizzato e estetizzante del suo personaggio Isao in “A briglia sciolta”. Il nichilismo si è trasformato in impulso autodistruttivo, l’ultimo tentativo di reazione ai valori di quell’occidente assimilati così perfettamente da Mishima autore. Rimane la vasta opera letteraria di un uomo che nel privato della scrittura si rivelò molto più colto e sensibile della maschera pubblica che volle costruire.

Mishima, Yoshimoto, Murakami, Kawabata, Tanizaki e altri a prezzo scontato

La notizia rallegrerà certamente chi desidera fare scorta di volumi per l’estate: le librerie ed il sito Feltrinelli oggi e domani scontano del 35% volumi di alcune collane dell’omonima casa editrice e della Einaudi.
Questo significa che potrete trovare a prezzo ridotto molti libri di Mishima, Yoshimoto, Murakami, Kawabata, Tanizaki, etc.
Vi è poi un’ulteriore promozione sui testi della Tea, ridotti del 40%: tra i più celebri, possiamo ricordare Memorie di una geisha e i resoconti asiatici di Tiziano Terzani.
Buoni acquisti.

Il sole si spegne di Osamu Dazai

E’ recentemente uscito Il sole si spegne di Osamu Dazai presso i tipi della Feltrinelli (p. 144, 7,5 €; traduttore Luciano Bianciardi), già edito dalla SE qualche anno fa. sole_si_spegne

Attraverso la storia della rovina della propria famiglia narrata dalla giovane Kazuko, il romanzo adombra l’epopea tragica dell’aristocrazia declinante nel Giappone vinto e umiliato dalla guerra, e insieme propone la vivida e più vasta rappresentazione della desolazione spirituale di un paese che ha smarrito i valori della tradizione e va snaturandosi nell’incalzare di una civiltà industriale priva di idealità. Pubblicato nel 1947, un anno prima di annegarsi nel lago Tamagawa a Tokyo, Osamu Dazai vi consegnava un messaggio di disperata rivolta in cui si riconobbe e si identificò un’intera generazione – quella che visse il disordine e lo smarrimento del dopoguerra, nonché la frustrazione precoce delle speranze in un rinnovamento radicale della società. D’altra parte, il successo de Il sole si spegne, il richiamo straordinario che esercitò sul costume oltre che sulla vicenda letteraria giapponese, non si spiegherebbero senza quella potente contaminazione che fa di questa, come di tutta l’opera di Dazai, il riflesso e la cassa di risonanza della sua vita lacerata. Annullando ogni distanza da sé, sottolineando ed esasperando la corrispondenza tra le proprie esperienze e quelle dei suoi personaggi, Dazai trascrive sulla pagina letteraria una sofferenza esistenziale, il ribellismo e l’istinto di autodistruzione suggellati infine dal suicidio.

Per molti, questo libro potrebbe incarnare alcuni dei più classici stereotipi sul Giappone (il pessimismo dei protagonisti, lo sfondo della seconda guerra mondiale, le atmosfere nobili e decadenti, l’autodistruzione, il suicidio); eppure, la vicenda risulta fortemente personale e sentita.
La biblioteca giapponese della Feltrinelli – già piuttosto nutrita (Mishima, Yoshimoto…) – si arricchisce così di un testo fondamentale per comprendere il panorama letterario e culturale nipponico post bellico.
Per concludere, un lungo assaggio dell’opera:

(…) Forse dovrei parlare del serpe. Un pomeriggio, quattro o cinque anni fa, i bambini del vicinato trovarono una dozzina d’uova di serpe, nascoste fra i paletti della staccionata, in giardino. Dicevano che erano uova di vipera. Pensai che, con una dozzina di vipere a strisciare nel boschetto di bambù, non avremmo mai potuto entrare in giardino senza particolari precauzioni. Dissi ai bambini:”Bruciamo le uova”, ed i bambini mi seguirono, ballando di gioia.
Feci un mucchio di foglie e di frasche, vicino al boschetto, ed appiccai il fuoco, gettando poi le uova nella fiamma, una dopo l’altra. Per parecchio tempo non presero fuoco. I bambini mettevano altre foglie e rametti sulle fiamme, che si facevano ancor più robuste e lucenti, ma ancora pareva che le uova non potessero mai bruciare.
La ragazza della fattoria giù in fondo alla strada ci chiese, dall’altro lato della staccionata, che cosa facevamo.
“Bruciamo le uova di vipera. Ho una gran paura che possan nascere i serpi.” “Come son grosse le uova?” “Come le uova di una quaglia, e bianchissime.” “Allora son uova di un serpe comune, innocuo; non sono uova di vipera. Le uova chiuse non bruciano, sai.”La ragazza se ne andò, e rideva, come se la cosa fosse molto buffa.
Il fuoco era acceso da quasi mezz’ora, ma le uova proprio non volevano bruciare. Ordinai ai bambini di toglierle dalle fiamme e di seppellirle sotto il susino Andai a raccogliere dei ciottoli, per segnare la tomba.
“Preghiamo, tutti quanti.”Mi inginocchiai e giunsi le mani. I bambini, obbedienti, si inginocchiarono dietro di me e giunsero le mani nella preghiera. Ciò fatto, lasciai i bambini e lentamente cominciai a salire su per gli scalini di pietra. In cima c’era la mamma, all’ombra della pergola di glicine.
“Avete fatto una cosa molto crudele,”disse.
“Pensavo che fossero uova di vipera, invece erano di serpe comune. Però le ho sepolte, regolarmente. Non c’è motivo di adirarsi.”Capii ch’era una sfortuna che la mamma mi avesse visto.
La mamma non è affatto superstiziosa, ma ha un terrore mortale dei serpi, da quando, dieci anni or sono, morì il babbo nella nostra casa di via Nishikata. Pochi momenti prima che il babbo ci lasciasse, la mamma, scorgendo sotto il letto di lui – così le parve – una funicella nera, sopra pensiero si chinò a raccoglierla, ma si accorse che era un serpe. Scivolò via nel corridoio e scomparve. Se ne accorsero solo la mamma e mio zio Wada. Si guardarono l’un l’altra, ma non dissero nulla, per timore di turbare la quiete degli ultimi momenti del babbo. Ecco perché Naoji ed io (eravamo tutti e due nella stanza) non sapemmo nulla del serpe.
Ma io so, ne son certa perché l’ho visto, che la sera della morte di mio padre c’erano serpi attorcigliati a tutti gli alberi presso il laghetto del giardino. Ora io ho ventinove anni, e ciò significa che quando mio padre mori, dieci anni fa, ne avevo diciannove: non ero più una bambina. Sono passati dieci anni, ma il ricordo di ciò che accadde allora è ancor vivo e quindi non posso sbagliarmi. Camminavo presso il laghetto, volevo prendere i fiori per il funerale. Mi fermai accanto a un cespo di azalee ed all’improvviso notai un serpentello avvolto in cima a un ramoscello. Poi, quando feci per tagliare un ramo di rose kerria, da un cespuglio lì accanto, vidi che anche lì c’era un serpe. Sulla rosa di Sharon, sull’acero, sulla ginestra, sul glicine — su ogni cespuglio e su ogni albero — c’era un serpe. Questo fatto non mi spaventò in maniera particolare. Solo sentivo che in qualche modo i serpi, come me, piangevano la morte di mio padre ed erano strisciati fuori dalle loro buche per rendere omaggio al suo spirito. Più tardi, quando a bassa voce raccontai alla mamma il fatto dei serpi in giardino, ella prese la cosa con calma; solo inclinò un poco la testa, pensierosa. Ma non disse nulla.
Eppure la verità è che dopo questi due incidenti la mamma prese a detestare i serpi. O forse sarebbe più giusto dire che ne provava paura e sgomento, che era giunta al punto di temerli.
Quando la mamma scoprì che avevo bruciato le uova di serpe, certo deve aver sentito in quell’atto una sorta di malaugurio. Quando me ne resi conto, si fece strada in me la sensazione di aver compiuto, bruciando le uova, un’azione terribile. Mi tormentava la paura di aver provocato una maledizione su mia madre, tanto che non riuscivo a dimenticare quel fatto; non quel giorno, né quello dopo, né il successivo. Eppure stamani, in sala da pranzo tirai fuori quella stupida osservazione sulla gente bella che muore giovane; e poi, incapace di rimediarvi – non conta quel che ho detto, – finì che piansi. Più tardi, mentre sparecchiavo la tavola della colazione, provai una sensazione insostenibile: che in petto mi si fosse insinuato un serpentello orribile, capace di abbreviare la vita della mamma.
Quel giorno stesso vidi un serpe nel giardino. Era una bella mattina tranquilla, e dopo aver terminato il lavoro in cucina, pensavo di prendere una sedia di vimini e di mettermi sul prato a sferruzzare. Mentre uscivo nel giardino con la sedia in mano, vidi il serpe, fra le piante dell’iris. Provai solo un lieve senso di repulsione. Riportai la sedia nel portico, mi misi a sedere e cominciai a far la maglia. Nel pomeriggio, entrando in giardino con l’intenzione di prendere in biblioteca (è nel padiglione, in fondo al giardino) un volume dei dipinti di Marie Laurencin, c’era un serpe che strisciava, lento lento, sul prato. Era lo stesso serpe che avevo visto al mattino, un serpentello grazioso e morbido. Traversava il prato, tranquillo. Giunto all’ombra della rosa selvatica si fermò, alzò la testa, e vibrò la sua lingua che pare una fiamma. Sembrava che cercasse qualcosa, ma dopo un attimo abbassò la testa e si abbandonò al suolo, come sopraffatto dalla stanchezza. Dissi fra me:”Deve essere una femmina.”Ma anche allora la cosa che più mi fece impressione fu la bellezza del serpe. Andai al padiglione e presi il volume delle pitture. Tornando gettai un’occhiata furtiva al posto dove avevo scorto il serpe, ma era già scomparso.
Verso sera, mentre bevevo il tè con la mamma, mi venne fatto di guardare in giardino, proprio nel momento in cui lentamente, strisciando, comparve il serpe, sul terzo gradino della scala di pietra.
La mamma se ne accorse.”È quello il serpe?”Si precipitò da me dicendo queste parole e mi si mise accanto, tremante; mi stringeva le mani. All’improvviso mi balenò alla mente che cosa ella stesse pensando.
“La madre delle uova, vuoi dire?”proruppi.
“Sí, sí.”La voce della mamma era alterata.
Ci tenevamo le mani, ferme, in silenzio, guardando il serpe col fiato sospeso. Il serpe, abbandonato sulla pietra, ricominciava a muoversi. Lento, stanco, incerto, traversò lo scalino e scivolò verso gli iris.
“È da stamani che gira per il giardino,”sussurrai. La mamma sospirò e si lasciò andare su di una sedia.
“È proprio per questo, ne son certa. Sta cercando le sue uova. Poveretta.”La mamma parlava con voce affranta.
Ebbi una risata nervosa; non sapevo cos’altro fare. Il sole della sera colpiva il volto della mamma ed i suoi occhi scintillavano, quasi azzurri. Il viso, su cui pareva scorgersi un lieve accenno di collera, era cosi adorabile che io sentii il bisogno di correre fra le sue braccia. Allora mi venne in mente che il viso della mamma somigliava non poco a quello dello sfortunato serpe che avevamo visto proprio allora. Ed ebbi la sensazione, non so per quale motivo, che il brutto serpe che portavo in seno potesse un giorno finir per divorare quest’altro serpe, bello ed affranto: una madre.
Posai la mano sulla spalla morbida e gentile della mamma, e provai un’inquietudine fisica che non riuscivo a spiegare.

