Categoria: voci da occidente

“Viaggio a Tokyo” di Vincenzo Filosa

Viaggio a Tokyo - Filosa Non è un libro semplice, Viaggio a Tokyo, uno di quelli che puoi sfogliare dovunque, ché tanto l’autore e la trama sembrano quasi adattarsi a te, alla situazione del momento.

E no. Così, l’ho iniziato almeno in cinque diverse circostanze, in altrettanti posti, prima di incappare nella volta buona. Non ricordo neanche più dove fossi, forse nella sala d’aspetto dell’aeroporto o in un vagone della metropolitana solitario, perché, credo, sia meglio affrontare questo volume autobiografico di Vincenzo Filosa (dedicato al suo soggiorno in terra nipponica nel 2007) quando si è in transito, fuori dalla propria comfort zone. (altro…)

Lo sguardo curioso: i “Quaderni giapponesi” di Igort

Ci son due categorie di persone di cui sono sempre stata invidiosa: i musicisti e i disegnatori. Riescono a cogliere armonie per me ineffabili, a muoversi fra segni e simmetrie che il mio occhio o il mio orecchio non sanno afferrare. Ecco: nel caso di Quaderni giapponesi di Igort la gelosia ha punto nel vivo più che mai. Perché ogni spazio è gestito e colmato con tale incredibile esattezza da lasciare sbalorditi, e ogni dettaglio testimonia studio, amore, dedizione.

Quaderni giapponesi Igort

Etichettare il volume sotto la voce ‘graphic novel’ o ‘fumetto’ mi pare perciò riduttivo. A ogni modo, un fil rouge c’è, ben evidente: il rapporto di Igort col Paese del sol levante, avviato già negli anni Ottanta e coltivato grazie a soggiorni, letture, pellicole e incontri con autori del calibro di Taniguchi e Miyazaki. Una lunga avventura autobiografica, quindi. Ma, naturalmente, dietro c’è molto di più: e così affiorano la tensione dei colloqui di lavoro che possono cambiare una vita, la stanchezza delle notti in bianco passate a disegnare, l’attenzione per la ricchezza e la varietà delle arti figurative giapponesi, i tributi ai maestri (in primis, Hokusai a Tezuka, a cui il volume è dedicato), l’osservazione vigile e rispettosa delle pieghe della vita nipponica, …

Quaderni giapponesi Igort E’ difficile recensire un libro tale senza rischiare ogni momento di togliere, tagliare, snaturare; si perdono – letteralmente – sfumature, ombre, prospettive. Perché di Quaderni si tratta, e in quel plurale troviamo un groviglio di storie all’insegna della continuità e dela molteplicità. L’inizio dei rapporti dell’autore col Giappone, infatti, risale ormai a tre decenni fa; e questo lungo lasso di tempo è stato affollato di viaggi, pagine, visioni orientali; anche gli stimoli accumulati, d’altronde, sono diversissimi, provenienti tanto dalla cultura tradizionale quanto da quella contemporanea.

quaderni giapponesi Igort Basho
Alcuni haiku di Bashō

Come leggere, allora, quest’opera? Per me, il modo migliore è abbandonarsi al meraviglioso fluire delle immagini (che pure spesso sono inframezzate da note e commenti sulla cultura, l’arte e la letteratura giapponese), penetrare in loro intrufolandosi attraverso una macchia di colore o un particolare di poco conto. Perché lo stupore è sempre a portata di mano, e di matita.

Quaderni giapponesi Igort Tanizaki

Senso e bellezza: “Sull’ haiku” di Yves Bonnefoy

Basho Riding a Horse by Sugiyama Sanpu

Raramente capita di imbattersi in riflessioni acute sugli haiku che non siano state prodotte da studiosi di letteratura giapponese. Molti di coloro che si addentrano in questo campo senza le necessarie conoscenze finiscono, quasi inevitabilmente, per insistere sui medesimi concetti: la brevità fulminante, la vocazione zen dei versi, il carattere illuminante dell’attimo fissato per sempre…

E’ (anche) per questo che i quattro brevi saggi raccolti in Sull’haiku del poeta, critico e traduttore Yves Bonnefoy (trad. di Andrea Cocco, O barra O edizioni, 2015, pp. 92, € 15, in offerta a 12,75) mi hanno colpito. Brevi ma densissimi, i testi propongono inconsuete prospettive interpretative del genere poetico nipponico, facendo ricorso a un linguaggio suggestivo e pregnante.

