Una bella granita ghiacciata: ecco cosa di cosa ho avuto tremendamente voglia leggendo alcune pagine dell’ultimo romanzo di Banana Yoshimoto, Moshi moshi (trad. di Gala Maria Follaco, pp. 206, € 13; solo ora in offerta a 11,05; se avete voglia di leggere la recensione, guardate qui), pubblicato poche settimane fa.

Perché allora non condividere con voi le parole della scrittrice, nonché la facilissima ricetta del kakigori (la granita alla giapponese), tanto amata da Yoshie, la protagonista del libro, scegliendo una delle varianti più note e appetitose?

kakigori, green teaKakigori al tè verde (di Setsuko Yoshizuka; tratta dal golosissimo sito Japanese Food)

Ingredienti per 1 porzione

  • 1 cucchiaino di polvere di tè verde
  • 2 cucchiaini di zucchero
  • 2 cucchiai di acqua bollente
  • 2 cucchiai di latte condensato (facoltativo)
  • 2 cucchiai di anko, la marmellata di azuki (ricetta)
  • ghiaccio

Preparazione

  1. Sciogli la polvere di tè verde e lo zucchero in due cucchiai di acqua calda, fino a ottenere una specie di sciroppo. Lascialo raffreddare e versalo in una coppetta.
  2. Tritura il ghiaccio e aggiungilo allo sciroppo, mescolando il tutto.
  3. Guarnisci con anko; se vuoi, puoi addolcire il kakigori utilizzando latte condensato.

***

Infine, ecco il brano in cui Yoshie racconta come una granita sia riuscita a cambiarle la vita:

In seguito alla scomparsa di mio padre, per qualche tempo non ho avuto appetito. Una domenica pomeriggio, io e la mamma ce ne stavamo chiuse ognuna nella sua stanza, perché tutto ci sembrava opprimente. Avevo lo stomaco vuoto, ma nessuna voglia di mangiare. Se pure mi fossi messa a cucinare qualcosa, persino il kayu (NdT: “pasto semiliquido ottenuto dalla bollitura del riso per un lasso di tempo prolungato”) e le zuppe mi sarebbero sembrati pesanti. Avevo comperato delle verdure perché volevo farle in insalata, ma poi quel verde mi era parso abbagliante, e la voglia di mangiarle era passata.

Mentre strofinavo la schiena calda di mia madre, che nel letto piangeva e tirava su col naso, le dissi:
Senti, mamma. Non c’è qualcosa che ti andrebbe di mangiare? Proviamo a bere o a mangiare, anche solo un po’. Altrimenti ci indeboliremo ancora di più”.

Mia madre rispose all’istante: kakigori, granita giapponese
“Una granita”.

Era un’estate caldissima.
[…]
Feci alzare mia madre e mi infilai in un taxi insieme a lei, ancora praticamente in pigiama. Ci dirigemmo a Shimokitazawa. Avevo in mente il ristorante Les Liens, in cui ero stata tante volte con i miei amici, e che serviva la miglior granita che avessi mai assaggiato. Non appena aprii la porta del locale, il vento fresco del condizionatore si mescolò al calore, e una sensazione indefinita si impossessò del mio corpo. Senza esitare andammo a sederci nell’angolo più interno, vicino alla finestra, e insieme tirammo un sospiro.

La luce estiva penetrava attraverso il vetro e scottava sul braccio destro. Mia madre guardava fuori in silenzio. Ovunque andassimo, avevamo l’aspetto di due persone infelici, miserabili, abbandonate. La cuoca – che adesso chiamo Michiyo, ma di cui allora non conoscevo il nome – arrivò sorridente, col suo portamento aggraziato e impeccabile, e ci disse:
“Avete tutto il tempo che desiderate”.

Ordinammo granita al mango, alla pesca bianca e al ribes. I pezzetti di ghiaccio erano minuscoli, la frutta ottima. Quella dolcezza mi entrò nel cuore e nello stomaco, sembrava cibo del paradiso. Mi resi conto che la mia mente si stava prendendo una pausa, che stava assaporando una ventata di freschezza, dopo tutto quel tempo passato a farsi domande e a darsi risposte, a provare rimorso, in un moto vorticoso e continuo, senza posa. Anche il vento caldo che di tanto in tanto entrava dalla porta spalancata era gradevole.

Mia madre mormorò:
“Ho come la sensazione che mi si sia aperto lo stomaco”.

kakigori, granita giapponeseGli interni erano rimasti quelli originali del vecchio edificio, per cui sembrava proprio di trovarsi in un bistrot di una stradina di Parigi; era un po’ come se stessimo viaggiando, e la cosa ci piaceva. Per molto tempo non avevamo mandato giù quasi nulla che non fosse caffellatte, o biscotti, o una zuppa già pronta. Ordinammo una grande insalata con cereali e la dividemmo. Era guarnita con pane francese abbrustolito, tantissimo prosciutto crudo e cereali. C’erano anche piccole pannocchie fresche, pomodorini, gombo e cereali in quantità, mescolati a una lattuga freschissima.

Con aria assente, come parlando a se stessa, mia madre disse:
“È incredibile, sento che è buono. Per la prima volta dopo tanto tempo gusto i sapori. Il corpo continua a vivere anche se l’anima è morta”.

Dopo la granita divorammo l’insalata, poi bevemmo del caffè e finalmente ci rasserenammo.
Pensai che erano mesi che non provavamo momenti sereni. Guardavo distrattamente fuori dalla finestra. Il fluire del tempo nel ristorante era naturale, era un tempo solo mio, che nessuno poteva togliermi.

 

Foto tratte da Postcrossing, San Diego Magazine, Food Gawker.

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