Categoria: recensioni

“Doll” di Yamashita Hiroka

copertina del romanzo Doll di Yamashita Hiroka
Spregiudicato, graffiante, caustico: Doll è un romanzo che mette totalmente in discussione l’immagine edulcorata e soffusa che abbiamo del passaggio dall’infanzia alla pubertà. 
 
In quest’opera di Yamashita Hiroka che le è valso, giovanissima, il premio Bungei (ora tradotta e curata da Valentina Franchi per Atmosphere, 2020, pp. 180, € 16), l’adolescente Yoshizawa è in rotta con tutto il suo mondo: i rapporti con la famiglia sono superficiali e privi di sentimento, quelli con i suoi coetanei caratterizzati per lo più da tensioni, aggressività e confuse pulsioni di ogni genere.
 
Bullizzato, senza amici, ignorato dalle ragazze a cui pure si interessa, Yoshizawa filtra la realtà attraverso il suo​​ corpo e, in particolare modo, la sua sessualità, il cui oggetto privilegiato sono da sempre le bambole. 
 
Yuriko, una love doll che custodisce con grande cura, è la sua preferita: con lei tenta di instaurare una goffa relazione affettiva, che comprenda tanto la condivisione della quotidianità quanto la scoperta della propria fisicità. 
 
Volevo prendermi cura di lei, dare tempo al tempo. Forse non sarebbe servito a molto, ma avrei aspettato. Era la cosa più adorabile che avessi mai visto. Bellissima, oltre ogni misura. Ancora non sapeva nulla. Di me, o del mondo. Forse era proprio la sua purezza a renderla così incantevole. La realtà avrebbe compromesso questo suo nonsoché. Ciò nonostante volevo che facesse le sue esperienze. Che venisse a conoscenza di me e del mondo. Volevo rimuovere attentamente, strato dopo strato, ogni membrana sottile e invisibile che ricopriva i suoi occhi. (p. 18)
 
È lo stesso Yoshizawa a raccontarci tutto questo, con parole semplici, acerbe ma disarmanti per il loro carattere esplicito: l’età dell’innocenza è definitivamente tramontata. 

Il gusto delle storie: “La taverna di mezzanotte” di Abe Yarō

Ognuno di noi conosce un posto così – un locale dimenticato dalle guide stellate, alla buona, che non dà nell’occhio. Eppure, sono proprio i luoghi di tal genere quelli in cui succede qualcosa degno di esser raccontato: La taverna di mezzanotte. Tokyo stories di Abe Yarō ce lo dimostra.

Il manga è probabilmente già noto a molti per esser stato trasposto in una serie di successo prodotta da Netflix e disponibile anche per il pubblico italiano (Midnight Diner – Tokyo Stories). Bao Publishing ha di recente pubblicato il primo volume (ed è in arrivo il secondo) nella traduzione di Prisco Oliva, che raccoglie ben trenta brevi storie autoconclusive dal tratto deciso e sottilmente ironico, ciascuna delle quali ispirate a un diverso piatto della tradizione giapponese preparato, appunto, nella Taverna di mezzanotte, un piccolo ristorante di poche pretese aperto solo nelle ore notturne.

Protagonisti sono un oste alla mano e commensali di ogni tipo (escort, membri della yakuza, cantanti di nicchia, spogliarelliste romantiche, ladri, poliziotte…), fra i quali scoccano colpi di fulmini, nascono improbabili amicizie, si accendono discussioni, sgorgano confessioni intime: qualunque cosa può venir fuori con naturalezza attorno al tavolo, se un paio di orecchie stanno a ascoltare con attenzione.

“Ribon messaggero d’amore” di Ogawa Ito

Che sia destinato a essere una creatura eccezionale pare già scritto nella sua nascita: quanti uccellini possono vantarsi di esser nati nello chignon di una cantante ritirata dalle scene tanto stravagante quanto di buon cuore e poi accuditi da una bambina premurosa? Il suo stesso nome, Ribon – “nastro” – simboleggia il legame indissolubile fra le due, nonna e nipote.

