Oggi voglio mettere da parte i libri per dare spazio a un reportage molto particolare, dedicato all’attuale scena punk giapponese, impegnata in una lotta attiva contro il nucleare, che va ben oltre la musica. L’articolo ci è stato gentilmente concesso da Valeria Brignani (autrice anche delle foto) ed è già stato pubblicato ne L’Unità del 6 novembre 2012. Buona lettura.
Satoshi si direbbe immobile come un hotai, una statua del Buddha che ride, se non fosse per l’estrema magrezza, la folta chioma cotonata alla Robert Smith e quei timidi passettini che compie per avvicinarsi a noi cercando di farsi notare, ma con discrezione. Sta aspettando con calma impaziente il momento propizio tra i silenzi che interrompono la nostra conversazione, per rivolgermi la parola. Lo fa in un inglese incerto. «Great t-shirt» dice indicandomi ed io chino il capo all’improvviso dubbiosa di ciò che sto indossando. Eppure sì, non ricordo male. Ho una maglietta nera dei Nerorgasmo, band torinese di fine anni Ottanta che ha partorito uno dei più intensi, cupi ed immemorabili dischi della storia del punk italiano. Fossi a Torino o a Milano, in un centro sociale magari, la cosa non mi sorprenderebbe, ma il punto è che sono a Tokyo e chi mi sta facendo i complimenti per la maglietta, è il cantante degli Isterismo, band che sta per salire sul palco all’Antiknock, storico locale punk di Shinjuku.
Gli Isterismo, come i Tomorrow e i Tantrum, appartengono ad un filone di musicisti giapponesi che hanno deciso di cantare in italiano. Nessuno di loro conosce la lingua ed i testi non lasciano dubbi in merito, ma si adattano e improvvisano perché per loro è importante rendere omaggio alla scena punk hardcore italiana. Non sono gli unici.
Adesso che si è aperta una breccia e Satoshi ha cominciato a parlare con noi (tre gaijin in un locale frequentato solo da punk giapponesi), pian piano si avvicinan anche altri. Beviamo e parliamo in un inglese stentato. Se rispondo “Italia”, quando mi chiedono da dove provengo, non dicono pizza-pasta-colosseo, ma «Ah! Italia! Raw Power e Negazione» e mai mi sarei immaginata che certa musica potesse essere ambasciatrice del Belpaese nel mondo. Mi sorprende e mi meraviglia pensare che ci possa essere un tale interesse verso una scena per lo più ignorata e bistrattata in patria, Paese che – ricordiamolo – ha obbligato Claudio Trotta (Barley Art’s), organizzatore dei concerti italiani di Bruce Springsteen, a difendersi in Tribunale perché l’esibizione del Boss aveva sforato di 22 minuti il permesso accordato dalle istituzioni.
Ne parlo con Nori, bassista dei Life, quarantenne del Sendai (luogo del disastro nucleare del 13 marzo 2011), ma che vive da molti anni a Tokyo e cerco di spiegargli che da noi il punk nasce, cresce e vive esclusivamente nei centri sociali, perché i locali fanno davvero fatica ad investire nella musica dal vivo e chi lo fa, si trova spesso a fare i conti con Asl, Arpa, Siae e comitati vari di cittadini indignati.