Il taccheggio dei libri

Come ben sappiamo grazie al bombardamento mediatico, la crisi economica si fa sentire dovunque; e se in Italia japanese-books-close-up1qualcuno, per contrastarla, confida nel taccheggio, anche in Giappone, dopo tutto, non la pensano tanto diversamente. Da noi, “vanno a ruba” (nel senso letterale del termine) rasoi, parmigiano reggiano e cartucce della stampante; nell’arcipelago del Sol Levante questa (triste) sorte è riservata ai libri. Le nostre Feltrinelli non hanno da temere fenomeni del genere (tranne qualche esproprio proletario di tanto in tanto); al contrario, le librerie nipponiche sono invece seriamente preoccupate:  i danni, infatti, ammontano a circa 4 miliardi di yen all’anno (ossia più di 36 milioni di euro), cifra raddoppiata dal 2003.
Il taccheggio è un fenomeno in espansione soprattutto tra i giovani giapponesi, ma sono coinvolti anche  anziani oltre i sessantacinque anni e casalinghe. Alle radici dell’indebita sottrazione di libri, non vi sono ragioni romantiche, come si potrebbe immaginare:  gli autori del furto, infatti, non sono intellettuali squattrinati assetati di sapere, scrittori respinti dalle case editrici o contestatori dell’industria culturale, ma nella maggior parte dei casi dei semplici individui che sperano di raggranellare qualche soldo vendendo il maltolto.
Le grandi librerie riescono, grazie a telecamere ed altri sistemi di sicurezza, a contenere il fenomeno; a farne le spese, come al solito, sono quelle medio-piccole, già in crisi per la concorrenza dei bookshop on line (ben quattromila sono state costrette a chiudere tra il 2001 e il 2007).

[fonte: Japan Times on line; foto tratta da qui]

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