Molto tempo fa viveva una fanciulla di rara bellezza: Otoyo. La ragazza era a servizio da Lord Bizen ed era anche la sua favorita. Un giorno, in compagnia di Otoyo, Lord Bizen camminò a lungo nel suo giardino ed estasiato dalle piacevoli fragranze emanate dai fiori decise di fermarsi in quel luogo fino al tramonto.
Sulla via del ritorno al castello i due non si accorsero di essere seguiti da un enorme gatto nero. Otoyo si ritirò nella sua stanza e andò a letto. Nel bel mezzo della notte, però, si svegliò e vide l’enorme gatto nero dietro di sé: spaventata da tale visione, urlò terrorizzata. Il gatto fece un balzo in direzione della fanciulla e affondò le sue zanne nella gola della sventurata, uccidendola. Dopo averla seppellita, l’animale assunse le sembianze di Otoyo e cominciò a tormentare il signore. Giorno dopo giorno Lord Bizen diventava sempre più pallido e debole senza che nessuna medicina avesse effetto alcuno sulla sua salute. Alla fine, Itoh Suneta, un servitore impavido e leale, scoprì il mistero di quel travestimento e il gatto fu costretto a fuggire in montagna. Inseguito dalla folla, venne ucciso.
Questa, che parrebbe una favola macabra come tante, è in realtà il testo di uno dei volantini americani sganciati sul Giappone dopo il bombardamento di Hiroshima. Tutto il contenuto va letto in chiave metaforica, come spiegano gli stessi compilatori: il messaggio, infatti, vuol rimandare in realtà a significati diversi da quelli manifesti, dal momento che “il gatto mostruoso rappresenta i capi militari che vi succhiano il sangue e costringono a un inutile sacrificio migliaia di giovani vite. Inoltre indeboliscono il vostro Paese perché ostacolano la distribuzione del cibo e delle forniture mediche necessarie. La fanciulla uccisa può essere paragonata al governo costituzionale la cui formazione è stata impedita dalla cricca dei capi”.
Per amore dell’imperatore e della loro stessa nazione, i giapponesi – nell’opinione degli statunitensi – avrebbero dovuto ribellarsi e spodestare i militari; peccato solo che le ragioni del conflitto mondiale e dell’intervento degli USA fossero più complesse e certamente più interessate. Molti americani, però, parvero accettare senza scomporsi troppo le spiegazioni fornite di volta in volta dal governo per arruolarsi, affrontare un nemico oltreoceano e persino morire in nome della gloriosa patria.
Per comprendere meglio questa ideologia e, soprattutto, i retroscena delle missioni atomiche, vi consiglio di leggere le testimonianze sulla seconda guerra mondiale, sotto forma di diario, raccontate da uno dei suoi protagonisti in Nagasaki per scelta o per forza (fbe edizioni, pp. 239, € 14), opera di Fred J. Olivi, copilota italo-americano a bordo del bombardiere B-29 ‘Bockscar’, noto per aver sganciato la tristemente famosa bomba atomica ‘Fat Man’ sulla città giapponese di Nagasaki, il 9 agosto 1945, tre giorni dopo quella di Hiroshima, per fiaccare una volta per tutte il Paese del Sol Levante e mettere così fine alla guerra.
Partendo dall’infanzia e dall’adolescenza vissute nel pieno della grande crisi del ’29 nei quartieri poveri di Chicago, Fred (qui nella foto a lato) ci mostra le ragioni che lo spinsero ad arruolarsi come volontario: il bisogno di racimolare un po’ di denaro, il richiamo dell’avventura, il grande desiderio di volare e, senz’altro, un sincero attaccamento alla nazione che lo aveva accolto e cresciuto. Il ragazzo, riconoscente, abbracciò in tutto e per tutto il modello del perfetto soldato americano: adorava il severo allenatore delle scuole superiori, svolgeva senza battere ciglio tutte le esercitazioni possibili, tornava appena poteva dalla famiglia per riabbracciare l’amata madre e si compiaceva per “la soddisfazione di sganciare le ‘zucche’ [bombe] sugli obiettivi”, di qualsiasi tipo essi fossero. A proposito del 15 agosto 1945 – giorno della resa incondizionata dei giapponesi e della fine del conflitto – l’uomo scrisse infatti: “Una gioia indicibile accolse quell’annuncio! Era proprio finita! Avevamo messo in ginocchio l’Impero del Sol Levante. C’erano voluti quattro anni ma alla fine, come aveva promesso il presidente Roosvelt dopo l’attacco a Pearl Harbour, la vittoria – immancabile – avrebbe premiato gli americani. […] Ero orgoglioso, veramente orgoglioso di essere americano“.
In fondo, già nella scelta del titolo si rivela molto dell’ideologia della voce narrante: se l’edizione italiana recita Nagasaki per scelta o per forza, lasciando uno spiraglio all’inelettuabilità del destino e al possibile pentimento per quanto fatto, quella originale reca Decision at Nagasaki. The Mission That Almost Failed (ossia: Decisione a Nagasaki. La missione che quasi fallì), volta invece a sottolineare in modo sottile – almeno nella mia personale opinione – la bravura dello staff che riuscì, malgrado le avversità, a sganciare le quattromila tonnellate e mezzo di Fat Man sulla città nipponica (“[…] Poveri giapponesi… Se la sono cercata, però!”, scrisse in quell’occasione Olivi). I membri dell’équipe, ritenuti al termine del conflitto degli eroi della patria, erano ben lontani da qualsivoglia etica dei kamikaze: mentre i piloti giapponesi cercavano volontariamente la morte con la speranza di giovare alla propria nazione, i colleghi americani – come leggiamo nel libro – tremavano all’idea di poter saltare in aria a causa di un ordigno esploso al momento sbagliato.
A vedere le foto in bianco e nero di questi ragazzoni in calzoncini o con la brillantina che sono stati strumenti di una volontà superiore (non divina, piuttosto economica e politica) viene da riflettere. Sarà bastato dirsi di aver fatto il proprio dovere per mettere a tacere la coscienza? E cosa avrà pensato il sergente che volava sempre con una bambola portafortuna regalatagli da una nipotina osservando le immagini dei bambini orfani, deturpati dalle radiazioni, uccisi senza ragione?
Leggendo le memorie di Olivi, non ho potuto fare a meno di pensare a un’altra pagina nera della storia degli USA, la guerra in Vietnam. Migliaia e migliaia di uomini partirono, chi per necessità, chi per servire con fedeltà il proprio paese, forse convinti che far strage di ‘charlie’ (viet-cong) fosse in fondo facile come sterminare i ‘musi gialli’. Eppure, neanche questa lezione sembra esser servita agli ancora numerosi sostenitori delle guerre (sacro)sante e allo stesso Fred J. Olivi, che inviò questo telegramma al presidente George Bush Senior nel 1991:
Signor Presidente,
in qualità di co-pilota del B29 “Bockscar” che sganciò la seconda bomba atomica su Nagasaki, mi complimento con Lei per la decisione presa di non chiedere le scuse ufficiali al Giappone per la missione atomica delle Seconda Guerra Mondiale. Sono molto lusingato per il fatto che gli sforzi dei due equipaggi, coinvolti negli attacchi che posero fine alla guerra, non furono vani.
Olivi non ricevette mai una risposta, e rimase amareggiato di ciò. Chissà se, almeno allora, ebbe il sospetto di aver sbagliato qualcosa nella sua vita.