Categoria: romanzi

“Io sono un gatto”, il manga di Cobato Tirol

Cobato Tirol, Io sono un gattoVive nel quartiere, conosce i pettegolezzi del vicinato e ne respira le tensioni, eppure sembra superiore a tutto ciò; non a caso, il protagonista del volume è stato più volte definito un filosofo, molto più saggio dei bipedi che lo circondano.

Sto parlando, chiaramente, del grande romanzo di Natsume Sōseki, Io sono un gatto, di cui di recente è apparso il manga firmato Cobato Tirol per l’editore Lindau (2018, pp. 208, € 18), con la traduzione di Federica Lippi (che, peraltro, Daniela di Tradurre il Giappone ha intervistato per il nostro bookclub).

Pur essendo impegnato nelle consuete occupazioni da felino (con l’eccezione, però, che catturare topi non è il suo forte), la bestiola sembra molto più assennata ed equilibrata rispetto agli uomini, i quali, invece, paiono spesso assorbiti in piccole beghe, rivalità e preoccupazioni. In particolare, è stridente il contrasto fra il gatto e il suo padrone, il professor Kushami: tanto uno è saggio, dalla mentalità aperta e alla mano, quanto l’altro inconcludente, testardo e a tratti scontroso. Malgrado ciò, l’animale non può far a meno di affezionarsi a lui e alla sua famiglia, tentando, a suo modo, di proteggerli.

io sono un gatto - tirolTirol è abile nel rendere bene le atmosfere evocate da Sōseki, dedicando speciale attenzione alle espressioni e alle inquadrature; inoltre, sebbene il personaggio principale del libro presenti molte caratteristiche tipiche degli umani, l’illustratrice non ne stravolge mai la natura con smorfie o pose esasperate.

Anche in questa versione, insomma, l’opera non perde nulla della freschezza, dell’ironia e della profondità originarie: sta in ciò, in fondo, la grande forza dei classici.

“Arrivederci, arancione” di Iwaki Kei

iwaki kei, arrivederci, arancioneLa vita all’estero è, spesso, come un arazzo: chi la osserva da lontano vede i colori cangianti, i fili che si intrecciano armoniosamente, i disegni che catturano l’attenzione. Solo, però, chi lo ha cucito conosce la segreta trama di punti, le battute d’arresto, i nodi.

Arrivederci, arancione di Iwaki Kei (trad. di Anna Specchio, Edizioni e/o, 2018, pp. 160, € 14,50), romanzo vincitore del prestigioso premio Ōe Kenzaburō, riesce a restituire bene questo quadro complesso attraverso la semplice e toccante storia di Salima e Sayuri, conosciutesi per caso in Australia.

La prima è un’operaia, intelligente ma analfabeta, scappata dall’Africa, mentre la seconda, giapponese, fatica a conciliare le sue aspirazioni di scrittrice e accademica col ménage domestico. Le due, insomma, non potrebbero sembrare più diverse: eppure, per quanto distanti per estrazione sociale, cultura, personalità, le donne sono accomunate dall’esser madri in condizioni difficili, dal desiderio di riscatto, dal senso di estraniamento geografico e linguistico, dal bisogno di costruire relazioni genuine, non importa se con una tenace insegnante di inglese o con un camionista dalla lacrima facile.

Il linguaggio, in tutto ciò, riveste un ruolo fondamentale: può gettare ponti, raccontare un’assenza lancinante, ricostruire e rigenerare se stesse dopo che la propria esistenza è stata stravolta dagli eventi. Crede, giustamente, Sayuri:

[l]eggere e scrivere, ovvero coltivare le parole che supportano il nostro pensiero, sono due azioni personali che si riproducono nella mente di ogni individuo sotto forme molteplici e diverse. E’ quasi come se ognuno di noi spargesse i semi delle parole nel profondo di sé. […] Ora che non sono più giovane […] voglio invece affidarmi all’atto di produrre attraverso la mia maldestra scrittura, affinché sul suolo del mio spirito possa un domani crescere una rigogliosa foresta di parole. (p. 38)

Arrivederci, arancione è, in conclusione, anche – e, forse, soprattutto – una dichiarazione di amore verso le parole: quando nessun passaporto è in grado di identificare la propria casa e i rapporti umani sembrano vacillare, esse sanno farsi nido, famiglia, patria.

Sakumoto Yōsuke, “Il giovane robot”

Sakumoto Yosuke, il giovane robotTezaki Rei sembra un ragazzo come tanti, o forse no: eccelle praticamente in tutto, gode di una certa popolarità a scuola ed è uno studente modello. Soltanto, la sera, tornato a casa, disattiva i suoi processi per riavviarli il mattino dopo. Rei, infatti, è un robot concepito in un centro di ricerca: inviato fra gli uomini per confondersi fra loro, è stato appositamente programmato per portare felicità.