E’, d’altronde, un’opera complessa, questa. (altro…)

“Treni in corsa nelle notti di Kyoto” di Patrick Holland

treni in corsa nelle notti di kyoto
“Travel of galactic railroad”, foto di Katagiri Hideyuki

Un treno e ancora un altro, una notte dopo l’altra: è in questo curioso modo che Patrick Holland vive il suo primo incontro col Giappone. Giunto qui ad agosto, nel pieno delle commemorazioni per O-bon, dal momento che nessun alloggio è più disponibile, decide di trascorrere le ore dopo il tramonto in vagone, come racconta nei primi capitoli del suo Treni in corsa nelle notti di Kyoto (trad. di Giacomo Falconi, Exorma, 2015, pp. 252, € 15,90, ora in offerta a 13,52), volume dedicato ai ricordi dei suoi soggiorni in Giappone, Cina e Vietnam.

Facendo, dunque, di necessità virtù, lo scrittore poco alla volta si lascia andare al flusso inatteso delle esistenze che si dipanano lungo e attorno i binari, finendo così per scoprire aspetti poco noti della società nipponica e, soprattutto, storie di uomini e donne che hanno forse perso tutto, tranne la dignità. (altro…)

Ritorno in Giappone: “La nostalgia felice” di Amélie Nothomb

amelie nothomb nostalgia felice518400000 secondi, 5844 giorni o, detta ancora altrimenti, sedici anni: per un tempo così lungo Amélie Nothomb, la celebre scrittrice belga, non ha messo piede in Giappone, «il paese della bellezza» che l’ha vista bambina e poi, dopo quasi due decenni, giovane alle prese con un’alienante esperienza lavorativa, descritta magistralmente in Stupore e tremori. 

Il suo rapporto con il Sol Levante è fatto di assenze, nostalgie, tormento, dolcezza e ricordi: l’adorata bambinaia Nishio-san che stende la biancheria al sole, l’odio per le onnipresenti e voraci carpe (immortalato in Metafisica dei tubi), la stupefacente gentilezza di Rinri, il fidanzato di Tokyo (cui è dedicato Né di Eva né di Adamo)…

E così, all’indomani del sisma nipponico del 2011, Amèlie decide – o, meglio, sente il bisogno(altro…)

I doni più preziosi e il segreto di “Un’eredità di avorio e ambra”

Per definire il Novecento, Eric J. Hobsbawm ha parlato di “secolo breve”, caratterizzato da profonde trasformazioni politiche, economiche e sociali. Molte delle sue contraddizioni e, soprattutto, dei suoi nodi irrisolti sorsero però già nella seconda metà dell’Ottocento: mentre lo “spettro del comunismo” – riprendendo le parole di Marx – s’aggirava per l’Europa e i popoli (compreso quello italiano) combattevano per l’autodeterminazione, da qualche botteguccia del porto di Yokohama giunsero nel Vecchio continente migliaia e migliaia di insolite statuette, grandi poco meno d’un pugno. Erano di legno di bosso, argilla, ceramica, osso; potevano raffigurare un monaco mendicante, una tigre spaventosa e innumerevoli altri soggetti da legare alla cintola del kimono.
Molte di esse sono andate probabilmente perdute o giacciono nelle vetrine polverose di qualche museo; alcune, più fortunate, sono invece addirittura divenute protagoniste di un bel romanzo, Un’eredità di avorio e ambra (Bollati Boringhieri, pp. 398, 18 €; ora in offerta su Amazon.it cliccando qui a 15,30 €) dello studioso e ceramista inglese Edmund de Waal, che ricevette da un anziano zio materno una vera e propria collezione di  netsuke (così si chiamano questi piccoli manufatti). Attraverso il libro lo scrittore ha voluto rendere un tributo non solo alla sua famiglia d’origine, ma anche ad alcune delle epoche più sfavillanti e insieme fosche del cammino umano.

