Per definire il Novecento, Eric J. Hobsbawm ha parlato di “secolo breve”, caratterizzato da profonde trasformazioni politiche, economiche e sociali. Molte delle sue contraddizioni e, soprattutto, dei suoi nodi irrisolti sorsero però già nella seconda metà dell’Ottocento: mentre lo “spettro del comunismo” – riprendendo le parole di Marx – s’aggirava per l’Europa e i popoli (compreso quello italiano) combattevano per l’autodeterminazione, da qualche botteguccia del porto di Yokohama giunsero nel Vecchio continente migliaia e migliaia di insolite statuette, grandi poco meno d’un pugno. Erano di legno di bosso, argilla, ceramica, osso; potevano raffigurare un monaco mendicante, una tigre spaventosa e innumerevoli altri soggetti da legare alla cintola del kimono.
Molte di esse sono andate probabilmente perdute o giacciono nelle vetrine polverose di qualche museo; alcune, più fortunate, sono invece addirittura divenute protagoniste di un bel romanzo, Un’eredità di avorio e ambra (Bollati Boringhieri, pp. 398, 18 €; ora in offerta su Amazon.it cliccando qui a 15,30 €) dello studioso e ceramista inglese Edmund de Waal, che ricevette da un anziano zio materno una vera e propria collezione di  netsuke (così si chiamano questi piccoli manufatti). Attraverso il libro lo scrittore ha voluto rendere un tributo non solo alla sua famiglia d’origine, ma anche ad alcune delle epoche più sfavillanti e insieme fosche del cammino umano.

Tutto ebbe iniziò nella seconda metà dell’Ottocento, quando un ramo degli Ephrussi – i più grandi commercianti di cereali su scala planetaria – si trasferì dalla nativa Odessa nelle grandi capitali europee. Nella Ville Lumière, il giovane Charles, tanto raffinato quanto poco incline agli affari, divenne ben presto un mecenate e un arbiter elegantiae di tutto rispetto; nel bel mondo incantò anche lo scrittore Marcel Proust, che lo prese a modello per plasmare Swann, uno dei personaggi più memorabili della sua Ricerca del tempo perduto. Tra i primi ferventi sostenitori dell’impressionismo e costantemente attento a percepire nuovi fermenti artistici, Charles finì per innamorarsi ben presto del Sol Levante, in sintonia con la nascente mania del japonisme, che De Waal ci descrive magistralmente. La penna dell’autore, difatti, insegue gli appassionati della prima ora nelle loro caccie frenetiche alla ricerca di bibelot, servizi da tè e kimono; spia le ricche dame ricoprirsi di sete rare e nascondersi dietro i paraventi intarsiati per compiacere gli spasimanti; non indietreggia neppure dinanzi all’opulenza (talvolta esasperata sino al cattivo gusto) dei salotti e delle alcove pullulanti di bronzi, ceramiche, legni purché provenienti dall’estremo oriente.

A differenza dei più, Charles, esperto critico d’arte, scelse con cura persino i ninnoli e ben duecentosessantaquattro netsuke da esporre con orgoglio nelle sue stanze; a causa del mutare delle stagioni e delle mode, da curiosità esotica per rapire lo sguardo la collezione nipponica si trasformò in bislacco regalo di nozze. Le statuette finirono perciò dalla rutilante Parigi nella Vienna della Bella Epoque, dove presero parte ai giochi dei piccoli rampolli austriaci, ignari delle ondate sempre più violente di antisemitismo, che nel giro di pochi anni condussero alla tragica ascesa di Hitler. Sul calare degli anni Trenta, i potenti ed ebrei Ephrussi persero ogni bene e, soprattutto, pressoché ogni speranza: il clan si dissolse, mentre parenti e amici tentarono disperatamente di schivare la morte nei campi di concentramento o di non morire di stenti per le strade del mondo.

I netsukeemblema della magnificienza e ricordo dei giorni felici ormai trascorsi – non risplendettero più accanto ai Renoir, agli argenti e ai velluti; riposarono invece nelle tasche ingombre di un grembiule o nell’imbottitura di un vecchio materasso. E quando oramai la loro esistenza sembrava volgere al termine, ecco un nuovo, imprevedibile rovescio della sorte, pronto a catapultarli dall’altra parte del globo.

Con la sua scrittura misurata ma sempre precisa e coinvolgente, De Waal riesce egregiamente a descrivere i fasti e le miserie della vita umana, senza però fare alcun ricorso al rimpianto o a una compassione lacrimevole. Il lettore attraversa in questo modo lunghi decenni e incolmabili distanza geografiche rapito da una narrazione ricca e duttile che, a uno sguardo distratto, mirerebbe soltanto a raccontare le peripezie d’un piccolo tesoro artistico attraverso le alterne fortune di coloro che lo hanno posseduto. In realtà, il volume di De Waal è molto più di un romanzo: rivela la saga di una famiglia potente ma fragile, mostra i curiosi o tragici intrecci tra la Storia con la “s” maiuscola e le microstorie di ognuno di noi, e permette di rievocare alcune suggestive atmosfere artistiche e intellettuali. Ma sopratutto l’opera tenta di dipanare il complesso e ambivalente rapporto occidentale con il Giappone e il suo fascino esotico, dei quali l’Europa e gli Stati Uniti sono stati ripetutamente invaghiti, al punto da saccheggiare commercialmente il paese, soprattutto durante gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento e nel corso dell’occupazione americana seguita alla seconda guerra mondiale.

Al pari di mille altri oggetti, anche i netsuke sono stati a lungo uno degli obiettivi prediletti dagli intenditori o, più spesso, dai collezionisti di souvenir nipponici a buon mercato: così piccoli, curati sin nei minimi dettagli e talvolta buffi sembravano alludere loro malgrado all’immagine stereotipata e ambigua del giapponese dal fisico minuto e dal comportamento bizzarro.

Eppure, proprio fissando alcuni dei pezzi della splendida eredità di avorio e ambra di De Waal – la lepre che ci fissa pronta al balzo, l’asino piegato sotto il peso del questuante, l’intagliatore di botti dall’aspetto dimesso eppure profondamente dignitoso – ci pare di cogliere una grande lezione: forse la bellezza – a differenza di quanto riteneva Dostoevskij – non salverà il mondo, ma sa offrirci i preziosi doni della speranza e della consolazione.