Tokyo invece, la città che non dorme mai, ospita decine di concerti punk alla settimana. Dal lunedì alla domenica, quasi senza giorni liberi. I locali sono tanti, piccoli e quasi sempre sottoterra come il già citato Antiknock, lo zone-B a Waseda, il 20.000V a Koenji e molti altri. Ospitano minimo cinque gruppi, suonano un quarto d’ora a testa a volumi improponibili, iniziano nel tardo pomeriggio e finiscono entro mezzanotte, giusto il tempo di prendere la metro e tornare a casa senza usare l’auto. Il costo del biglietto è notevole. Si aggira intorno ai venti-venticinque euro (con consumazione), ma in proporzione agli stipendi del giapponese medio non sono granché. Nori, per esempio, con l’acronimo A.C.A.B. (all cops are bastards) tatuato sulle nocche, fa l’operatore sociale due giorni alla settimana e gli basta per vivere. Impallidisce quando gli dico quanto guadagna un O.S. impiegato a tempo pieno in Italia. Le consumazioni invece non differiscono molto dai nostri prezzi (con quattro euro ci si può prendere una media chiara), ma è anche vero che le strade di Tokyo sono seminate di kombini (Convenience Store) aperti 24 ore su 24 e tra un gruppo e l’altro si può assistere all’esodo di decine e decine di teste crestate, chiodi borchiati e anfibi, verso il mini-market all’angolo della via. Tutti acquistano una lattina da mezzo litro di birra (da 1,29 € della Kirin ai 3,30 € dell’Asahi) e la bevono fuori dal negozio, per poi essere richiamati dagli organizzatori dell’evento quanto sta per incominciare a suonare la band successiva. I rituale si ripete alla fine di ogni esibizione e si protrae fino alla conclusione dell’evento, momento in cui si avvicina il poliziotto di quartiere ed invita i sopravvissuti a tornare a casa.
Nori ci dà appuntamento per il giorno successivo. Vuole portarci a spasso per Nakano e dopo averci chiesto se siamo vegani o vegetariani, ci porta a mangiare in un piccolo locale affollato in cui è difficile passare inosservati. Ne’ sui menu e men che meno sulle pareti ci sono scritte in rōmaji (caratteri romani), solo kanji, hiragana e katakana che ci avrebbero reso impossibile qualsiasi forma di dialogo. Ordina lui per noi e aspettando il pranzo (frittata con tofu, sformato di pesce e formaggio e cetrioli con un pesto di tonno essiccato), ci porge tre cd. Sulla copertina c’è la foto di un uomo incappucciato, con una maschera antigas che scruta un apparecchio per rilevare la radioattività dell’ambiente. È una compilation di band di Tokyo militanti nella lotta contro l’energia nucleare. Il titolo del disco è “What a hell. Fukushima”, sottotitolo: “fuck nukes! A compilation by HxRxPx for Fukushima nuclear disaster”. Ci sono dentro numerosi gruppi che abbiamo sentito suonare in questi giorni come Life (il gruppo in cui suona Nori), Pinprick Punishment, Jabara e Vivisick.
l “No Nuke” (no al nucleare) è in un certo senso l’essenza stessa del punk in Giappone, quasi a costituire un genere a sé. Nori in passato ha organizzato numerosi eventi benefit a tal fine e ci racconta che sta per partire come volontario per il Sendai. Gli chiedo se andrà con qualche organizzazione o associazione di solidarietà, ma la risposta è negativa. I punk di Tokyo si auto-organizzano in gruppi spontanei e vanno a dare una mano a chi ha bisogno. «È sicuro? Per voi?» mi permetto di chiedere. Altra risposta negativa, Nori alza le spalle e dice che non è così importante la sua sicurezza. «Who gives a fuck! Look…» Guarda, mi dice, mostrandomi sul cellulare adornato da diversi pupazzetti, la foto di un gatto rosso, cencioso e arruffato. «Lo abbiamo salvato da Fukushima. Nessuno si preoccupa degli animali quando succedono certi disastri».
Questo articolo mi ha molto colpita, e ti ringrazio Annalisa per avercelo proposto. Non sono una appassionata di musica punk, anzi, non so praticamente nulla di questo mondo, a parte che ormai è un movimento che sopravvive alla storia da alcuni decenni. Soprattutto, sono sempre molto interessata e colpita dallo scoprire nuovi lati del Giappone per noi altrimenti non – immaginabili. Volontà, idee chiare, impegno da dove non te lo aspetteresti proprio perchè non sai nulla di alcune realtà, musicali e sociali di un paese così lontano. E poi mi piace questo “ponte” tra punk italiani dei centri sociali e punk nipponici che possono esibirsi normalmente in locali, con un seguito apprezzabile.
Mi piacerebbe leggere ancora qualcosa del genere in futuro, grazie, come sempre, per avere scovato una “chicca” così interessante.