Tutto ebbe iniziò nella seconda metà dell’Ottocento, quando un ramo degli Ephrussi – i più grandi commercianti di cereali su scala planetaria – si trasferì dalla nativa Odessa nelle grandi capitali europee. Nella Ville Lumière, il giovane Charles, tanto raffinato quanto poco incline agli affari, divenne ben presto un mecenate e un arbiter elegantiae di tutto rispetto; nel bel mondo incantò anche lo scrittore Marcel Proust, che lo prese a modello per plasmare Swann, uno dei personaggi più memorabili della sua Ricerca del tempo perduto. Tra i primi ferventi sostenitori dell’impressionismo e costantemente attento a percepire nuovi fermenti artistici, Charles finì per innamorarsi ben presto del Sol Levante, in sintonia con la nascente mania del japonisme, che De Waal ci descrive magistralmente. La penna dell’autore, difatti, insegue gli appassionati della prima ora nelle loro caccie frenetiche alla ricerca di bibelot, servizi da tè e kimono; spia le ricche dame ricoprirsi di sete rare e nascondersi dietro i paraventi intarsiati per compiacere gli spasimanti; non indietreggia neppure dinanzi all’opulenza (talvolta esasperata sino al cattivo gusto) dei salotti e delle alcove pullulanti di bronzi, ceramiche, legni purché provenienti dall’estremo oriente.

A differenza dei più, Charles, esperto critico d’arte, scelse con cura persino i ninnoli e ben duecentosessantaquattro netsuke da esporre con orgoglio nelle sue stanze; a causa del mutare delle stagioni e delle mode, da curiosità esotica per rapire lo sguardo la collezione nipponica si trasformò in bislacco regalo di nozze. Le statuette finirono perciò dalla rutilante Parigi nella Vienna della Bella Epoque, dove presero parte ai giochi dei piccoli rampolli austriaci, ignari delle ondate sempre più violente di antisemitismo, che nel giro di pochi anni condussero alla tragica ascesa di Hitler. Sul calare degli anni Trenta, i potenti ed ebrei Ephrussi persero ogni bene e, soprattutto, pressoché ogni speranza: il clan si dissolse, mentre parenti e amici tentarono disperatamente di schivare la morte nei campi di concentramento o di non morire di stenti per le strade del mondo.

I netsukeemblema della magnificienza e ricordo dei giorni felici ormai trascorsi – non risplendettero più accanto ai Renoir, agli argenti e ai velluti; riposarono invece nelle tasche ingombre di un grembiule o nell’imbottitura di un vecchio materasso. E quando oramai la loro esistenza sembrava volgere al termine, ecco un nuovo, imprevedibile rovescio della sorte, pronto a catapultarli dall’altra parte del globo.

Con la sua scrittura misurata ma sempre precisa e coinvolgente, De Waal riesce egregiamente a descrivere i fasti e le miserie della vita umana, senza però fare alcun ricorso al rimpianto o a una compassione lacrimevole. Il lettore attraversa in questo modo lunghi decenni e incolmabili distanza geografiche rapito da una narrazione ricca e duttile che, a uno sguardo distratto, mirerebbe soltanto a raccontare le peripezie d’un piccolo tesoro artistico attraverso le alterne fortune di coloro che lo hanno posseduto. In realtà, il volume di De Waal è molto più di un romanzo: rivela la saga di una famiglia potente ma fragile, mostra i curiosi o tragici intrecci tra la Storia con la “s” maiuscola e le microstorie di ognuno di noi, e permette di rievocare alcune suggestive atmosfere artistiche e intellettuali. Ma sopratutto l’opera tenta di dipanare il complesso e ambivalente rapporto occidentale con il Giappone e il suo fascino esotico, dei quali l’Europa e gli Stati Uniti sono stati ripetutamente invaghiti, al punto da saccheggiare commercialmente il paese, soprattutto durante gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento e nel corso dell’occupazione americana seguita alla seconda guerra mondiale.