Ribon è un pappagallo calopsitta: non solo possiede una bellezza peculiare, ma anche la rara dote di portare serenità, gioia e speranza a chi lo accoglie. Ogawa Ito ci racconta le sue avventure in Ribon (trad. Gianluca Coci, Neri Pozza, 2020, pp. 288, € 18), un romanzo intriso di dolcezza, in cui si alternano le voci di coloro che, per loro fortuna, hanno incrociato la bestiola sulla loro strada.

Non importa che si tratti di una donna ormai vicina alla morte, di una mamma che ha perso il figlio o di un ragazzo che ancora soffre per la perdita del suo animale preferito avvenuta molti anni prima: Ribon sa seminare in tutti e tutte, in modo naturale, un sorriso e regalare attimi di pura tenerezza.

Come accade anche in altre opere di Ogawa Ito (in primis, nel Ristorante dell’amore ritrovato), il cibo ha un ruolo fondamentale in ciò: prima ancora di prendere la forma di succulenta pietanza o rapido spuntino, è comfort food, alimento per l’anima, occasione di scambio profondo fra coloro che siedono assieme a tavola.

Il dono di Ribon, in fondo, sta proprio in questo: aiutare a scoprire il fascino della semplicità e di chi ci sta vicino, così come “i marshmallow arrostiti, […] la magnolia in fiorr e mille altre cose belle della vita” (p. 192).

“Trent’anni di Barazoku” di Loris Usai

Buon gusto, audacia, fiuto commerciale, desiderio di dar spazio a voci e personaggi sino ad allora spesso relegati nell’ombra: all’origine di Barazoku (letteralmente, “la tribù delle rose”), pioneristica rivista giapponese per omosessuali fondata nel 1971 e attiva sino al 2004, c’è questo e molto di più.

Ci sono, innanzitutto, la volontà di sfidare le convenzioni e abbattere delle barriere nutrita da Itō Bungaku, il suo ideatore, che se ne prese cura sino al 2008, come da lui programmaticamente dichiarato poco prima della comparsa del primo numero:

Per un futuro un po’ più luminoso, e quindi per delle prospettive di vita anche per gli omosessuali, desidero che, almeno un po’, i pregiudizi della gente diminuiscano. (p. 58)

Loris Usai, traduttore e interprete dal giapponese, ben conosciuto per il suo profilo Instagram in cui condivide notizie e scatti dalla sua vita a Tōkyō, ha descritto in modo puntuale e appassionato la storia della pubblicazione nel suo Trent’anni di Barazoku. Il ruolo della rivista nella formazione di una comunità omosessuale in Giappone (2020).

copertina della rivista barazoku

Oltre a fornire elementi utili per ricostruire la storia dell’omosessualità maschile in Giappone dall’era Tokugawa sino al secondo dopoguerra (periodo, questo, in cui l’amore fra uomini non era legalmente perseguito, ma i preconcetti a livello generale persistevano), l’autore ci accompagna fra le pagine di Barazoku mostrandoci tutta la complessità di una rivista che non si proponeva solo di stuzzicare i sensi, ma anche di informare i suoi lettori (con contributi di medicina, fotografia, attualità, storie autobiografiche…) e permettere loro di incontrarsi per stabilire rapporti di amicizia, amore, sesso.

Il saggio è arricchito da una corposa sezione finale che raccoglie numerosi testi tratti da Barazoku (in lingua originale) e presenta un’intervista fatta da Usai a Bungaku nel 2012 (in giapponese e italiano), in cui l’editore ribadisce (con orgoglio) le ragioni per le quali lui e la sua squadra hanno segnato in senso positivo il panorama culturale e sociale nipponico:

[…] in quel periodo [anni ’70] non esisteva una vera e propria comunità e per questa ragione quasi tutti pensavano di essere anormali. Io continuavo a ribadire che l’omosessualità non era né anormale né perversa, e che era necessario uscire sempre più allo scoperto a testa alta. Perciò penso sicuramente che la rivista abbia svolto una funzione di sostegno. (p. 207)

“Le storie del negozio di bambole” di Tsuhara Yasumi

I suoi occhi sono fermi ma ben aperti, il suo sorriso cristallizzato per sempre, come in un eterno gesto di benevolenza: una bambola sembra non conoscere stagioni, né cambiamenti di umori o di affetti. Ma il mondo attorno a lei vive e patisce i segni del tempo: la bimba che stringeva fra le braccia il giocattolo si è fatta grande, l’infanzia ha lasciato dietro di sé una scia di nostalgia.

