Bambini che giurano fedeltà alla bandiera americana. © Dorothea Lange

Dopo aver recensito Venivamo tutte per mare (qui il mio intervento), oggi sono felice di poter intervistare Silvia Pareschi, la traduttrice che ci ha dato la possibilità di leggere il romanzo di Julie Otsuka in una bellissima versione italiana.

Silvia ha tradotto mostri sacri del livello di Jonathan Franzen, Don DeLillo, Cormac McCarthy e E. L. Doctorow, solo per fare qualche nome, collaborando con Mondadori ed Einaudi.

Cura inoltre un blog, Nine hours of separation (http://ninehoursofseparation.blogspot.com), in cui annota da San Francisco – città in cui vive – riflessioni acute e spesso ironiche su letteratura, cultura, attualità e, naturalmente, sulla traduzione in tutte le sue sfaccettature.

 

Biblioteca giapponese (da ora abbreviata BG): Silvia, innanzitutto grazie per avermi concesso questa intervista.
Molte delle opere di cui ti sei occupata appartengono alla letteratura statunitense. Nel leggere e, successivamente, nel tradurre Venivamo tutte per mare – nato in seno all’idioma inglese – hai captato delle qualità (letterarie, stilistiche, linguistiche…) o degli scarti peculiari? Si percepisce insomma, a tuo parere, quella che, genericamente, potrebbe esser chiamata impronta giapponese?

Silvia Pareschi (da ora abbreviata SP): Uno degli elementi che più colpiscono nella struttura del romanzo è la voce narrante, una voce corale, un “noi” collettivo che da un lato annulla  l’individualità e dall’altro rende la narrazione più potentemente universale. A mio parere, l’impronta giapponese del libro consiste proprio in questo modo se vogliamo pudico di raccontare una storia così dolorosa, rifuggendo dall’immedesimazione in un io accentratore per cercare di comprendere in sé più voci e più storie. Anche nel precedente romanzo di Julie Otsuka si trova qualcosa di simile, i personaggi perdono un po’ della propria individualità per diventare parte di un noi collettivo, ma in quel caso l’autrice raggiunge il suo scopo in un modo diverso (che non vi svelo).

BG:Nella tua opera di traduzione del romanzo, c’è stato qualche elemento che ti è costato maggiormente fatica rendere in italiano (in termini di brani, lessico, caratteri stilistici…), oppure non hai trovato difficoltà?

Madre e figlia nippo-americane. © Dorothea Lange

SP: Mi è stato chiesto se ho trovato difficoltà nel tradurre uno stile apparentemente semplice come quello di Otsuka. La verità è che non si tratta di apparenza: la scrittura di Otsuka è bella proprio perché è semplice, e nella sua semplicità arriva a toccare vette di emozione e purezza che nulla di artefatto e sofisticato potrebbe raggiungere. Forse è dipeso anche dal fatto che ho amato molto questo libro e l’ho sentito vicino fin dall’inizio, e perciò tradurlo è stata un’esperienza quasi unica: bellezza e semplicità unite in ogni frase, una scrittura che scorreva via con una fluidità quasi esaltante.

BG: Una curiosità: il titolo originale dell’opera è The Buddha In The Attic; a chi va attribuita la decisione di modificarlo in Venivamo tutte per mare e perché?

SP: La decisione è stata presa dalla casa editrice, come sempre avviene per i titoli dei libri. Probabilmente si è pensato che Il Budda in soffitta non suonasse bene, e si è deciso di sostituirlo con un titolo che in italiano avesse un suono più evocativo. La scelta, che mi trova pienamente d’accordo, è stata naturalmente concordata con l’autrice.

BG: In Venivamo tutte per mare emergono chiaramente i differenti atteggiamenti che gli americani dimostrarono nei confronti dei giapponesi trasferitisi negli States: talvolta stima e affetto, ma più spesso, purtroppo, diffidenza, disprezzo e addirittura odio xenofobo. Soprattutto a partire dall’attacco a Pearl Harbor (1941), il governo  prese duri provvedimenti contro gli immigrati nipponici, come l’internamento in campi di prigionia (1942). Al giorno d’oggi, gli statunitensi ricordano ancora questa pagina della loro storia, o ne hanno perso – volutamente o meno – memoria?

SP: Come potrai immaginare, mi sono interessata molto a questo episodio poco noto della storia americana mentre traducevo il libro. Ho raccolto materiale, ho parlato con persone i cui vicini di casa giapponesi erano stati vittime delle deportazioni, e ho parlato anche con l’autrice, che ho conosciuto e con cui ho avuto un paio di gradevolissime conversazioni. La storia della deportazione dei giapponesi è piuttosto nota sulla costa occidentale degli Stati Uniti – o perlomeno qui a San Francisco, città che è stata uno degli epicentri della vicenda – ma straordinariamente ignorata nel resto del paese. Esistono pochi libri che ne parlano, e soprattutto pochissimi libri di narrativa. Credo che questo sia in parte dovuto anche agli stessi nippo-americani, che hanno trattato la vicenda con molto pudore e pochissimo clamore, cercando di prenderne le distanze e di dimenticarla al più presto una volta conclusa.

Negozio di nippo-americani il giorno seguente all'attacco giapponese di Pearl Harbor. © Dorothea Lange

BG: Tu vivi a San Francisco, città in cui sbarcarono migliaia e migliaia di donne giapponesi, come raccontato nel romanzo. Dopo esserti immersa nella traduzione, ora che effetto ti fa vedere il porto, sapendo che per tutte quelle emigranti ha rappresentato la fine di ogni illusione e l’inizio di una nuova vita, fatta di stenti e fatica?

SP: Più che al porto, la memoria della vicenda è conservata a Japantown, la zona di San Francisco dove si concentra la maggior parte della popolazione nippo-americana, e dove si trovano cartelli che raccontano la storia dell’emigrazione giapponese. Per il resto, la storia dell’America moderna è fatta delle sofferenze collettive degli immigrati, di tutte le nazionalità. In particolare, la costa occidentale ha storicamente accolto – per così dire – soprattutto immigrati asiatici e latinoamericani, molti dei quali sono andati incontro a una vita di stenti e fatica.

BG: Un’ultima domanda prima di salutarci. Possiamo sperare di vedere pubblicato in Italia When The Emperor was divine (2003), il precedente romanzo di Julie Otsuka, tradotto da te?

SP: Certo, potete contarci! E vi assicuro che sarà bello come questo.

 

Tutte le foto presenti nell’intervista sono state scattate da Dorothea Lang e ritraggono nippo-americani negli anni della seconda guerra mondiale, l’epoca in cui è in parte ambientato Venivamo tutte per mare; sono tratte da http://johnedwinmason.typepad.com e http://www.annedarlingphotography.com.

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.