Al pari di mille altri oggetti, anche i netsuke sono stati a lungo uno degli obiettivi prediletti dagli intenditori o, più spesso, dai collezionisti di souvenir nipponici a buon mercato: così piccoli, curati sin nei minimi dettagli e talvolta buffi sembravano alludere loro malgrado all’immagine stereotipata e ambigua del giapponese dal fisico minuto e dal comportamento bizzarro.

Eppure, proprio fissando alcuni dei pezzi della splendida eredità di avorio e ambra di De Waal – la lepre che ci fissa pronta al balzo, l’asino piegato sotto il peso del questuante, l’intagliatore di botti dall’aspetto dimesso eppure profondamente dignitoso – ci pare di cogliere una grande lezione: forse la bellezza – a differenza di quanto riteneva Dostoevskij – non salverà il mondo, ma sa offrirci i preziosi doni della speranza e della consolazione.

Nuove note per antiche parole: intervista a Ramona Ponzini

Un tranquillo pomeriggio di settembre, davanti al computer, a scrivere. Distrattamente, apro l’ennesima pagina del browser e clicco su un link. D’improvviso, la stanza si riempie di una musica strana, nuova, che non ho mai sentito prima. Campanelli, versi giapponesi, una melodia avvolgente e, al tempo stesso, distante, antica.
Ho appena conosciuto Ramona Ponzini e la sua bellissima voce, e ancora non lo so.

Quello che mi è parso un canto remoto, eppure vivo nella carne e nelle sonorità, proviene in effetti dal passato. A partire dal 2004 Ramona ha sviluppato insieme ai My Cat Is An Alien (Maurizio and Roberto Opalio) il progetto Painting Petals On Planet Ghost (PPOPG; http://www.mycatisanalien.com/PPOPG.htm), volto a scoprire e sperimentare le potenzialità musicali della poesia giapponese, sposandole a contaminazioni inattese.

I sorprendenti risultati sono racchiusi in tre album, il primo dei quali, Haru (Time-Lag Records; vedi sopra la copertina), del 2005, s’ispira ai versi e alla letteratura dell’epoca Heian (794-1185), ed in modo particolare a una delle più antiche antologie poetiche giapponesi, il Kokinshū (Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne); non manca un tributo al celebre incipit del Makura no Sōshi (Note del guanciale) di Sei Shōnagon.

Nel 2008 è il turno di Fallen Cammellias (A silent place), che riprende alcuni tanka (composizioni liriche strutturate in 5-7-5-7-7 sillabe) della poetessa primonovecentesca Yosano Akiko, attingendo soprattutto alla raccolta Midaregami. L’anno dopo, in Haru no omoi (PSF Records; qui a destra la copertina), vengono riuniti alcuni brani estratti dai dischi precedenti, con l’aggiunta di due pezzi inediti, ancora una volta ispirati ai tanka di Yosano Akiko.

Ramona Ponzini non si ferma qui, e collabora anche con artisti quali Z’EV e Lee Ranaldo dei Sonic Youth, eseguendo in giapponese ― sua lingua musicale ed artistica d’elezione ― improvvisazioni live e testi da lei composti, come nel caso dell’album Ankoku.

Oggi sono felice di poterla intervistare e di scoprire qualcosa di più riguardo le sue interessanti ricerche. Prima di leggere il seguito dell’articolo, vi suggerisco di ascoltare qualcuno dei brani presenti in http://paintingpetalsonplanetghost.bandcamp.com.

Biblioteca giapponese (d’ora in poi Bg): Innanzitutto, Ramona, ti ringrazio per la disponibilità. Alla tua giovane età hai già all’attivo importanti traguardi (una laurea coronata da una tesi sugli esordi letterari della poetessa Yosano Akiko; collaborazioni di valore con numerosi artisti; interventi sul tuo lavoro pubblicati negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Giappone…). Oltre che alla tua bravura, naturalmente, una parte del tuo successo è legata al progetto Painting Petals On Planet Ghost: puoi raccontarci come è nata l’idea di battere nuove strade attingendo alla poesia giapponese?

