Categoria: recensioni

Nel Giappone delle donne di Antonietta Pastore

Sono sempre stata dell’idea che spetti alle donne scrivere della condizione femminile; spesso, infatti, mi pare che gli uomini, nel  viso_japtrattare di ciò, manifestino un certo distacco o un fastidioso paternalismo. Ho apprezzato quindi fin dagli intenti Nel Giappone delle donne di Antonietta Pastore (Einaudi, 2004, pp. 204, 9,50 €): la studiosa, grazie al suo lungo soggiorno nel Paese del Sol Levante, ha acquisito una solida conoscenza dell’universo muliebre nipponico e ne dà prova nel testo.
Esso è articolato in diverse sezioni, ciascuna delle quali è dedicata ad un tema (nell’ordine: matrimonio, famiglia, femminismo, divorzio, giovani, lavoro, mizu shoobai, arti tradizionali, terza età), delinato in modo sintetito e chiaro e, successivamente, descritto con numerosi esempi tratti dalla vita dell’autrice.
Pagina dopo pagina, dinanzi ai nostri occhi si spiega un ventaglio di esistenze, talvolta vissute nell’ombra: studentesse, mogli, lavoratrici, artiste, ribelli, vedove… Ogni figura è diversa, ma accomunata alle altre dal difficile compito di essere donna, oggi (poiché, purtroppo, la femminilità — prima che una condizione fisica e ontologica complessa — è spesso percepita innanzitutto come un insieme di doveri e di ruoli). E se, ad uno sguardo veloce, il panorama può apparire statico, persino opprimente,  è attraversato in verità da un silenzioso conflitto, che ha luogo principalmente all’interno della donne e per le donne, manifesto indizio del disagio verso se stesse e la società che contrassegna tuttora il processo di emancipazione, non solo in Giappone, ma, purtroppo, in gran parte del pianeta.

Foto tratta da qui: allo stesso indirizzo è possibile trovare un interessante articolo in inglese dal titolo The New Japanese Woman: Modernity, Media, and Women in Interwar Japan.

Novità: Una perfetta stanza di ospedale di Ogawa Yoko

Dopo il silenzio dovuto alle abbuf… vacanze pasquali e allo studio, rieccomi qui con una novità, che spero di poter leggere presto. E’ infatti recentemente uscito, per i tipi dell’Adelphi, Una perfetta stanza di ospedale di Ogawa Yoko (traduzione di Massimiliano Matteri e Matake Yumiko, pp. 152, 10 €). Di seguito le parole di introduzione al libro tratte dal sito della casa editrice: perfettastanzaospedale

«Ogni volta che penso a mio fratello il cuore mi sanguina come una melagrana scoppiata» esordisce la protagonista del racconto che dà il titolo al volume, e continua: «Nella speranza di riuscire a dimenticare completamente mio fratello, mi immergo nel ricordo della sua quieta stanza di ospedale». Quella stanza, in cui il ragazzo ha trascorso alcuni mesi prima di morire «assurdamente giovane», era un luogo «perfettamente ripulito dalla sporcizia della vita» – e lui stesso «era sempre così tranquillo e gentile. La sua nuca era perfettamente liscia, il suo respiro perfettamente sottile». A poco a poco sorella e fratello si rinchiudono nel mondo a parte della stanza, in cui sembra che la corruttibilità della materia organica non possa penetrare, in cui c’è solo l’asettica purezza dell’assenza di cibo, dell’assenza di odore. Ed è come se, in quel «modo elegante di morire», assaporassero «la perfetta serenità che si prova nella fase aurorale di una storia d’amore». Anche nel secondo racconto, Polvere di farfalla, a un mondo «di fuori» (dove si può soffrire di «mal di gente») si contrappone un mondo «di dentro»: quando la ragazza Nanako è costretta a portare la nonna – «chiusa in una realtà tutta sua», quella dell’oblio – in una «scatola bianca piena di buone intenzioni », si sente «murata viva» nel piccolo appartamento in cui ha vissuto per anni insieme a lei, e comincia a chiedersi quale sia ora il suo, di mondo, e se ci sia una realtà oltre a quella che le sta «crescendo dentro». Ogawa Yoko sembra possedere il segreto di una scrittura che è solo sua: affilata, liscia, trasparente – ma dotata di un potere devastante. «La pericolosa Ogawa» è stato detto « ha inventato la scrittura-coltello: nel leggere le sue opere si prova un piacere doloroso».

Questa la recensione di Rita Bugliosi, tratta dall’almanacco CNR:

