Categoria: narrativa moderna e contemporanea

“Ribon messaggero d’amore” di Ogawa Ito

Che sia destinato a essere una creatura eccezionale pare già scritto nella sua nascita: quanti uccellini possono vantarsi di esser nati nello chignon di una cantante ritirata dalle scene tanto stravagante quanto di buon cuore e poi accuditi da una bambina premurosa? Il suo stesso nome, Ribon – “nastro” – simboleggia il legame indissolubile fra le due, nonna e nipote.

Ribon è un pappagallo calopsitta: non solo possiede una bellezza peculiare, ma anche la rara dote di portare serenità, gioia e speranza a chi lo accoglie. Ogawa Ito ci racconta le sue avventure in Ribon (trad. Gianluca Coci, Neri Pozza, 2020, pp. 288, € 18), un romanzo intriso di dolcezza, in cui si alternano le voci di coloro che, per loro fortuna, hanno incrociato la bestiola sulla loro strada.

Non importa che si tratti di una donna ormai vicina alla morte, di una mamma che ha perso il figlio o di un ragazzo che ancora soffre per la perdita del suo animale preferito avvenuta molti anni prima: Ribon sa seminare in tutti e tutte, in modo naturale, un sorriso e regalare attimi di pura tenerezza.

Come accade anche in altre opere di Ogawa Ito (in primis, nel Ristorante dell’amore ritrovato), il cibo ha un ruolo fondamentale in ciò: prima ancora di prendere la forma di succulenta pietanza o rapido spuntino, è comfort food, alimento per l’anima, occasione di scambio profondo fra coloro che siedono assieme a tavola.

Il dono di Ribon, in fondo, sta proprio in questo: aiutare a scoprire il fascino della semplicità e di chi ci sta vicino, così come “i marshmallow arrostiti, […] la magnolia in fiorr e mille altre cose belle della vita” (p. 192).

“Le storie del negozio di bambole” di Tsuhara Yasumi

I suoi occhi sono fermi ma ben aperti, il suo sorriso cristallizzato per sempre, come in un eterno gesto di benevolenza: una bambola sembra non conoscere stagioni, né cambiamenti di umori o di affetti. Ma il mondo attorno a lei vive e patisce i segni del tempo: la bimba che stringeva fra le braccia il giocattolo si è fatta grande, l’infanzia ha lasciato dietro di sé una scia di nostalgia.

Tsuhara Yasumi lo sa bene e nelle sue Storie del negozio di bambole (trad. Massimo Soumaré, Lindau, 2020) ce lo mostra con sapienza. Nei sei racconti che compongono, intrecciandosi, questa raccolta, la bottega Tamasaka della giovane Mio – quella che, naturalmente, dà titolo al libro – è ben più di un semplice luogo in cui si riparano balocchi o si riportano all’antico splendore pezzi da collezione.

È, in fondo, sotto mentite spoglie, un centro di riabilitazione emotiva per persone adulte e bambine che cercano disperatamente simboli, che sono alle prese con sentimenti rimasti impigliati in un oggetto, come la signora che sembra lei stessa una bambola. E chi lavora al negozio – Mio, Tominaga e Shimura – non è da meno. Ciascuno di loro è arrivato dietro quel bancone forse per caso, forse per destino: sempre, però, con una ragione.

Allora come non pensare che “Le marionette siamo noi, il palco sono i luoghi della vita di tutti i giorni, le bugie sono la verità, il sogno è la realtà…” (p. 129)?

“L’ultimo volo per Tokyo” di Hayashi Mariko

Hayashi Mariko l'ultimo volo per tokyoSono pragmatiche, passionali, a volte spigolose o insicure; hanno problemi sentimentali, un’agenda piena di scadenze, segreti, un biglietto aereo o ferroviario sempre in tasca, e si adoperano senza sosta per raggiungere i loro obiettivi o colmare le loro mancanze: tutte le protagoniste de L’ultimo volo per Tokyo somigliano a una nostra amica, sorella, conoscente o, addirittura, a noi stesse.