Ramona Ponzini (d’ora in poi RP): Il progetto Painting Petals on Planet Ghost nasce dopo anni di interazione sinergica tra me e i My Cat Is An Alien. Ho conosciuto i fratelli Opalio nel 2001 e sono rimasta subito affascinata dal loro approccio anticonvenzionale alla musica e all’arte in generale. All’epoca mi occupavo di teatro sperimentale ma ho seguito costantemente i loro concerti, tenuto sott’occhio le innumerevoli uscite e dopo qualche anno è iniziato il nostro sodalizio artistico. Painting Petals on Planet Ghost scaturisce dall’esigenza di coniugare l’anima più lirica e melodica dei MCIAA con il lavoro di ricerca da me condotto, e che ancora sto conducendo, sulla poesia giapponese come fonte privilegiata di testi musicabili. Il punto di partenza sono proprio le liriche in giapponese: di solito seleziono i testi, li traduco per i ragazzi affinché possano comprendere il motivo che mi ha spinto a scegliere determinate liriche, nonché il loro significato, poi passiamo a concentrarci all’unisono sulla musicalità intrinseca della lingua e della metrica delle poesie per poter creare quel tessuto sonoro che viene a costituirsi quale perfetta culla per i testi e  le melodie.

Bg: Cosa pensi che i versi giapponesi possano comunicare oggi agli ascoltatori occidentali, tanto più che essi sono spesso digiuni di poesia nipponica?

RP: Painting Petals on Planet Ghost rappresenta il punto di congiunzione tra il mio lavoro di studiosa della lingua e della letteratura del sole levante e la mia personalità artistica: parafrasando Joan La Barbara, in quanto musicista mi occupo dei “suoni come presenza fisica”, li scolpisco attraverso la voce, e lascio che il flusso dei pensieri e la visualizzazione dei gesti sonori portino alla creazione del risultato finale. Credo fortemente che non sia sempre essenziale per il fruitore di musica capire alla lettera il testo di una canzone: l’essenza del mio lavoro risiede nel tentativo di far scoprire all’ascoltatore la funzione di base della voce come primario mezzo di espressione. PPOPG è un progetto che rispecchia una fuga verso l’interiorità più delicata e poetica, uno scavo intimista che lascia spazio alla pura catarsi: la musicalità che scaturisce dalla lingua giapponese sotto forma di poesia ne è il mezzo sublime.

Bg: All’inizio del ventesimo secolo, Yosano Akiko era ritenuta una poetessa trasgressiva e una donna fuori dal comune: pioniera del femminismo, anti militarista e scrittrice estremamente prolifica. Come mai hai voluto ispirarti a lei per il tuo album Fallen Cammellias e per la realizzazione di altri brani?

RP: Sin dal liceo (ma anche all’università), scorrendo l’indice delle varie antologie letterarie, mi sono sempre chiesta come mai queste fossero così digiune di nomi femminili. Era davvero possibile che i più grandi autori delle più grandi opere fossero esclusivamente uomini? Così ho iniziato a cercare, ad andare oltre quelli che erano i programmi scolastici e ho scoperto Gaspara Stampa, Elsa Morante, Amalia Guglielminetti, Kate Chopin, Simone de Beauvoir, Virginia Woolf, Jane Austen, Emily Brontë, Sylvia Plath, Murasaki Shikibu, Yosano Akiko, per citare solo alcuni nomi. Credo sia dovere di ogni donna leggere, innanzitutto, Una stanza tutta per sé della Woolf e Il secondo sesso di  Simone de Beauvoir, ma principalmente indagare e scoprire che anche noi abbiamo lasciato un segno indelebile nella storia dell’arte, di tutte le arti, dalla poesia alla pittura, dalla musica al cinema; la nostra funzione creativa non si espleta solo nel mettere al mondo dei bambini, non può bastarci e in realtà non ci è mai bastato (anche se vogliono farci credere il contrario). Un esempio su tutti: Yosano Akiko, per l’appunto. Ha cresciuto undici figli eppure è una delle più grandi poetesse del ventesimo secolo.