Tsuhara Yasumi lo sa bene e nelle sue Storie del negozio di bambole (trad. Massimo Soumaré, Lindau, 2020) ce lo mostra con sapienza. Nei sei racconti che compongono, intrecciandosi, questa raccolta, la bottega Tamasaka della giovane Mio – quella che, naturalmente, dà titolo al libro – è ben più di un semplice luogo in cui si riparano balocchi o si riportano all’antico splendore pezzi da collezione.

È, in fondo, sotto mentite spoglie, un centro di riabilitazione emotiva per persone adulte e bambine che cercano disperatamente simboli, che sono alle prese con sentimenti rimasti impigliati in un oggetto, come la signora che sembra lei stessa una bambola. E chi lavora al negozio – Mio, Tominaga e Shimura – non è da meno. Ciascuno di loro è arrivato dietro quel bancone forse per caso, forse per destino: sempre, però, con una ragione.

Allora come non pensare che “Le marionette siamo noi, il palco sono i luoghi della vita di tutti i giorni, le bugie sono la verità, il sogno è la realtà…” (p. 129)?

“Per un’introduzione sugli Emaki” di Marco Milone

Sanno raccontare amori, conflitti, devozione con un linguaggio fatto di dettagli e colori: sono gli emaki, anche noti come emakimono, ossia rotoli che, attraverso una serie di illustrazioni o una combinazione di testi e immagini, narrano una storia.

Se le loro radici affondano in Cina, India e Corea, queste opere si svilupparono però pienamente in Giappone già nell’era Heian (794–1185) grazie all’impulso dello yamato-e, uno stile pittorico  affermatosi in quest’epoca, come ci spiega Marco Milone nel suo recentissimo Per un’introduzione sugli emaki (Mimesis, 2020, pp. 182, € 16).

Il volume intende avvicinare i lettori italiani a tali manufatti in maniera sintetica e chiara tracciandone la storia, descrivendone le correnti e le tecniche principali, fornendo numerosi esempi che spaziano dai già nominati primordi sino al periodo Meji (1868-1912). Non mancano neppure necessari e utili raffronti con la Cina, destinati a mettere meglio a fuoco le peculiarità degli emaki. Come spiega Milone:

se infatti i rotoli cinesi avevano principalmente lo scopo di illustrare i principi trascendentali del buddismo e paesaggi sereni, suggerendone la grandezza e la spiritualità, quelli giapponesi, invece, concentreranno la loro attenzione sulla vita quotidiana e sull’uomo, trasmettendo dramma, umorismo e romanticismo, e traendo ispirazione dalla letteratura, dalla poesia, dalla natura e soprattutto dalla vita quotidiana, forgeranno una nuova arte intima, a volte in contrapposizione alla ricerca della grandezza spirituale cinese. (19)

ise monogari emaki
Una scena tratta dall’emaki dell’Ise monogatari

Non a caso, anche capolavori della letteratura giapponese, quali lIse monogatari o il Genji monogatari, furono trasformati in emaki.

Il libro di Milone ci conduce, dunque, all’esplorazione di questo affascinante universo artistico, in cui l’incanto degli occhi si sposa con maestria all’affabulazione.

“L’ultimo volo per Tokyo” di Hayashi Mariko

Hayashi Mariko l'ultimo volo per tokyoSono pragmatiche, passionali, a volte spigolose o insicure; hanno problemi sentimentali, un’agenda piena di scadenze, segreti, un biglietto aereo o ferroviario sempre in tasca, e si adoperano senza sosta per raggiungere i loro obiettivi o colmare le loro mancanze: tutte le protagoniste de L’ultimo volo per Tokyo somigliano a una nostra amica, sorella, conoscente o, addirittura, a noi stesse.

Composta da cinque racconti scritti fra il 1984 e il 1985, questa raccolta di Hayashi Mariko ha finalmente visto da poco la luce anche in Italia grazie a Atmosphere libri e alla traduttrice Anna Specchio, che ha inserito nel volume una sua ricca postfazione sulla condizione delle donne e la letteratura femminile sul finire del Ventesimo secolo e una sua intervista a Hayashi Fumiko.