Dal punto di vista fisico-meccanico, rasenta le perfezione; di contro, sembra non essere in grado di provare sentimenti, ha difficoltà a cogliere le sfumature del linguaggio e comprendere le implicazioni emotive delle sue azioni. Ma le cose stanno davvero così?

Complice una narrazione in gran parte in prima persona che rispecchia tanto l’estrema razionalità di una mente in apparenza lucidissima quanto la sorpresa di un adolescente alle prese con una realtà che fatica a dominare, Sakumoto Yōsuke nel suo romanzo Il giovane robot (trad. Costantino Pes, E/O, 2017, pp. 224, € 16) rende bene i dubbi e i dilemmi di un liceale.

Curiosamente, per certi versi, gli esseri umani sembrano i veri automi: radicati nelle loro convinzioni e ancorati saldamente ai loro principi, decisi a non metterli e a non mettersi in questione per nulla al mondo, reagiscono talvolta in maniera meccanica, istintiva, anche animale. Così questo romanzo – dal ritmo e dalle atmosfere manga – spinge il lettore a fermarsi un minuto e a interrogarsi sui limiti dell’umano illuminati dal (presunto) post-umano: proprio in quello spazio fra tecnologia e materia organica, raziocinio e sensibilità risiedono dubbi, contraddizioni, ma anche speranze.

“Il peso dei segreti” di Shimazaki Aki

shiori matsumoto aki shimazaki il peso dei segreti
Matsumoto Shiori

Le storie nella Storia, si sarebbe tentati di definire sbrigativamente Il peso dei segreti di Shimazaki Aki (trad. C. Poli, Feltrinelli, 2016, pp. 394, € 19, ora in offerta a 16,15), da anni residente in Canada, dove insegna giapponese e traduce.

Leggendo questo ciclo romanzesco che solca tutto il Novecento, torna alla mente una citazione di Tolstoj in particolare: “Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” (trad. P. Zveteremich). Anche quella di Namiko non fa eccezione. Una madre anziana, un figlio alle soglie dell’adolescenza, piccole commissioni da sbrigare, e poi, all’improvviso, una crepa nella quotidianeità da cui si riversa, inatteso, un mondo perduto costellato di tradimenti, scoperte inattese e dolore, che ha per sfondo alcuni delle pagine più tragiche della cronaca giapponese dell’ultimo secolo, quali l’invasione della Manciuria, le ritorsioni contro i coreani e l’ascesa del nazionalismo durante la seconda guerra mondiale.

Sullo sfondo, imponente e implacabile, l’ordigno nucleare lasciato precipitare su Nagasaki nel 1945, capace, come il terremoto che colpì duramente il Kantō e Tōkyō nel 1923 (altro evento protagonista dell’opera), di stravolgere vite e seppellire – ma non in eterno – segreti. (altro…)

“Il signor Cravatta” di Milena Michiko Flašar

il signor cravatta passi kyoto 2014
Talvolta la fuga – prima ancora di esser un’evasione dal mondo – è una corsa accidentata per schivare se stessi. Occorre allora non lasciare tracce della propria coscienza, rifugiarsi in una routine fatta di gesti minimi e, soprattutto, vigilare. Vigilare senza sosta, inflessibilmente. Una minima distrazione, e tutto può crollare.

Come ci racconta la nippo-austriaca Milena Michiko Flašar ne Il signor Cravatta (trad. di D. Idra, Einaudi, 2014, pp. 134, € 14,50, in offerta a € 12,33), Taguchi Hiro lo sa bene. Vent’anni che pesano come mille, e ventiquattro mesi trascorsi rinchiuso nella sua stanza, a proteggersi col silenzio e l’assenza dalla realtà che preme alle porte, per poi tentare – quasi distrattamente – di ritrovare fuori, in strada, la propria identità. Un’ombra di essa pare essersi annidata in un anonimo parco, su una panchina qualunque, dirimpetto a quella d’un uomo malinconicamente stanco, che Taguchi Hiro incontra ogni giorno. Sguardi rapidi, qualche cenno, un saluto, e poi – d’improvviso – un torrente di confessioni fra loro. Qualche volta la voce si annoda giù nella gola, il corpo freme, mentre i segreti si frangono contro i denti stretti, ma una storia non può che chiamare un’altra storia, e un’altra, e un’altra. E così via.
L’acerbo hikikomori (auto-recluso volontariamente) e il salaryman (impiegato) che sente la vecchiaia corrodergli le ossa; il ragazzo che si ostina a nascondersi – sotto una zazzera folta, dietro gli occhi bassi, in mezzo alle paure – e l’uomo che non si separa mai dalla sua cravatta – simbolo di quella normalità che lo strangola piano e, al tempo stesso, lo tiene vivo –; due animali spaventati in cerca di un luogo sicuro da cui spiare l’esistenza senza esserne spiati. Qualcuno sarebbe forse tentato di scorgere nelle loro figure – neppure troppo in filigrana – la schiacciante ansia da prestazione, le enormi pressioni connesse all’ambito lavorativo, nonché l’insopportabile mole di aspettative e responsabilità che gravano sulle spalle dei giapponesi sin dalla giovane età: ma una lettura orientata solo in tal senso finirebbe per sminuire l’opera, facendone il corollario romanzesco d’una teoria sociologica.