Bg: Ascoltando i tuoi pezzi si rimane colpiti dalla sensazione di essere proiettati in una dimensione senza tempo; la ragione forse sta nell’aver sposato dei testi poetici – talvolta secolari – a sonorità nuove. Inserire questi versi in un tessuto musicale contemporaneo è un modo per tentare di renderli più attuali e dunque maggiormente apprezzabili anche dal pubblico?

RP: Credo che il nocciolo della questione risieda nella natura stessa della musica in quanto arte: l’Arte per eccellenza, secondo Nietzsche, il punto di sutura tra l’Uomo e il Dionisiaco.
In Musica e parola il filosofo ha sostenuto: “Mettere la musica completamente al servizio di immagini, e di concetti, utilizzarla come mezzo allo scopo di dar loro forza e chiarezza, questa è la strana arroganza del concetto di “opera”; (…) Perché la musica non può mai diventare un mezzo anche se la si vessa, se la si tormenta; come suono, come rullo di tamburo, ai suoi livelli più rozzi e più semplici essa supera ancora la poesia e la abbassa ad un proprio riflesso. (…) Certamente la musica mai può diventare mezzo al servizio del testo, ma in ogni caso supera il testo; diventa dunque sicuramente cattiva musica se il compositore spezza in se medesimo ogni forza dionisiaca che in lui prende corpo, per gettare uno sguardo pieno d’ansia sulle parole (…).”
Volendo bilanciare quelli che sono i due elementi del contendere, reputo che l’interazione sinergica, nonché paritaria, tra musica e poesia faccia sì che il testo poetico arrivi all’ascoltatore in maniera più immediata e viscerale, fino a toccare le corde più profonde dell’anima.

Bg: Oltre ad essere una bravissima cantante, sei certamente un’amante della letteratura giapponese: quali opere e autori ami, escludendo i testi e gli artisti su menzionati?

RP: La lista potrebbe essere molto lunga! Per dovere di cronaca credo sia giusto partire da quelle che sono state le mie letture al liceo: Yoshimoto Banana, in un primo tempo, e poi Kawabata Yasunari e Tanizaki Jun’ichirō. Tanikazi ha segnato profondamente la mia formazione letteraria, in particolare i primi racconti brevi, quali Shisei (Il tatuaggio) e Shōnen (Adolescenti), ma soprattutto opere come Bushūkō hiwa (Vita segreta del signore di Bushū) e Hakuchū kigo (Morbose fantasie), con la loro “estetica della crudeltà” continuano ad essere un’inesauribile fonte di stimoli e d’ispirazione. Rischio di essere scontata ma non posso non citare Mishima Yukio con Kinkakuji (Il padiglione d’oro), Tayō to tetsu (Sole e acciaio) e Eirei no koe (La voce degli spiriti eroici). Potrei mai omettere Murasaki Shikibu e il Genji monogatari? No. Categoricamente impossibile. Sarà sempre una delle più grandi opere della letteratura mondiale, non solo giapponese.

Bg: Rimanendo in tema: c’è qualche opera o qualche scrittore cui vorresti rivolgere le tue attenzioni musicali in futuro? Quali progetti hai in cantiere?

RP: Al momento sto lavorando sulle liriche di Takamura Kōtarō: è in uscita proprio in questi giorni un vinile intitolato Transaparent winter, per l’etichetta inglese Blackest Rainbow, che presenta due pezzi ispirati ai testi del poeta dell’epoca Shōwa, ma rielaborati e dilatati, frutto di un lavoro di improvvisazione e composizione istantanea che catapulta le sonorità tipiche di PPOPG in una dimensione più sperimentale rispetto ai primi tre album.
Il 23 novembre parteciperò insieme ai MCIAA e allo scrittore inglese Ken Hollings (autore di Benvenuti su Marte) ad uno show radiofonico alla londinese Resonance: il titolo della performance è ‘Ghost Blood Spectrum’ e per l’occasione selezionerò delle liriche giapponesi incentrate su quella che definisco “l’estetica del sangue”. Il 25 novembre sarò in concerto con Painting Petals On Planet Ghost al Cafe OTO di Londra, venue di culto per la musica sperimentale contemporanea (http://cafeoto.co.uk/my-cat-is-an-alien.shtm).