Hanno entrambi a che fare con la malattia i due racconti di Yoko Ogawa che compongono il volumetto edito da Adelphi “Una perfetta stanza di ospedale”. D’altro canto, la narratrice giapponese non è nuova a questo tema, presente anche nella sua opera precedente, “La formula del professore”, già recensita sull’almanacco. Lì protagonista è un genio della matematica, che non riesce però a trattenere i ricordi per più di ottanta minuti, un tempo che si restringe sempre più con l’avanzare dell’età, tanto che l’anziano docente non può più vivere nel suo appartamento e deve essere ricoverato in una casa di riposo.
Anche la casa di riposo è un elemento che torna nel nuovo libro, anzi è proprio da questo luogo, si può dire, che prende avvio il secondo racconto “Quando la farfalla si sbriciolò”. La giovane Nanako è costretta a ricoverare in un ospizio per vecchi la nonna Sae, con la quale è cresciuta ed ha vissuto fino ad allora, e che è colpita da una demenza senile grave, che la costringe a letto, incapace di compiere i gesti più semplici e di parlare. Tornare nell’abitazione lasciata vuota dalla nonna turba la giovane, che sembra perdere di vista il confine che separa la cosiddetta normalità dall’anormalità. ‘Dubito che sia la mia realtà, quella rimasta dopo che lei, colpita da demenza senile se n’è andata, a essere veramente normale. Mi angoscia che sia io, rinchiusa in quella casa, a non essere normale’.
Nel primo racconto, quello che dà il titolo a volume, alla casa di riposo si sostituisce la linda e asettica stanza d’ospedale, dove la protagonista assiste il fratello minore, malato terminale. Anche in questo caso la donna sembra perdere il contattato con la realtà, per rinchiudersi in un mondo tutto suo che inizia e finisce tra le quattro mura della camera che ospita il fratello, unico luogo in cui si sente serena. Ed è lì che va con il pensiero ora che il giovane è morto, per trovare un po’ di pace. ‘Quella stanza di ospedale mi piaceva sempre di più. Quando ero là dentro mi sentivo al sicuro come un bimbo immerso nel suo primo bagnetto caldo. L’interno del mio corpo vi diventava puro e trasparente fin nelle pieghe più nascoste’.
I personaggi delle due storie di Ogawa sono individui emarginati, incapaci di interagire in maniera consueta con gli altri, ossessionati da pensieri ricorrenti, attratti morbosamente da dettagli insignificanti che deformano con la loro alterata sensibilità. Come quando, tornata dall’ospedale, la donna guarda il marito mangiare: ‘Infilò il cucchiaio tra le labbra sorridenti. Quando dalle fessure verticali delle labbra colò una goccia marrone, la lingua si allungò a risucchiarla, come avrebbe fatto un bivalve per prendere aria’.
Un linguaggio accurato, una scrittura tagliente per descrivere quelle che la stessa autrice ha definito, nel corso di un’intervista: ‘…persone spinte ai margini del mondo, come impietrite su questo confine incerto. I disadattati alle norme sociali, dall’aria inquietante, che non possono reclamare la propria esistenza ad alta voce…’.

Real world di Natsuo Kirino: trama completa e recensioni

Una settimana fa, abbiamo segnalato l’uscita di Real world di Natsuo Kirino; oggi, la casa editrice Neri Pozza ha divulgato maggiori dettagli. Ecco tutta la scheda, con tanto di trama e giudizi critici: realworld

In un affollato quartiere residenziale di Tokyo quattro studentesse trascorrono un’estate caldissima e soffocante preparandosi ad affrontare gli esami per il college. Sono delle adolescenti molto diverse tra loro: Toshi è affidabile e sicura, Yuzan è diventata riservata e malinconica per la morte della madre, Terauchi ha grande talento per gli studi, Kirarin occulta dietro la sua dolcezza un’attrazione morbosa per i comportamenti più estremi.
Un rumore inconsueto che proviene da un appartamento improvvisamente spalanca un baratro di eventi inaspettati: il vicino di casa, un liceale che le quattro amiche chiamano il Vermiciattolo, ha ucciso la madre ed è scappato con la bici e il cellulare di Toshi. In fuga dalla polizia, il giovane assassino contempla affascinato il proprio volto riprodotto in innumerevoli fotografie e servizi televisivi, assapora l’improvvisa visibilità mediatica, il racconto della sua vita riscritto da giornalisti e reporter, e asseconda la crescente e ossessiva curiosità di scoprire le ragioni che lo hanno portato a uccidere. Il pigro distacco dalla realtà si trasforma in una consapevolezza crudele: insensibile alle conseguenze del suo crimine, vuole che le ragazze scrivano per lui un manifesto filosofico, che giustifichi ed esalti la lucida follia delle sue azioni…
Immerse in una vita di chat, messaggi sul telefonino e Reality TV, le ragazze scoprono la realtà di un mondo oscuro e pericoloso, in cui la propria esperienza e le proprie inclinazioni sono fonti di tensioni e minacce. Un mondo popolato di bambini e ragazzi in attesa di una guida, di un esempio, di un salvatore che li riscatti dalla noia invincibile di un sistema che li vuole perfetti, incapace di comprendere la loro diversità, la radicale distanzache li separa dai genitori e dalle generazioni che li precedono. E il loro profeta può essere chiunque, anche un assassino, è sufficiente che sia capace di ribellarsi in nome di tutti loro.
Perché anche se non l’hanno fatto davvero, questi ragazzi hanno già ucciso ipropri genitori. Nei propri sogni.

Quattro amiche adolescenti, un omicidio, un ragazzo ambiguo e problematico. Uno sguardo glaciale e perturbante sulla gioventù contemporanea, stregata da una violenza crudele e affascinante.

Un noir estremo, un’immersione nella psicologia del crimine adolescenziale.
L’ultimo romanzo di Natsuo Kirino, la rivelazione della nuova narrativa giapponese.

«Natsuo Kirino si conferma tra quegli scrittori giapponesi d’élite che stanno trasformando il romanzo contemporaneo. Banana Yoshimoto e Murakami Haruki hanno aperto la strada, Kirino continua a tracciare con maestria il proprio territorio: gli estremi della psiche umana che si affacciano sull’orrore».
The Washington Post

«Una delle contestatrici più formidabili delle istituzioni sacre alla società nipponica».
Il Venerdì

«Il noir e il romanzo di formazione sono tradizionalmente generi opposti, ma Kirino li fonde in modo brillante, mostrando come la conoscenza non sempre sia una esperienza felice. I lettori di Murakami Haruki e di romanzi come After Dark si sentiranno a casa».
Booklist

«Affine a Dostoevskij in Delitto e castigo, Kirino porta il suo antieroe a concepire l’omicidio come un gesto filosofico, e descrive un’inquietante preoccupazione per il disagio sociale contemporaneo, capace di distruggere ogni umanità».
The New York Times Book Review

«Invece di creare un semplice crime novel o definire un grottesco ritratto di personaggi dominati da desideri perversi e criminali, il romanzo di Natsuo Kirino sfida i lettori a confrontarsi con la verità della natura umana, a impegnarsi in un giudizio sulla violenza, a guardare oltre l’atto, alle sue radici».
The Miami Herald

«La tristezza e il distacco adolescenziali sono qui i veri protagonisti, e delineano un fenomeno culturale che rende questo romanzo un sublime thriller psicologico».
Time Out Chicago

«Real World non è esattamente un thriller, un mistery, un giallo. È una storia di grande profondità psicologica narrata con la voce vivace e sognante dell’adolescenza. Ricorda Bonjour Tristesse, il rivoluzionario romanzo francese scritto nel linguaggio scontroso e irritato di una teenager».
The Philadelphia Inquirer

«Un brillante noir femminista (…), quasi un Piccole donne sotto acido. Louisa May Alcott rimarrebbe a bocca aperta».
The Cleveland Plain Dealer

«Gelosia, solipsismo, paura, arroganza – la mente degli adolescenti può essere un luogo spaventoso e terribile. Real World ci accompagna nelle teste di questi ragazzi».
Los Angeles Times Book Review

«Se Real World è veramente un’opera di realismo sociale, Natsuo Kirino è allora una maestra di cinismo o la cartografa di una realtà davvero terrificante».
The New York Sun

Reportage in Giappone: "L'eleganza è frigida" di Goffredo Parise

Quest’oggi voglio accennarvi ad un libro poco noto in Italia: L’eleganza è frigida di Goffredo Parise. L’opera, scritta qualche decennio fa, è stata riproposta l’anno scorso da Adelphi (pp. 119, 12 €). A metà strada tra la narrazione, la saggistica e il reportage, essa ci presenta il punto di vista di Marco (alter ego dell’autore), novello Marco Polo, alla scoperta del Giappone e delle sue peculiarità.

Goffredo Parise
Goffredo Parise

Vi lascio con una recensione di Giovanni Mariotti apparsa sul Corriere della sera (3 aprile 2008):