Con una prosa distillata, evocativa, che però non smarrisce mai la sua quotidianità, l’autrice dispiega dinanzi a noi una narrazione in cui si alternano tenerezza, dolore e rimpianto. Parola dopo parola, le solitudini costruite con meticolosità si incrinano e lasciano finalmente penetrare il sentimento più difficile: la fiducia nell’altro.

* * *

Questa mia recensione è già apparsa qui.

L’amore e la quotidianità (da “Il signor Cravatta” di Milena Michiko Flašar)

umbrella“[…] Non è strano? Piú che di tutto il resto mi ero innamorato di quello Stupido detto da Kyōko. Del suo sguardo diretto e libero. Che mi scrutava dentro. Io volevo che lei mi scrutasse dentro.

Ma era difficile. Per quanto spesso ci incontrassimo, lei andava in un’altra direzione. Credo che non sapesse dove. Procedeva decisa e basta, non necessariamente con la speranza di arrivare da qualche parte, ma per la pura gioia di essere in cammino. Sono una pianta, diceva, ho bisogno di fuoco, di aria, di terra, di acqua. Altrimenti deperisco. E: Anche nel matrimonio si deperisce, non è vero? Il fuoco si spegne. L’aria diventa rarefatta. La terra si secca. L’acqua si esaurisce. Io appassirei. E tu anche. Si gettò indietro i capelli. Lavanda. E se invece no, obiettai. Se proprio la quotidianità, la nostra quotidianità fosse la promessa che ti faccio? Il tuo spazzolino accanto al mio. Tu che ti arrabbi perché ho dimenticato di spegnere la luce in bagno. Noi che scegliamo una tappezzeria che un anno dopo ci sembra orrenda. Tu che dici che sto mettendo su pancia. La tua sbadataggine. Hai di nuovo lasciato l’ombrello da qualche parte. Io che russo e tu non riesci a dormire. Io che in sogno sussurro il tuo nome. Kyōko. Tu che mi fai il nodo alla cravatta. Che mi saluti con la mano quando vado a lavorare. Io che penso: Sei una bandiera al vento. Lo penso con un dolore lancinante nel petto. Per amor del cielo, non basta questo? Non è sufficiente per essere felici? Svicolò: Dammi tempo. Ci penserò.

Aspettai. Per un mese. Poi finalmente arrivò una lettera. La sua scrittura. Rotonda. Aveva allegato dei fiori pressati. La mia risposta è sí, lessi: Sí, vorrei perdere migliaia di ombrelli finché non avrai messo su pancia. Le risposi. Scrittura spigolosa. Andiamo a scegliere la tappezzeria.”

Milena Michiko Flašar, Il signor Cravatta (trad. di Daniela Idra, Einaudi, 2014)

immagine tratta da qui

 

Desiderio e tormento: “Il lago” di Kawabata Yasunari

japanese girl sequence kimono naked by roberto manzoli
Roberto Manzoli, “Japanese Girl, Naked and wearing a Kimono” (2000)

I piedi. Quei piedi ripugnanti, scimmieschi, da nascondere a ogni costo, ma sempre pronti a seguire una donna, per avvicinarla poi con una scusa qualunque, sino a percepirne l’odore della pelle. A loro Ginpei pensa costantemente. Quelle estremità così sgraziate sembrano quasi poter rivelare la sua indole, il suo famelico appetito di bellezza.

E’ così che, un giorno, i suoi passi incrociano per caso quelli di Miyako. Intimorita e, al tempo stesso, stregata in modo sotterraneo dall’incontro, non può fare a meno di riviverlo in sé, ancora e ancora. I pedinamenti degli sconosciuti, infatti, costituiscono una delle scarsissime fonti di appagamento nella sua monotona routine di venticinquenne concubina alle dipendenze di un vecchio misogino assillato dall’idea della giovinezza che sfugge e che, volontariamente, gli sfugge (ama, infatti, crogiolarsi nella gelosia provocata dalle attenzioni di ignoti verso la sua amante).