Bg: Grazie ancora, Ramona, e in bocca al lupo per i tuoi progetti.

Il giornalista americano che sfidò la yakuza: “Tokyo Vice” di Jake Adelstein

«Un libro fantastico. Con umorismo sardonico e stile hardboiled, Adelstein accompagna il lettore in un viaggio appassionante nel mondo del crimine giapponese, esaminando i rapporti spesso ambigui tra giornalisti, poliziotti e gangster». Così George Pelecanos, significativo scrittore noir statunitense, ha commentato Tokyo Vice di Jake Adelstein (Einaudi, pp. 466, € 19,50), volume da poco uscito in Italia e ispirato a una storia vera dalle tinte forte. Questa la presentazione dell’editore:

La storia di Jake Adelstein, per dodici anni, dal 1993 al 2005, cronista di nera per lo «Yomiuri Shimbun», il piú grande quotidiano del Giappone, e dal 2005 al 2007 investigatore capo del Dipartimento di Stato americano e responsabile di una colossale inchiesta sul traffico di donne nel Sol Levante.
Un’indagine rigorosa sul crimine organizzato giapponese, tra estorsioni, sfruttamento della prostituzione, collusioni con la politica. E il resoconto emozionante delle vicende che hanno portato Adelstein a incrociare le armi con uno dei piú grandi boss della yakuza fino a rischiare la vita (al punto di entrare per piú di un anno nel programma protezione testimoni).
Un libro indispensabile per comprendere l’anima nera del Giappone, ma anche per penetrare nei meccanismi piú reconditi del crimine, e scoprirli vicini, a volte fin troppo simili a quelli di casa nostra.

Un Giappone color seppia: “L’uccello nero del Sol Levante” di Paul Claudel

All’inizio del secolo scorso, raggiungere il Giappone si profilava un’impresa ardita, che richiedeva settimane di viaggio e una grande determinazione. Buona parte dei coraggiosi si spinsero fino ai confini del mondo soltanto per ragioni economiche; nello sparuto gruppo dei curiosi – che pur esisteva ed aveva una sua dignità – figurava anche Paul Claudel, poeta, drammaturgo e diplomatico francese, che dalla fine del 1921 sino quasi alla primavera del 1927 risiedette (con qualche interruzione) nel Sol Levante, in veste di ambasciatore.
Nato nel 1868 – l’anno che inaugurò l’era Meiji e il rapido processo di modernizzazione -, Claudel giunse in Giappone ormai maturo, dopo aver risieduto e lavorato in molte nazioni; ciò gli permise di guardare alla cultura nipponica con un’ampiezza di vedute certamente poco comune all’epoca, come ben testimoniano i numerosi saggi raccolti ne L’uccello nero del Sol Levante (a cura di Maria Antonietta Di Paco Triglia, ed. il Cerchio, pp. 148, € 15).
In queste pagine trovano ospitalità gli argomenti più disparati, in grado di far breccia nella vita e nell’animo dello shijin taishi (il diplomatico-poeta, come veniva chiamato): e così ci si avventura tra le cronache dei solenni funerali dell’imperatore o fra quelle della devastazione, fisica ed emotiva, provocata dal terremoto di Tokyo del settembre 1923; si rimane incantati dalle affascinanti leggende degli autoctoni e dalla poesia nipponica, allora semisconosciuta in Europa. E ancora: si riflette sulla politica, la letteratura, l’antropologia e le forme di devozione locali, tanto differenti da quelle del cattolicissimo Claudel. Una consistente parte degli scritti raccolti nel volume, infine, è dedicata ad uno dei più grandi amori dell’autore, il teatro: i principali espedienti narrativi, scenici e drammatici del kabuki, del e del bunraku vengono analizzati con acume e vivo interesse.
Lo sguardo dell’autore d’oltralpe vaga qua e là per l’orizzonte giapponese, riuscendo a cogliere i tratti salienti dei fenomeni, per portarli poi alla luce con sincera ammirazione attraverso una prosa ricca e suggestiva, capace di fecondare la fantasia del lettore, sino a farlo immergere nel Giappone fantasmagorico e nostalgico dei lontani anni Venti.