Tra settembre e ottobre del 1980 Goffredo Parise trascorse in Giappone due mesi che più tardi avrebbe definito «forse i più belli e felici della mia vita». Gli articoli nati da quel viaggio apparvero sul Corriere fra il gennaio del 1981 e il febbraio del 1982 e, alla fine di quell’ anno, in un volume Mondadori che si lascia ricordare anche per la bella scelta di immagini. Ora, a più di un quarto di secolo, quel reportage, esempio (raro nella nostra epoca) di pellegrinaggio estetico, è riproposto da Adelphi. Titolo: L’ eleganza è frigida. Ecco una sentenza (mutuata dal poeta Saito Ryokuu) che istintivamente sentiamo vera. Frigida è l’ eleganza… cioè orfana «della passione dei sensi». Ogni eccesso di forma e artificio e controllo soffoca la sensualità (basti pensare a quanto siano anerotiche le sfilate di moda). Sensualità che spesso, invece, balena irresistibile in ciò che è scomposto, involontario, inelegante. Tuttavia, nel classico Libro d’ ombra, il grande scrittore giapponese Tanizaki interpreta la sentenza di Ryokuu in una maniera sensibilmente diversa, e singolare. Parlando dei gabinetti giapponesi tradizionali, discosti dalle case, osserva che «non è comodo andarci di notte, e nei mesi freddi si rischia di buscare un raffreddore»; però è anche vero che «l’ eleganza ama il freddo, e dunque la temperatura dei gabinetti, pressappoco uguale a quella esterna, può essere intesa come un tocco di raffinatezza in più». Qui l’ eleganza non è più connessa con lo stile «formale» della tradizione giapponese, ma con la gelida aria delle notti invernali. Manifestai, forse con un po’ di pedanteria, qualche perplessità sul reale significato della frase di Ryokuu in un articolo scritto quando il libro uscì in prima edizione; e Parise mi rispose con una lettera lunga e generosa. Quel titolo, ammetteva, era frutto «di non poche ricerche e dubbi. Ma alla fine è rimasto quello che avevo concepito in Giappone e che del resto avevo trovato nell’ edizione inglese di Libro d’ ombra, «the elegance is frigid», che mi era parso il più comprensivo di elementi». Giustificazione impeccabile: giacché la parola italiana «frigidità» connette due idee, l’ insensibilità al piacere sessuale e una temperatura rigida. Ricordo le acque chiare e freddissime di un torrente delle Apuane: il Frigido. Forse, se la civiltà giapponese ci appare così raffinata e così strana, è perché porta dentro di sé il sentimento dell’ inverno e delle sue costrizioni. Esiste una bella parola che mi sembra convenire più di ogni altra all’ idea giapponese di eleganza: «assiderata». Non sarà un caso se, come nota Parise, nelle case giapponesi i termosifoni diffondono un calore assai più attenuato dei nostri, e talvolta mancano del tutto. Vi è un episodio molto grazioso, nelle prime pagine de L’ eleganza è frigida. Il protagonista (scrivo così perché Parise, o per pudore o per adeguarsi alle distanze e ai formalismi del Paese che visita, racconta le proprie emozioni attraverso il lieve velo di un nome non suo e della terza persona) ha trascorso la prima notte a Tokio nell’ ambasciata del suo Paese, che chiama il «Paese della Politica» (ed è naturalmente l’ Italia). «Il mattino dopo alle otto in punto sentì bussare ed entrò Uji-san, il domestico che aveva intravisto la sera arrivando, con il vassoio della colazione…. Gli chiese com’ era il tempo. “Bellissimo” fu la risposta e, così dicendo, con un gran sorriso per prologo, Uji-san tirò le pesanti cortine. Piovigginava, un’ acqua molto sottile spruzzava invisibile il grande prato del giardino con il suo lago popolato di carpe rosse, gialle, arancioni e dove nuotavano due grandi anatre bianche». Per gli occidentali una giornata «bellissima» esige un cielo di un azzurro impeccabile, il sole, la libertà di uscire. Ma può essere «bellissima» da guardare anche una giornata dai colori ambigui e velati. Dai grigi elegantissimi. Con piccole piogge e passaggio di nuvole vagabonde. Persino un po’ fredda. Un po’ impedita. È l’ insegnamento del domestico dell’ ambasciata. Venuto dal «Paese della Politica», il viaggiatore di Parise assorbe quella lezione. I tesori del Paese dell’ Estetica lo incantano. Il magro Buddha bambino del tempio di Koriuji, il giardino Zen di Roianji (che suscita nel visitatore «la più grande emozione estetica della sua vita»), la lettura sulla riva di un laghetto del più celebre haiku di Bashô («Nel vecchio stagno / una rana si tuffa: / Il rumore dell’ acqua») rapiscono i suoi sensi avidi ed estatici. Ma è soprattutto negli oggetti d’ uso tradizionali, nei gesti, in certe minime ritualità, in un nodo ad asola intorno a un alberello, che gli appare l’ oscura potenza dell’ estetismo. Un estetismo che è una disciplina… e quasi una camicia di forza. Aver piegato la vita quotidiana alle esigenze della bellezza è senza dubbio l’ impresa più singolare della civiltà giapponese, e il segreto della sua irradiazione. Anche l’ Occidente, si sa, vagheggia oggetti belli e dalle forme pure (è il cosiddetto design). Ma l’ incanto si disperde se, come accade, finiscono nel contesto di una quotidianità sguaiata. Quello che manca al Giappone, così com’ è descritto ne L’ eleganza è frigida, è l’ espressione diretta e spontanea dei sentimenti. Che tuttavia affiorano, attraverso silenzi, rossori, elusioni. Parise coglie, con grazia, precisione e a tratti un po’ d’ ironia, queste manifestazioni di una soffocata emotività… il segreto avvampare delle emozioni dietro le cerimonie di un popolo «assiderato». Di timidi. Resta in sospeso (lo restava quando il libro apparve la prima volta, e lo resta oggi) la questione se tutto ciò sia destinato a scomparire, o se invece sia in grado di assorbire e rielaborare in forme originali ogni sorta di influenze esterne. Questo dubbio niente toglie allo sconcerto di chi, abituato a una volgarità chiassosa, scopre le persistenze di uno stile di vita che ha la pazienza e la precisione di certi lavori invernali (parlo di inverno… e, ricordando un bellissimo film di Claude Sautet, mi verrebbe da aggiungere che probabilmente si tratta anche di un «inverno del cuore»). Per Parise, come il suo libro mostra, lo sconcerto si tramutò in innamoramento. […]

L’otaku romantico: “Train man – Romanzo d’amore collettivo”

densha otoko train man recensione libro otakuUna sera qualunque del marzo 2004, un giovane otaku timido e impacciato lancia una disperata richiesta d’aiuto in un forum giapponese: ritrovare (e magari anche conquistare) una sconosciuta ragazza che ha salvato in metropolitana dalle molestie di un ubriaco.

Dopo le iniziali perplessità,  la community virtuale si stringe attorno allo strano personaggio, (altro…)

"L'angelo ferito – Vita e morte di Mishima" di Emanuele Ciccarella

Quest’oggi vi presento un altro libro per approfondire la figura di Mishima, L’angelo ferito. Vita e morte di Mishima (Liguori, p.360, 23,50 €) di Emanuele Ciccarella, docente di Lingua e letteratura giapponese all’Università degli Studi di Torino, e autore anche de La maschera infranta. Viaggio psicoestetico nell’universo letterario di Mishima (Liguori, p. 110, 12,50 €).
Eccone una recensione di Donatella Trotta, intitolata
Mishima, Icaro del Giappone, e apparsa su Il Mattino del 2 febbraio 2007.

angeloferito«Senza ali, la sua vita sarebbe stata molto più leggera. Le ali non sono adatte per camminare sulla terra… Non c’è nessuno che gli insegni come liberarsi di queste ali?» Così riflette Sugio, il protagonista di Tsubasa (Ali, appunto), al termine di un racconto favolistico del 1951 di Yukio Mishima, riproposto in italiano nel 1992 da Stampa Alternativa: «una storia alla Gautier», la definì l’autore stesso, che in una nota rivela di non essere stato compreso, all’epoca, nella «sincerità» della sua «confessione» senza maschera. «Probabilmente era la conseguenza di essere sempre apparso agli altri come chi non vuole mai dire nulla di sé», concludeva il grande e controverso scrittore giapponese (1925-1970), fenomeno non solo letterario divenuto un classico tra i più tradotti all’estero (anche nei 2 volumi dei Meridiani Mondadori 2004-2006, a cura di Maria Teresa Orsi). Questi dettagli tornano non a caso in mente leggendo l’intensa biografia appena pubblicata, dopo un meticoloso lavoro decennale, da Emanuele Ciccarella: L’angelo ferito. Vita e morte di Mishima, che esce a trent’anni dalle due celebri biografie in inglese di John Nathan e Henry Scott Stokes (tradotta in italiano da Feltrinelli e ispiratrice del film «Mishima» di Paul Schrader), e dalla suggestiva ”rilettura” metafisica di Marguerite Yourcenar (Mishima o la visione del vuoto, Bompiani). L’immagine metaforica dell’angelo – tra le tantissime che costellano l’esistenza inquieta e i 40 volumi della fluviale opera omnia di Mishima, per tre volte candidato al Nobel della letteratura – percorre infatti la monografia di Ciccarella dall’inizio (con i non casuali versi dannunziani dall’Alcyone dedicati a Icaro, in exergo, e i primi ”voli” di un talento letterario precoce analizzato nella sua prismatica e ambigua evoluzione) sino alla fine: ponendosi come una delle più preziose chiavi di lettura di quella che Yasunari Kawabata, mentore di Mishima, ebbe a definire l’«indecifrabile originalità» del poliedrico autore della geniale tetralogia Il mare della fertilità. Il quarto e ultimo volume della tetralogia, dall’emblematico titolo La decomposizione dell’angelo, è anche quello che non a caso suggella pure la fine volontaria del trasgressivo e discusso romanziere, drammaturgo, saggista, critico letterario, pensatore, persino regista e (mediocre) attore, assetato d’assoluto al punto di pianificare (e lasciar presagire) a lungo il suo cruento suicidio rituale per seppuku: giacché «la vertigine del vuoto è un’attrazione troppo grande per chi ha davvero deciso di volare», commenta in chiusura Ciccarella, fine yamatologo napoletano, docente di lingua e letteratura giapponese all’università di Torino, traduttore di grandi autori del Novecento nipponico e specialista di Mishima, del quale ha fatto conoscere tra l’altro i racconti giovanili de La foresta in fiore, l’unico romanzo sulla psicoanalisi, Musica, e due illuminanti interviste mai tradotte, Le ultime parole di Mishima (tutti editi da Feltrinelli). E se nel suo precedente saggio La maschera infranta (Liguori) Ciccarella intraprendeva una sorta di viaggio psico-estetico nell’universo interiore e nella formazione di Mishima riverberati dal romanzo autobiografico giovanile Confessioni di una maschera, con L’Angelo ferito va oltre: nel cuore – inafferrabile e spiazzante – dell’enigma Mishima tout court. Un enigma indagato con una aggiornata documentazione, diversi tagli prospettici e una cifra stilistica affettiva, senza pregiudiziali ideologiche. E in primo piano, nel libro, è la statura intellettuale di Mishima ad emergere, più che la sua scomoda e scandalosa public figure: perché Ciccarella parte dall’analisi delle sue opere, per arrivare a far luce attraverso il laboratorio di scrittura dell’autore anche sui suoi tratti esistenziali pubblici e più intimi. Un approccio originale, che riesce a mettere a fuoco tutti i dualismi antagonistici che hanno segnato vita e opera di Mishima: corpo e parole, innanzitutto, ma anche eros e thanatos, dimensione dionisiaca e apollinea, via della penna e della spada, arte come «miele e veleno», nichilismo estetico e filosofia dell’azione, romanticismo e classicismo, diversità non solo sessuale e derive ultranazionaliste.

Per chi ne volesse sapere di più, questo è l’indice dell’opera:

Ringraziamenti – Avvertenza – Capitolo I – Preambolo – Sangue aristocratico e contadino – Recluso nell’ombra – La nascita dei primi racconti – La foresta in fiore – Capitolo II – Burocrate di giorno, poeta di notte – Confessioni di una maschera – L’ossessione della Morte – Il doppio Edipo – Il palanchino sacro – La seduzione di San Sebastiano – La seduzione del mare – “Tempo omosessuale” e “tempo eterosessuale” – Il martello del nichilismo – Capitolo III – Il cammino dopo la “confessione” – Colori proibiti – Il teatro – La voce delle onde – Capitolo IV – Il Padiglione d’oro – Un rigoroso metodo di scrittura – Il matrimonio – La casa Kyōko – Il teppista solitario – Capitolo V – I germogli del nazionalismo – Patriottismo – Romanticismo e classicismo – Il sapore della gloria – Dopo il banchetto – Il mare della fertilità – Capitolo VI – Neve di primavera – Bunburyōdō: la via della penna e della spada – A briglia sciolta – Gli scudi di Sua Maestà l’Imperatore – Capitolo VII – Il tempio dell’alba – Gli ultimi drammi – La decomposizione dell’angelo – I preparativi per l’azione – Il giorno dell’azione – Post mortem – Nel giardino degli angeli – Glossario – Bibliografia – Bibliografia delle opere pubblicate in Italia

L’articolo e le foto sono dei rispettivi proprietari.