Kawabata Yasunari è – come già visto ne La casa delle belle addormentate – maestro nel manipolare una materia narrativa e, soprattutto, umana complessa. Anche qui, nel suo romanzo Il lago (trad. di Lydia Origlia, Guanda, 2015, pp. 189, € 8,50), lo scrittore si muove con estrema abilità al limite fra sensualità, lirismo e attrazione per il morboso, senza mai scadere nel volgare o in un erotismo dozzinale. (altro…)

Un passo da “Il minatore” di Sōseki Natsume

soseki il minatoreE’ finalmente in vendita Il minatore, traduzione italiana del romanzo Kofu di Sōseki Natsume, a cura di Antonio Vacca. L’opera è disponibile su Amazon in formato cartaceo e elettronico a questo link.

Ed ecco, per concludere in bellezza, un passo regalatoci dal traduttore:

Impietrito, mi volsi indietro. L’ingresso del tunnel occhieggiava in lontananza come una minuscola luna. Entrando nella miniera, avevo pensato tra me e me: “Insomma, non è poi così pauroso questo luogo!” Tuttavia, per effetto delle suggestive parole di Hatsu, quella galleria del tutto ordinaria s’era d’un tratto trasfigurata ai miei occhi in qualcosa di affatto diverso. Rimpiangevo persino il gelido picchiettare della pioggia sul mio cappello da galeotto. Per tal ragione avevo scrutato ansiosamente in direzione dell’ingresso, che, ora, a causa della remota lontananza, ammiccava come una minuscola luna. Nonostante il cielo plumbeo che incombeva all’esterno, avrei di gran lunga preferito trovarmi là! Le dense tenebre che rivestivano le pareti della miniera gravavano su di me cagionandomi un affanno d’oppressione. Il soffitto pareva divenire sempre più basso. Tali smarrite sensazioni non fecero in tempo a fiorire compiutamente in me che attraversammo i binari e girammo verso destra. Il cammino cominciò a degradare lievemente. L’ingresso della miniera dietro di me era oramai svanito. Intorno a noi regnava una greve oscurità. La minuta luna, la finestra sul mondo degli uomini s’era oscurata. Hatsu ed io stavamo scendendo sempre più nel ventre della montagna. Camminando, allungai una mano a toccare le pareti. Trasudavano umidore come se uno scroscio di pioggia le avesse bagnate.

“Sei ancora dietro di me?”, chiese l’uomo.

“Sì”, risposi calmo.

“Tra un po’ raggiungeremo l’entrata dell’Inferno!”

Zittimmo. Una luce balenò innanzi a noi. Pareva l’occhio di un gatto nero che rilucesse nelle tenebre. Se si fosse trattato di una semplice lanterna, il chiarore avrebbe dovuto guizzare. Invece il punto luminoso era perfettamente immobile.

Tra piacere e strazio: “Occhi nella notte” di Yamada Eimi

occhi nella notte yamada eimi marsilio romanzo Occhi nella notte di Yamada Eimi è un pezzo jazz suonato nel bel mezzo della notte da un pianista ubriaco, che ride e piange allo stesso tempo, esita, sbraita contro il pubblico, per poi, infine, riversare la sua nostalgia impotente sulla tastiera.

Pubblicato nel 1985, questo breve romanzo – che qualcuno ha definito erotico – è,  prima di tutto, la storia di due corpi che si cercano, si feriscono, si distaccano con violenza: quelli di Kim – cantante giapponese destinata a pianobar da quattro soldi – e Spoon, disertore nero dell’esercito americano di stanza a Yokosuka. (altro…)

Sōseki: “Solo i poeti e i pittori […] si nutrono di nebbia, bevono rugiada”

Three Women Reading Uemura Shōen
Uemura Shōen, Tre lettrici

In tutti i piaceri è insita la sofferenza, perché traggono la loro origine dall’attaccamento alle cose. Solo i poeti e i pittori conoscono e gustano l’essenza fragrante di questo mondo di contrastri e intuiscono la sua intrinseca purezza. Si nutrono di nebbia, bevono rugiada, valutano i viola, commentano i rossi e, giunti alla morte, non hanno rimpianti. Il loro piacere non dipende dalla materia, e una volta divenuti materia non trovano nell’immenso Universo l’ambito in cui essere costretti a porre in risalto il proprio io. Hanno spontaneamente abbandonato i limiti angusti e fangosi, nel loro copricapo squarciato penetra l’infinita, azzurra tempesta.

da Guanciale d’erba di Sōseki Natsume, trad. di Lydia Origlia, Neri Pozza, 2005, pp. 76-77

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