Le donne presentate nei racconti ci presentano un Giappone nel pieno degli anni Ottanta in parte diverso da quello a cui il nostro immaginario (condizionato dall’orientalismo) ci ha abituato. Le figure remissive da “buone mogli e sagge madri” (ryōsai kenbo) o quelle intriganti dall’esotico fascino di geisha lasciano, infatti, il posto a giovani che amano i piaceri della vita (dal sesso alla buona cucina), cercano di realizzarsi professionalmente attraverso la scrittura, rifiutano di adattarsi in toto alle aspettative, comprese quelle degli uomini.

Hayashi le ritrae in presa diretta, senza drammi o chiaroscuri; ci sono, sì, dubbi e timori, ma questi non sono sufficienti a scoraggiarle o a intaccare i loro progetti. Che si tratti di voltare le spalle a un vecchio amante o rischiare il tutto per tutto a favore della propria carriera, queste donne proseguono per la loro strada, costruendola loro stesse, giorno per giorno, talvolta con un pizzico di malinconia in più, ma mai sconfitte.

“Love my life”, un manga di Ebine Yamaji

È estroversa, ottimista, determinata a raggiungere i suoi obiettivi: a soli diciotto anni Ichiko sembra avere le idee chiare quasi su tutto, specie sui suoi sentimenti per Eri, la sua compagna, poco più grande di lei, con la quale condivide ogni cosa, dalle piccole gioie quotidiane alle faccende più spinose.

Proprio dal rapporto con lei nasceranno i più grandi interrogativi di Ichiko, a partire dalla famiglia in cui è cresciuta: quali forme può prendere l’affetto e perché? La vita dovrebbe esser sempre improntatata alla coerenza, o altro conta di più? E cosa significa esser se stess*?

Nel manga Love my life (trad. Susanna Scrivo, 2019), pubblicato in unico volume da Dynit Manga, Ebine Yamaji esplora alcune possibili risposte a queste domande dalla prospettiva di una coppia lesbica che si confronta tanto con le difficoltà di fare coming out quanto con le responsabilità dell’età adulta, legate a questioni quali la scelta del lavoro, la volontà di costruire una relazione solida nonostante gli ostacoli, il bisogno di rendersi autonomi dai propri genitori.

Malgrado la complessità dei temi, Ebine Yamaji presenta questi in maniera immediata e fresca, senza moralismi e, soprattutto, senza compromettere la bellezza acerba, l’intensità e la tenerezza delle storie d’amore, amicizia e complicità che si dipanano fra le pagine.

#20peril2020: “Il paese dei suicidi” di Yū Miri

Yu Miri - Paese dei suicidi

“La vita [è] piena di buchi e crepe”: è questo che Mone pensa. Adolescente, sola seppur circondata da amiche e parenti, percepisce in modo confuso ma intenso il carattere disfunzionale di ciò che la circonda. Le relazioni con le coetanee sono superficiali, quelle con la famiglia basate su bugie e omissioni reciproche; il sistema scolastico, con lo spettro del fallimento sempre in agguato, schiaccia la ragazza; la situazione post-Fukushima, con la società e la politica lacerate, la disorienta.

Mone è in dubbio se continuare a vivere – o, perlomeno, se vivere un’esistenza scandita dai litigi dei genitori e dalle uscite con compagne che, in fondo, non l’apprezzano -, ma non sa come, né perché. E così si avvicina al forum virtuale Ricette per principianti, in cui un gruppo di sconosciuti progetta assieme la morte. Quel che sogna la teenager è, infatti, esser

Senza preoccupazioni.
Poter parlare senza preoccupazioni.
Poter andare senza preoccupazioni.
Poter morire senza preoccupazioni.

Ne Il paese dei suicidi (a cura di Laura Solimando, Atmosphere libri, 2020), uscito nel 2011, all’indomani del terremoto del Tōhoku e dell’incidente di Fukushima, attraverso la quotidianeità di Mone, Yū Miri ci offre il ritratto di un Giappone attraversato da tensioni e contraddizioni, paure e incomprensioni, tanto a livello dei singoli che di collettività.

Tutti pensavano che fosse stato commesso un errore, ma chi era il colpevole?
Il Giappone?
Il ministero dell’Economia?
L’Agenzia della sicurezza industriale e nucleare?
Il ministero dell’Educazione?
La TEPCO?
Il primo ministro?
Il segretario del gabinetto?
Il governatore della prefettura?
Il sindaco?
I cittadini della prefettura, i cittadini della città?
Gli scienziati?
I medici?
I fisici?
I mass media?
Avevano sbagliato tutti?
Tutti?
Ma tutti chi?
Chi aveva sbagliato?
Chi, cosa, dove e in che modo aveva sbagliato?
Era giusto dire che tutti avevano sbagliato, ma allo stesso tempo non lo era. Gli errori non si potevano correggere se le persone accusate non ammettevano di aver sbagliato. Gli errori rimanevano tali, venivano solo ripiegati e rimessi al loro posto.

La stessa Tōkyō in cui si svolgono le vicende si mostra nella sua ambiguità: da un lato è la città dal passato pregno di tradizioni e leggende, dall’altro una giostra vorticosa che ogni giorno risucchia milioni di individui. Yū Miri non ci offre àncore di salvezza: come Mone, lettrici e lettori sono trascinati in una realtà che non offre appigli né certezze.

“L’isola dei senza memoria” di Ogawa Yōko

Questa è una pagina fitta di caratteri. Quello che avete davanti agli occhi uno schermo. Sul vostro capo, protetto o meno da un tetto, il cielo. Semplici, consueti elementi della quotidianeità che abitiamo ogni giorno.

Ecco: ora immaginate che, improvvisamente, qualcosa a cui tenete – un bracciale, un libro, un fiore – svanisca, e con esso tutti gli oggetti della stessa categoria. Eppure, a parte una fitta di nostalgia o di rimpianti all’inizio, nulla o quasi vi resterebbe della perdita.

«Peccato, però, che la gente dell’isola non sappia custodire per sempre nel proprio cuore le cose belle: finché vivono qui, sono destinati a perderle tutte, una dopo l’altra. È probabile che arrivi presto anche per te il momento di perdere qualcosa per la prima volta.»

«E… fa paura?» le chiesi preoccupata una volta.

«No, stai tranquilla: non è né doloroso né penoso. Ti sveglierai nel letto un giorno e sarà tutto finito, prima che te ne accorga. Prova a restare in ascolto con gli occhi chiusi e a sentire il flusso dell’aria mattutina: avvertirai qualcosa di diverso dal giorno precedente. Così anche tu capirai che cosa hai perso, che cosa è scomparso dall’isola.»

Questo è quanto, settimana dopo settimana, provano i personaggi de L’isola dei senza memoria di Ogawa Yōko (trad. Laura Testaverde, Il Saggiatore, 2018, pp. 250, € 24). Ben prima dello sviluppo della letteratura fantascientifica e distopica femminile a cui stiamo assistendo negli ultimi anni grazie al Racconto dell’ancella di Margaret Atwood (l’opera di Ogawa, infatti, risale al 1994), la scrittrice giapponese ha dato infatti vita a una storia senza tempo e senza luogo (sebbene molti elementi sembrino rimandare al Giappone) pervasa di iquietudine e tensioni.

In ‘un’isola senza nome,  inspiegabilmente, frammenti di realtà scompaiono da un istante all’altro dall’orizzonte dei residenti per ragioni sconosciute, ma sempre sotto l’occhio attento di un corpo di polizia che nulla si lascia sfuggire e nulla perdona. I principali ricercati sono, dunque, coloro che non hanno perso l’uso della memoria o che si oppongono a questo: tenere traccia del passato e di ciò che segna le nostre vite, fossero anche delle cose di poco valore, significa – ci lascia intendere Ogawa – custodire i confini del nostro agire, alimentare un rapporto empatico con quel che ci circonda, stabilire rapporti profondi e complessi con le persone che abbiamo vicino.

Non a caso, la protagonista del libro è una romanziera solitaria e anonima che fa della scrittura la sua àncora di salvezza e la sua arma. Ancora una volta (basti pensare a La formula del professore), Ogawa riflette così sulla relazione fra ricordo, cancellazione, parola, libertà, mostrandoci come il rovescio della realtà abituale sia pericolosamente attraversato da inquietudini, minacce, ombre.

* * *

Per approfondire: The Guardian e The New York Times hanno dedicato due belle recensioni al libro, che ne evidenziano alcuni possibili legami con la storia internazionale.

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