"Abito da sera": un inedito di Mishima ora pubblicato

abitodaseraAppena pronunciamo il nome Mishima, balenano subito nella nostra mente termini quali tradizione, seppuku/harakiri, katana e così via; termini legati ad alti concetti, quali il valore, l’orgoglio, il nazionalismo. Forse per questa ragione, è passata quasi sotto silenzio la pubblicazione, risalente a qualche mese fa, di Abito da sera (Mondadori, p. 214, 98,0 €), feroce satira della società del secondo dopoguerra rimasta sinora inedita in Italia.
Eccone la recensione apparsa sulla Repubblica a settembre, a cura di Franco Marcoaldi:

Per noi lettori occidentali, che abbiamo poca familiarità con la letteratura giapponese, la figura di Yukio Mishima corrisponde unicamente all'”ultimo dei samurai”, come ricorda Virginia Sica, attenta curatrice di Abito da sera (finalmente edito in italiano negli Oscar Mondadori). Ma proprio questo romanzo apparentemente secondario, uscito in sedici puntate tra il settembre 1966 e l’agosto 1977 sulla rivista femminile Mademoiselle, dimostra come il cliché di Mishima sempre e comunque serio, sempre e comunque tragico, sia riduttivo e fuorviante. In Abito da seralo scrittore giapponese ci conduce nella buona società nipponica degli anni Sessanta: tra gare di equitazione e ricche cene dove si succedono ambasciatori di mezzo mondo, figure dell’aristocrazia, membri della famiglia imperiale e grandi imprenditori. Il racconto scorre leggero e godibilissimo, ma lo sguardo di Mishima non è affatto benevolo verso quel mondo, superficiale e vacuo. L‘intreccio ruota attorno alla storia d’amore tra la bella Ayako e l’elegantissimo Toshio: è un amore sincero e appassionato, ma pesantemente condizionato dai doveri sociali imposti dalla madre di lui, l’enigmatica Donna Takigawa. I due giovani fanno di tutto per recuperare la loro libertà, ma si trovano impigliati in un contesto mondano sempre più soffocante, contro il quale Mishima lancia ripetuti strali di ironia e sarcasmo. Tra equivoci e gelosie, cocktail e minacce di suicidio, favori economici e lunghe cavalcate, la commedia si conclude con un tono agrodolce. Donna Takigawa, che pareva tenere saldamente i fili della sua perfida strategia mondana, si rivela essere una creatura fragile, incapace di accettare la propria solitudine: “Una gabbietta senza l’uccellino è ben triste, no? Ma che senso avrebbe attribuire colpe alla gabbietta? Anche a buttarla tra i rifiuti, non cambierebbe il fatto che l’uccellino non c’è”.

[Il testo è di proprietà dell’autore]

Per accostarsi alla filosofia giapponese

Interessante quanto misconosciuta, la filosofia giapponese è un ambito spesso trascurato dagli occidentali. Per fortuna, negli ultimi anni sono usciti alcuni libri che ci aiutano a fare un po’ di chiarezza o ad approfondire alcune importanti tematiche.
spiritogiapponeAl primo gruppo appartiene a pieno titolo Lo spirito del Giappone. La filosofia del Sol Levante dalle origini ai giorni di nostri (Bibilioteca Universale Rizzoli, p. 400, 10,20 €) di Leonardo Vittorio Arena, professore di storia della filosofia contemporanea e di filosofie dell’estremo oriente presso l’università di Urbino.

Dalla fine della Seconda guerra mondiale il Giappone è diventato una delle grandi potenze economiche del mondo moderno, i suoi prodotti hanno invaso ogni angolo del globo e tutti hanno almeno sentito parlare dello Zen e dei samurai. Eppure, il Giappone resta ancora sostanzialmente un mistero. Leonardo Vittorio Arena ci guida alla scoperta di questo Paese attraverso la sua filosofia e, insieme, la sua psicologia. Nata nei primi secoli dell’era volgare rielaborando in modo peculiarmente nipponico il pensiero cinese e indiano, la filosofia giapponese non cerca di spiegare il mondo su basi meccanicistiche e scientifiche e travalica il principio aristotelico di non contraddizione: il suo scopo è piuttosto di ricercare la saggezza individuale e l’armonia con il cosmo e la natura. Una lezione che l’uomo occidentale ha bisogno più che mai di riscoprire.

Nel secondo gruppo rientra invece un’opera maggiormente specialistica, Uno studio sul bene (Bollati Boringhieri,  p. 224, 22 €) di Nishida Kitaro, padre della moderna filosofia giapponese e fondatore della celebre scuola di Kyoto (per approfondire, leggi qui) , aperta al dialogo con la filosofia occidentale e, in particolare, con uno dei suoi maggiori esponenti del ‘900, Heidegger.
Eccone una recensione apparsa su Repubblica nel febbraio 2007, firmata da Franco Volpi:

Un occidentale che voglia entrare nel cuore del pensiero giappponese deve fare uno sforzo linguistico-concettuale pari a quello che un giapponese affronta per capire che cosa significhi “filosofia”. Questo termine, che è alle radici della nostra civiltà, fino a circa un secolo e mezzo fa non aveva un preciso equivalente nella lingua nipponica. A differenza di quanto accaduto nel passaggio dal greco al latino e alle altre lingue europee, che in genere traslitterano la parola greca, in giapponese si seguì un’ altra strada. Nella seconda metà dell’ Ottocento, dopo oltre due secoli di chiusura a ogni influenza esterna nel periodo sakoku (1639-1854), fu avviato un febbrile lavoro di mediazione culturale e di invenzione di nuove parole. In tale clima fu creato anche il neologismo tetsugaku combinazione di due ideogrammi, tetsu “vivacità intellettuale, chiarezza mentale” e gaku “insegnamento, studio” che da allora in poi si è imposto come traduzione di “filosofia”. Naturalmente, un pensiero giapponese esisteva anche prima, ma si basava su una propria tradizione e su concetti, categorie, problemi e modi di ragionare lontani da quelli occidentali. Nishida (1870-1945) è il primo grande filosofo giapponese, il fondatore della celebre Scuola di Kyoto, che a lungo è stata il principale pensatoio nipponico, tuttora attivo, e che ha aperto un fondamentale canale di dialogo con la filosofia europea, specie tedesca. kitaro
L’opera di Nishida è un grande esempio di pensiero interculturale: scaturisce dal profondo della tradizione nipponica ma vi innesta, in una sintesi originale, elementi raccolti dallo studio approfondito dei testi originali di Platone, Plotino, Meister Eckhart, Kant, Hegel, e di autori influenti tra la fine dell’ Ottocento e i primi decenni del Novecento come Bergson, James e Husserl. Potremmo dire, fatte le debite proporzioni, che il tentativo di Nishida di sposare la tradizione zen con la filosofia è paragonabile al connubio tra la filosofia greca e il messaggio cristiano agli inizi della nostra era. Uno studio sul bene (1911) è la prima grande opera di Nishida. Bollati Boringhieri la presenta in una edizione ineccepibile, condotta sul testo originale da uno dei più promettenti nipponisti italiani, Enrico Fongaro, e accompagnata con una esauriente e illuminante introduzione di Giangiorgio Pasqualotto. Un merito che va esplicitamente sottolineato di fronte alla sconcertante disinvoltura con cui molta letteratura giapponese perfino alcuni romanzi di Mishima continuano a essere tradotti dall’ inglese. Quello che possiamo ora leggere è un appassionante trattato sistematico di filosofia zen. Nishida voleva intitolarlo La realtà o L’ esperienza pura perché questo è il concetto basilare da cui muove, per poi spiegare come l’ esperienza pura si articoli secondo il pensiero (in cui la realtà ci si offre così com’ è), la volontà (da cui trae origine l’ etica) e l’ intuizione intellettuale (da cui si sviluppa l’ esperienza religiosa del Nulla assoluto quale origine e principio unificatore dell’ intero Essere). L’ opera ebbe subito un vasto successo ma sollevò anche critiche e fraintendimenti. Nishida si sentì spinto a una “svolta”. Per superare il coscienzialismo, il volontarismo e perfino il misticismo di cui era accusato, cercò un nuovo baricentro, e lo trovò, studiando la chora di Platone, nel concetto di “luogo”. Con somma ironia e inarrivabile saggezza zen, avverte però fin dall’ inizio: «Forse Mefisto potrebbe farsi gioco di me: chi si dedica alla speculazione è come un animale che mangia erba secca in mezzo a un campo verdeggiante».

[L’articolo e le immagini sono proprietà dei rispettivi autori.]

Ancora su Mishima: un articolo di Ippolito Edmondo Ferrario

Noto dalle statistiche che tra voi lettori c’è un buon numero di persone interessate a saperne di più su Mishima e sul suicidio. Vi posto quindi questo articolo, tratto dal Secolo d’Italia del  22.2.08, a firma Ippolito Edmondo Ferrario.
Troverete altri riferimenti al libro L’angelo ferito di Emanuele Ciccarella in questo post.

Da decenni è una delle icone del Giappone tradizionale che, nel dopoguerra, è diventato una formidabile fucina di tecnologia, riuscendo in qualche modo a sintetizzare il proprio passato imperiale con la postmodernità. Stiamo parlando dello scrittore Yukio Mishima, figura complessa ed enigmatica entrata a far parte dell’immaginario popolare anche occidentale. […] Di Mishima rimangono infatti immagini forti, considerate da alcuni sintomo di una via guerriera difficilmente concepibile per un occidentale, foto che lo ritraggono impug nare la katana, la celebre spada dei samurai, e con la testa fasciata dalla chimachi, la fascia bianca recante il simbolo del Sol Levante. Che cosa spinse comunque Mishima a squarciarsi l’addome e a farsi mozzare il capo dal suo giovane discepolo Morita Masakatsu, il 25 novembre del 1970, quando aveva solo 45 anni? Si parlò di una forma di protesta contro l’americanizzazione del Sol Levante. Sul mistero di quel suicidio è uscito un bel libro: L’angelo ferito. Vita e morte di Mishima (Liguori, pp. 342, euro 23,50) di Emanuele Ciccarella, una biografia che fa discutere. Poco prima di morire Mishima aveva scritto: «Noi ci consideriamo gli ultimi rappresentanti della cultura, della storia e delle tradizioni giapponesi. La battaglia deve essere combattuta una sola volta e fino alla morte».