Voci da occidente: “Mizumono” di Francesca Scotti

Tutti coloro che si cimentano nello scrivere del Giappone (così come di qualunque paese lontano) rischiano spesso di infrangere la sottile soglia che distingue la fascinazione per l’Altro da un esotismo autoreferenziale; per questa ragione, leggendo alcuni testi – seppur piacevoli o fondati su ottime intenzioni – si ha purtroppo l’impressione che il punto di registrazione della realtà nipponica (sociale, storica, percettiva, etc.) sia inevitabilmente esterno a essa e permeabile a infiltrazioni estetizzanti o esterofile, nonché a stereotipi e pregiudizi.
Al contrario, tutta la raccolta Mizumono di Francesca Scotti (ed. Il Robot adorabile, arricchita da una bellissima tempera di Adalberto Borioli) mi è parsa bisbigliata da un angolo in penombra dello stesso Giappone, un cantuccio intimo e silenzioso, in comunicazione però con un universo sottile e poetico, a tratti surreale, mai sconfinante nell’onirismo solipsistico.
Ciascuno dei tre brevissimi racconti che compongono l’opera (consultabili qui, nel sito del nuovo libro dell’autrice, Qualcosa di simile) getta uno sguardo su un (non) luogo diverso in cui scorre l’esistenza lieve di un microcosmo senza tempo, scandita da un linguaggio minimo ed esatto, capace di far affiorare con naturalezza le parole dalla superficie della pagina.
La continuità fra brano e titolo fa sì che la narrazione scorra via in un respiro, fondendo insieme la dimensione testuale con quella extratestuale in cui si muove il lettore, letteralmente imprigionato nelle maglie della storia. E così ci smarriamo anche noi nella folla festante di un matsuri, tra incensi e fuochi d’artificio, spettatori impotenti di una piccola tragedia; i nostri piedi si bagnano nelle acque grigie e calde d’un villaggio di pescatori di granchi, mentre i nostri passi già si perdono in un quartiere dimenticato d’una città qualunque, per attraversare l’eternità con un Daruma.

Tutti coloro che si cimentano nello scrivere del Giappone (così come di qualunque paese lontano) rischiano spesso di infrangere la sottile soglia che distingue la fascinazione per l’Altro da un esotismo autoreferenziale; per questa ragione, leggendo alcuni testi – seppur piacevoli o fondati su ottime intenzioni – si ha purtroppo l’impressione che il punto di registrazione della realtà nipponica (sociale, storica, percettiva, etc.) sia inevitabilmente esterno a essa e permeabile a infiltrazioni estetizzanti o esterofile, nonché a stereotipi e pregiudizi.
Al contrario, tutta la raccolta
Mizumono di Francesca Scotti (ed. Il Robot adorabile, arricchita da una bellissima tempera di Adalberto Borioli) mi è parsa bisbigliata da un angolo in penombra dello stesso Giappone, un cantuccio intimo e silenzioso, in comunicazione però con un universo sottile e poetico, a tratti surreale, mai sconfinante nell’onirismo solipsistico.
Ciascuno dei tre brevissimi racconti che compongono l’opera (consultabili qui, nel sito del nuovo libro dell’autrice,
Qualcosa di simile) getta uno sguardo su un (non) luogo diverso in cui scorre l’esistenza lieve di un microcosmo senza tempo, scandita da un linguaggio minimo ed esatto, capace di far affiorare con naturalezza le parole dalla superficie della pagina.
La continuità fra brano e titolo fa sì che la narrazione scorra via in un respiro, fondendo insieme la dimensione testuale con quella extratestuale in cui si muove il lettore, letteralmente imprigionato nelle maglie della storia. E così ci smarriamo anche noi nella folla festante di un matsuri, tra incensi e fuochi d’artificio, spettatori impotenti di una piccola tragedia; i nostri piedi si bagnano nel
le acque grigie e calde d’un villaggio di pescatori di granchi, mentre i nostri passi già si perdono in un quartiere dimenticato d’una città qualunque, per attraversare l’eternità con un Daruma.

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. Maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi