orologio nagasaki bomba atomica
Tomatsu Shomei, “Atomic Bomb Damage: Wristwatch Stopped at 11:02, August 9, 1945, Nagasaki”

  Le vittime della bomba atomica, prima ancora di essere vittime della guerra o dello scontro generato tra nemici e alleati, sono vittime del genere umano.

E’ questa, con buone probabilità, una delle frasi che meglio riassume il senso di una consistente parte dell’opera di Hayashi Kyōko, sopravvissuta – come narra in Nagasaki. Racconti dell’atomica (trad. di M. Suriano, Gallucci editore, 2015, pp. 231, € 18, in offerta a € 15,30) – all’esplosione dell’ordigno nucleare rilasciato sull’omonima città.

Tra il rombo del motore del Bockscar che risaliva e la distruzione della fabbrica ci fu solo il tempo per quelle brevi parole: ‘Un raid!’ E in quel lasso di tempo 73889 persone morirono all’istante. Quasi lo stesso numero, 70499, furono scaraventate fuori nel sole cocente di piena estate, con la pelle scorticata come il coniglio bianco di Inaba.

hayashi keiko nagasakiLe intense storie qui raccolte ci offrono prospettive originali e drammaticamente reali su quanto accaduto non solo il 9 agosto 1945 e nei giorni seguenti, ma anche sulle emozioni, i timori, le ferite che continuarono a percorrere corpi e anime persino a distanza di decenni (“Superstiti da trent’anni. Mi sento come se fossi semplicemente rimasta in vita”). Eppure, non un frase, non una parola suona retorica o patetica; anzi, l’autrice – nella cruda descrizione dei fatti e dei sentimenti – non manca di soffermarsi sulle debolezze e le meschinità dell’animo umano che la disperazione rende più acute, sulla vergogna di appartenere ancora alla terra mentre amici e cari sono scomparsi quasi per mero capriccio del destino.

In molti casi, infatti, la differenza fra la vita e la morte fu determinata da un gesto d’istinto, un inaspettato atto di generosità o una sfortunata coincidenza; è questo il caso di un padre in cerca di tracce del suo ragazzo che, al momento della deflagrazione della bomba, stava seguendo un seminario all’università:

[…] in nessuno dei mucchi [di cenere] trovò la prova evidente della morte del figlio. Si sedette all’interno del cerchio e pensò che forse suo figlio non era morto. Con quella speranza in petto controllò l’ultimo mucchio. Fu allora che trovò la sua penna stilografica. Riconobbe la punta d’oro della robusta penna tedesca che mio pio padre gli aveva regalato quando era entrato all’università. Le lacrime che aveva trattenuto sgorgarono tutte insieme mentre accarezzava le ceneri con entrambe le mani: “Sei morto? Allora sei morto davvero?” Mio zio raccolse prima un pezzo di ossa dal mucchio che sembrava appartenere al professore e lo mise nel fazzoletto. Poi prese un pezzo dal mucchio accanto e anche da tutti gli altri mucchi in circolo. “Ti porto a casa assieme agli altri” disse.

L’impossibilità di lasciarsi alle spalle il passato e la necessità di ricordare sempre, tenacemente, quanto accaduto, spingono senza sosta Hayashi a farsi testimone instancabile di un dolore che non conosce fine: per se stessa, per la propria generazione e, soprattutto, per coloro che non hanno più voce.

I fiori di primavera, le foglie dell’autunno ritornano ogni anno.
E i morti dove sono? Chiamo e chiamo ancora ma non ritornano. […]

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Immagine tratta da qui.

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