È un fatto che tutti i cultori di arti marziali non possono che illuminarsi quando sentono parlare di lui e del Bushido, la via del guerriero, in cui arti marziali, filosofia e spiritualità si fondono permettendo all’individuo di raggiungere la perfezione. Per chi volesse conoscere più da vicino, e approfondire il Mishima scrittore e drammaturgo, libri e suggestioni a parte, questa sera a Milano viene proiettato, presso il Centro di Cultura Giapponese di Milano (via Lovanio 8, tel. 3489200948) il rarissimo film del regista Paul Schrader Mishima: A life in a Four Chapters (1985) […] Il film dedicato a Mishima rievoca lo scrittore nipponico – autore di libri quali Confessioni di una maschera o Sole e acciaio – come l’ultimo erede della tradizione nipponica e del culto dell’Imperatore. Lo scrittore infatti mise fine alla sua esistenza con il seppuku, ovvero il suicidio rituale tipico dei samurai, diventanto un’icona del mondo tradizionale che non si voleva arrendere ad un dopoguerra dove la sconfitta del Giappone ne aveva condizionato gli usi e costumi. Mishima, ad esempio, da intellettuale e scrittore si era sempre opposto, non riconoscendolo, il trattato di San Francisco del ’51 col quale gli Stati Uniti imponevano al Giappone il divieto di avere un proprio esercito. Era il 25 novembre del 1970 quando Mishima, dopo aver preso in ostaggio nel suo ufficio il generale dell’esercito di autodifesa Mashita, e dopo un accorato appello-testamento recitato dalla finestra dell’ufficio di fronte a tutti gli uomini del reggimento e alla presenza di giornalisti e televisioni, si tolse la vita con l’antico rito samurai.
In Italia lo scrittore venne subito etichettato come fascista e decadente in quanto assoluto cultore del fisico e della disciplina marziale senza interpretarne il pensiero fino in fondo. Solo di recente, grazie a nuovi studi approfonditi si è riusciti ad andare oltre alle analisi superficiali. Lo stesso Alberto Moravia che lo aveva incontrato personalmente non aveva esitato a definirlo «un dannunziano decadente». E in un certo senso Mishima lo era, figlio di un Giappone costretto a rinnegare il proprio passato e a subire la cultura del vincitore. Il film di Schrader è diviso in quattro capitoli, ognuno ispirato ad un’opera dello scrittore. Il primo, intitolato «La bellezza» è tratto dal romanzo Il padiglione d’oro del 1956 e narra la storia di un ragazzo, un accolito buddhista fisicamente deforme, che rimane a tal punto affascinato da quest’esempio di architettura da diventare balbuziente; il solo modo per liberarsi dalla malia di ciò che ha visto sarà distruggere il padiglione stesso. Il tema dell’estetica e della bellezza inseguita che diventa un ossessione domina questa sorta di parabola tipica della tradizione Zen. Nel secondo capitolo, «L’arte», ispirato al romanzo La casa di Kioko (1956) il protagonista è un giovane attore di nome Osanu che vive un rapporto di conflittualità con la madre e che non riesce ad accettare il proprio corpo quando è a letto con la sua donna Mitsuko. Osanu decide così di intraprendere la via delle arti marziali per raggiungere un ideale di bellezza perfetta al cui vertice rimane solo il suicidio. Il tema del suicidio rituale, dell’esercizio delle arti marziali come veicolo per raggiungere un ideale di perfezione spirituale e guerriera sono, come abbiamo visto, fondamentali in Mishima. Non dimentichiamo che oltre a essere un prolifico scrittore di romanzi e di testi teatrali, che gli valsero tra l’altro riconoscimenti internazionali, Mishima dal 1955 iniziò a dedicarsi sempre di più alla pratica del Kendo e alle discipline militari in genere. Fondò una vera e propria associazione di combattenti privati denominata Tate no Kai, ciè Società degli Scudi, che secondo lo scrittore era dove incarnare lo spirito del Giappone tradizionale e imperiale di fronte al Trattato di San Francisco imposto dal vincitore. Il terzo capitolo intitolato «L’azione» sembra riassumere in sé tutta la parabola di Mishima scrittore-guerriero: Isao, studente di Kendo, l’antica arte della scherma, e cadetto dell’esercito, si dedica unicamente al culto dell’Imperatore e con i suoi compagni decide di eliminare dal Giappone la piaga del capitalismo americano, ma una volta che il suo piano d’azione viene scoperto non ha scelta. Imprigionato e torturato per il suo progetto di colpo di stato, una volta evaso riesce a uccidere il politico responsabile del suo fallimento. Dopodichè Isao sceglierà la via del seppuku, suicidandosi in riva a un fiume. Esattamente come Mishima nella realtà e nelle sue opere; lo scrittore fu sempre ossessionato dalla morte, così come testimonia il biglietto che la mattina in cui suicidò lasciò nel suo studio e sul quale vi era scritto: «La vita umana è breve, ma io vorrei vivere sempre». Nell’ultimo capitolo, «Armonia tra penna e spada», viene messa in scena l’ultima azione di Mishima, il suo proclama e la sua morte. E con questo finale in apparenza tragico Mishima e inspiegabile agli occhi di molti, riuscì a consegnarsi all’immortalità, grazie ad un’idea sulla quale aveva plasmato la sua intera esistenza.
Le immagini di Mishima mentre lancia il suo ultimo appello, il suo sguardo gettato oltre la realtà delle piccole cose, lo scrittore samurai, armato di Katana, ultimo simbolo della tradizione guerriera nipponica in un secolo dominato dalla grande industria, ancora oggi continuano a fare il giro del mondo e a raccontare di questo ultimo samurai.

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