Composta da cinque racconti scritti fra il 1984 e il 1985, questa raccolta di Hayashi Mariko ha finalmente visto da poco la luce anche in Italia grazie a Atmosphere libri e alla traduttrice Anna Specchio, che ha inserito nel volume una sua ricca postfazione sulla condizione delle donne e la letteratura femminile sul finire del Ventesimo secolo e una sua intervista a Hayashi Fumiko.

Le donne presentate nei racconti ci presentano un Giappone nel pieno degli anni Ottanta in parte diverso da quello a cui il nostro immaginario (condizionato dall’orientalismo) ci ha abituato. Le figure remissive da “buone mogli e sagge madri” (ryōsai kenbo) o quelle intriganti dall’esotico fascino di geisha lasciano, infatti, il posto a giovani che amano i piaceri della vita (dal sesso alla buona cucina), cercano di realizzarsi professionalmente attraverso la scrittura, rifiutano di adattarsi in toto alle aspettative, comprese quelle degli uomini.

Hayashi le ritrae in presa diretta, senza drammi o chiaroscuri; ci sono, sì, dubbi e timori, ma questi non sono sufficienti a scoraggiarle o a intaccare i loro progetti. Che si tratti di voltare le spalle a un vecchio amante o rischiare il tutto per tutto a favore della propria carriera, queste donne proseguono per la loro strada, costruendola loro stesse, giorno per giorno, talvolta con un pizzico di malinconia in più, ma mai sconfitte.

“Blu quasi trasparente” di Murakami Ryū

Daikichi Amano doll

Daikichi Amano doll

È facile – quasi scontato – dire cosa non sia Blu quasi trasparente di Murakami Ryū, finalmente ripubblicato in Italia nella traduzione di Bruno Forzan (Atmospherelibri, 2020, pp. 168m € 17): un’opera tradizionale per forma e contenuti, una storia d’amore convenzionale, una parabola edificante con il lieto fine. Più difficile, allora, definire la sua sostanza; due soltanto sono gli esempi – forse calzanti, forse no – che mi vengono in mente.

Il primo: Un mondo innocente di Sakurai Ami (trad. di S. Di Natale, Newton & Compton, 2012, pp. 154), un romanzo gonfio di eros, trasgressione, forze centrifughe che disorientano il lettore. Il secondo: la fotografia di Daikichi Amano [non aprite il link se siete facilmente impressionabili], un mondo senza coordinate temporali e spaziali popolato di donne le cui epidermidi e orifizi sono lambiti, attraversati, stretti, penetrati da insetti, pesci, serpenti, rane, polpi e altri animali.

Come Sakurai e Daikichi, in Blu quasi trmurakami ryu blu quasi trasparenteasparente (1976) Murakami racconta la dissipazione, la sensualità brutale, il disinteresse per ogni tipo di morale. E, come loro, lo scrittore, per presentarci i giorni dissoluti e dissacranti di un gruppo di giovani giapponesi, utilizza soprattutto (ma non solo) i corpi femminili, che trasforma in un campo di esplorazione – quasi un laboratorio vivo, di carne – in cui sperimentare forme mortificanti e violente di sesso, feticismo, droghe e rapporti umani disturbanti.

A casa di Oscar, in un braciere da incenso al centro della stanza sta bruciando dell’hashish, almeno quanto un pugno, e il fumo che se ne diffonde ti entra nel petto a ogni respiro, che tu lo voglia o no. Non passano nemmeno trenta secondi che sei completamente fuso. Sprofondo in un’allucinazione: è come se dai pori della pelle di tutto il corpo mi sgusciassero fuori le viscere, e mi penetrassero dentro il sudore e i respiri degli altri.

Soprattutto la parte inferiore del corpo è irritata come se fosse immersa in un denso pantano, fremo dal desiderio di prendere in bocca organi umani e suggere liquidi corporali. Mentre mangiavamo la frutta disposta sui piatti e bevevamo vini, il calore ha preso ad avvolgere l’intera stanza. Vorrei che qualcuno mi strappasse la pelle di dosso. Sento di voler far entrare dentro di me i corpi lucidi e oleosi dei neri e scuoterli freneticamente. (p. 43)

Tatto, gusto, olfatto, udito, vista: tutti i sensi del gruppo di amici e amiche protagonisti del romanzo sono costantemente bersaglio di desideri, richieste, gesti osceni, appetiti. Quegli stessi sensi rispondono nella maniera più naturale: le pagine sono imbrattate di secrezioni corporee, sangue, urla lancinanti, lacrime. È questo il modo in cui Murakami ha deciso di raccontare la sua storia e mostrare quanto l’abbattimento di ogni limite sia così sorprendentemente facile: attraverso un romanzo – anziché di formazione – di compiaciuta, gratuita, potentissima distruzione.* * *
Fotografia: Daikichi Amano.
Per approfondire: Blu quasi trasparente presentato da Paola Scrolavezza per NipPop.

Tanizaki Jun’ichirō: “Nero su bianco”

Contraddittorio, egocentrico, compiaciuto e, allo stesso tempo, prigioniero della sua vena decadente, Mizuno è uno scrittore nella Tōkyō della metà degli anni Venti del Novecento: collabora con case editrici e riviste, spende il denaro in alcool e prostitute, non si preoccupa di avere amici o famiglia.

Mizuno non era in grado di controllare la propria mente, il suo cervello era solo il proiettore di un cinematografo interiore. Un proiettore automatico da cui sgorgavano a volontà scene di mostri e fantasmi che lui stesso creava ed era costretto a guardare. Arrivati a un tale stadio non è forse già lecito parlare di pazzia?

Talmente assorbito in sé e nel desiderio di alimentare il suo ritratto di artista maledetto, quasi non bada al fatto che, in uno dei suoi ultimi racconti, immagina l’omicidio di un collega, senza preoccuparsi troppo di dissimulare la vera identità di quest’ultimo. Nel momento stesso in cui, infatti, il pensiero di non nuocergli si affaccia, ecco che la sua mente e il suo corpo vengono investiti da altri stimoli ben più terreni.

Ancora una volta, con la classica maestria, Tanizaki Jun’ichirō ci presenta nel romanzo Nero su bianco (Kokubyaku, 1928), appena pubblicato da Neri Pozza con la traduzione di Gianluca Coci (2019, pp. 266, € 17), un intreccio torbido, in cui inquietudine ed eros arrivano a confondersi e a disorientare persino colui che credeva invece di piegarli a suo piacimento.

Affascinato e intimorito da ciò che la sua mente riesce a creare, dalla sensualità esplicita e aggressiva di una modan gāru* che incrocia in un locale, dalla scrittura che egli padroneggia e che allo stesso tempo lo domina, Mizuno infatti è così creatore e attore di una serie di vicende deliberatamente ambigue. Ma anche ai lettori Tanizaki gioca un tiro: qual è la vera storia che stanno leggendo?

 

* Erano dette modern girls quelle ragazze che, negli anni Venti, seguivano la moda e stili di comportamento provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti.

 

Rassegna stampa [ottobre 2018]

Hiroji Kubota
L’artigiano della lacca Shoichiro Tasaki. Wajima, Ishikawa, Giappone. 2003. © Kubota Hiroji – Magnum Photos

Navigando qua e là, ecco gli spunti sul Giappone che ho scovato questo mese e che ho più apprezzato:

“Lettere d’autunno” di Yumoto Kazumi

yumoto kazumi lettere d'autunnoUna giornata scialba come tante altre, interrotta dal trillo del telefono: è così che, in pochi minuti, Chiaki scopre che la signora Yanagi, sua vecchia padrona di casa nei brevi anni trascorsi da bambina alla Residenza del Pioppo, è morta.

Sola e solitaria, da poco licenziatasi dall’ospedale in cui lavorava come infermiera, Chiaki d’istinto parte per andare a porgere il suo ultimo saluto alla conoscente, ma il viaggio, in realtà, è ben più lungo e complesso: ripercorre, infatti, nella memoria il lutto per il padre scomparso improvvisamente quando lei era ancora piccina, le angosce e le ossessioni che la attanagliavano, lo spigoloso silenzio della madre. E rivive, con tutto ciò, anche l’incontro/scontro con la signora Yanagi e i suoi mille difetti, le ore trascorse assieme e la promessa dell’anziana di portare con sé nell’aldilà le lettere che Chiaki scriveva al padre. D’altronde, nel quartiere, la bimba non era l’unica a riporre fiducia nelle capacità di messaggera della donna, al punto che molti le avevano affidato gli ultimi messaggi per i propri defunti.

Nel romanzo per ragazze e ragazzi Lettere d’autunno [Popura no Aki](trad. di Maria Elena Tisi, Atmosphere libri, 2018, pp. 150, € 15), Yumoto Kazumi (già autrice del pluripremiato Amici [Natsu no niwa]) affronta in più occasioni e da più prospettive il tema della morte e della sua accettazione, con garbo e senza mai falsi pudori. Esse fanno parte della vita e dello scandire delle sue stagioni, tanto che, come evidenziato nella curata postfazione della traduttrice, trovano sempre più spesso spazio nei libri per giovani lettori.

D’altronde, in una nota che accompagna l’opera, nel tratteggiare le figure della sua bisnonna e della sua nonna materne, la stessa autrice sottolinea con tenerezza il naturale fluire della vita, malgrado tutto e malgrado tutti: più che lasciarci sovrastare dalla sofferenza per la dipartita di chi amiamo, dovremmo custodirne la memoria dei gesti, delle parole, delle speranze.

Rassegna stampa [settembre 2018]

Murakami Haruki fotografato da Kevin Trageser / Redux.
Murakami Haruki fotografato da Kevin Trageser / Redux.

La voce giapponese di Calvino, una storia inedita di Murakami, un saggio per scoprire Miyamoto Teru e altro ancora: buona lettura!

“Tadahiko Wada, intervista al traduttore giapponese di Calvino” di Anna Fusari (su Grado Zero). Il nome dell’uomo, probabilmente, suona sconosciuto ai più: oltre a una lunga carriera nelle vesti di studioso di letteratura italiana e docente universitario, può vantare anche di aver accompagnato Italo Calvino a Kyōto nel 1976.

“Bagliori fatui. I racconti di Miyamoto Teru” di Matteo Maculotti (su Doppiozero). Un densissimo e affascinante saggio breve dedicato a un autore (purtroppo) ancora poco noto in Italia, ma degno di grande attenzione.

– [in spagnolo] “‘Los placeres de la literatura japonesa’, de Donald Keene” di Ana Matellanes García (su koratai.), recensione del volume The Pleasures of Japanese Literature, originariamente pubblicato nel 1988, del grande studioso Donald Keene.

– [in ingles] Per finire, una storia inedita di Murakami, The Wind Cave (tradotta dal giapponese da Philip Gabriel), e una sua intervista curata da Deborah Treisman, entrambi pubblicati nel New Yorker, in attesa che esca il suo nuove romanzo dello scrittore, Killing Commendatore.

“Nipponia Nippon” di Abe Kazushige

nippon nipponia Kazushige AbeLo ricordo di poche parole, serio, coi capelli di un bianco abbagliante; non senza ragione, per molti anni era stato uno dei più rispettabili e rispettati conoscenti della mia famiglia. Così, quando mi fu raccontato che, dopo la morte improvvisa dell’unico figlio, dopo aver meticolosamente tappezzato ogni centimetro di carta, aveva trasformato assieme alla moglie il loro appartamento in un’enorme voliera per uccelli, quasi non volli crederci. Un uomo come lui, tutto d’un pezzo – mi chiedevo – poteva davvero esser diventato schiavo di una simile passione? O, al contrario, l’aveva realizzata al massimo grado?

Questa storia mi è tornata alla mente leggendo Nipponia Nippon di Kazushige Abe (trad. di Gianluca Coci, Edizioni E/O, 2018, pp. 160, € 15); anche il protagonista del romanzo, Haruo, condivide, infatti, una simile idea fissa. Eppure, è solo un ragazzo, un liceale come tanti – non va d’accordo coi genitori, è innamorato di una compagna che non lo ricambia, trascorre ore e ore a navigare su internet. Una serie di incomprensioni lo spingono, però, a chiudersi in se stesso e nel suo mondo: l’unica affinità che percepisce davvero è quella con una rarissima varietà di uccelli, i Nipponia Nippon, di cui sono rimasti pochissimi esemplari custoditi in una riserva naturale.

Era felice come non lo era mai stato, perché sapeva che non c’era niente di più terrificante che dover ammettere di vivere una vita senza senso. (p. 30)

L’interesse dell’adolescente sfocia, in breve tempo, in ossessione e paranoia: sente, infatti, di non poter rimanere impotente di fronte ai soprusi a cui sono sottoposti gli amati animali e decide, perciò, di reagire alla sua maniera.

Alternando diverse modalità di scrittura (pagine web, definizioni del dizionario, report, ecc.) e ricorrendo a uno stile asciutto ma efficace, Kazushige Abe – ritenuto uno dei più rappresentativi scrittori giapponesi contemporanei – ci conduce nella mente di Haruo e rivela, pezzo dopo pezzo, il suo passato, i suoi desideri, i suoi impulsi più reconditi. Sebbene alcuni elementi del romanzo possano apparire in parte deboli o forzati, tanto a livello contenutistico quanto di trama (si vedano, per esempio, i genitori del ragazzo, che hanno un profilo e un comportamento abbastanza stereotipato), la narrazione procede fra accelerazioni e rallentamenti studiati ad arte.

Quel che emerge, riga dopo riga, è una verità amara per lo stesso lettore: nella disperata ricerca di una ragione per cui andare avanti ogni giorno, nel bisogno di amare ed esser amato, Haruo gli assomiglia forse più di quanto pensi e desideri.

 

 

“Io sono un gatto”, il manga di Cobato Tirol

Cobato Tirol, Io sono un gattoVive nel quartiere, conosce i pettegolezzi del vicinato e ne respira le tensioni, eppure sembra superiore a tutto ciò; non a caso, il protagonista del volume è stato più volte definito un filosofo, molto più saggio dei bipedi che lo circondano.

Sto parlando, chiaramente, del grande romanzo di Natsume Sōseki, Io sono un gatto, di cui di recente è apparso il manga firmato Cobato Tirol per l’editore Lindau (2018, pp. 208, € 18), con la traduzione di Federica Lippi (che, peraltro, Daniela di Tradurre il Giappone ha intervistato per il nostro bookclub).

Pur essendo impegnato nelle consuete occupazioni da felino (con l’eccezione, però, che catturare topi non è il suo forte), la bestiola sembra molto più assennata ed equilibrata rispetto agli uomini, i quali, invece, paiono spesso assorbiti in piccole beghe, rivalità e preoccupazioni. In particolare, è stridente il contrasto fra il gatto e il suo padrone, il professor Kushami: tanto uno è saggio, dalla mentalità aperta e alla mano, quanto l’altro inconcludente, testardo e a tratti scontroso. Malgrado ciò, l’animale non può far a meno di affezionarsi a lui e alla sua famiglia, tentando, a suo modo, di proteggerli.

io sono un gatto - tirolTirol è abile nel rendere bene le atmosfere evocate da Sōseki, dedicando speciale attenzione alle espressioni e alle inquadrature; inoltre, sebbene il personaggio principale del libro presenti molte caratteristiche tipiche degli umani, l’illustratrice non ne stravolge mai la natura con smorfie o pose esasperate.

Anche in questa versione, insomma, l’opera non perde nulla della freschezza, dell’ironia e della profondità originarie: sta in ciò, in fondo, la grande forza dei classici.

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