Poteva essere un mattino denso di nebbia o un tramonto piovigginoso. Alcune, trascinando le valigie, avevano già gli occhi umidi di tristezza; altre sorridevano e salutavano a gran voce.

Erano migliaia e migliaia. Tutte donne, tutte giapponesi, tutte in procinto di partire per sposare un anonimo conterraneo che viveva in America, dall’altra parte di un oceano che certe ragazze dell’entroterra non sapevano neppure immaginarsi. A ciascuna lui – e non importa se si chiamasse Kato, Jin o Tetsuya – aveva promesso una villetta, una Ford, un piccolo giardino ben curato con la staccionata appena dipinta.

Sbarcate a terra, trovarono mariti che le assaltavano nel sonno con furia, o che le guardavano appena; trovarono catapecchie in cui dormire e ville in cui servire in silenzio, e filari e filari da coltivare su cui spaccarsi la schiena sotto il sole della California per un padrone pallido mai visto. Trovarono figli indesiderati nel ventre e malattie sconosciute che prosciugavano il loro corpo, ricordo di qualche puttana amata una notte dall’uomo che aveva giurato loro fedeltà.

Le innumerevoli storie  di queste donne – sconosciute ai più e, forse, volutamente taciute da molte – sono state raccolte assieme in un’unica, grande voce corale da Julie Otsuka, artista statunitense  d’origine nipponica, nel suo Venivamo tutte per mare, tradotto dalla bravissima Silvia Pareschi (qui potete trovare l’intervista che mi ha rilasciato), edito da poche settimane per i tipi Bollati Boringhieri (pp. 142, € 14; ora in offerta su Amazon.it cliccando qui a € 11,05).

Il romanzo si frantuma così in una moltitudine di narrazioni che si alternano senza sosta all’interno di un’unica, smisurata voce corale, asciutta ma avvolgente, capace di adattarsi a ogni ruga, ad ogni muscolo, a ogni sguardo di questa grande massa anonima, dalla pelle gialla mangiata dal sole o corrosa dai detersivi, che affollò campi di fragole, lavanderie, bordelli, sottoscala.

Una moltitudine fatta però di Keiko, di Midori, di Chie, di vergini, di madri clandestine, di amanti, ciascuna con il proprio carattere e una matassa di pensieri che non interessavano a nessuno. Le stesse donne che, insieme ai loro mariti, dopo aver servito – nel senso più letterale della parola – gli Stati Uniti per anni furono non di rado vittima degli xenofobi e, soprattutto, dei provvedimenti governativi. Dopo l’attacco a Pearl Harbor (1941), difatti, in piena seconda guerra mondiale, circa centoventimila nippo-americani furono rinchiusi in campi di prigionia (definiti con ipocrisia di relocation, di ri-collocazione territoriale), a prescindere dal credo, dall’impegno politico, dall’età.

A distanza di settant’anni, tutto ciò pare oggi quasi dimenticato, per vergogna o pudore, chissà. Restano però le parole di Julie Otsuka e le immagini della fotografa Dorothea Lange (conosciuta grazie alla mia amica Giusi, che ringrazio). Una, in particolare, scattata probabilmente all’arrivo nelle aree di internamento, mi ha colpito.

Pini in bianco e nero sullo sfondo. La fanciulla giunta anni prima col piroscafo ha abbandonato il kimono e i geta: ora posa con la famiglia davanti l’obiettivo, indossando il suo miglior cappellino, ma si distrae un attimo prima del flash. Stretto in un’improbabile giacca rockabilly, Mochida san – o Mr Mochida, come lo chiamano in città – accenna persino un sorriso. I sette figli sono disposti a scaletta. Metà di loro ha una grossa etichetta bianca cucita addosso. Proprio come i bagagli ai loro piedi.

L’incipit del romanzo, guarda qui; per leggerne un brano, vedi lo speciale san Valentino.

1 commento il Una sola moltitudine: “Venivamo tutte per mare” di J. Otsuka

  1. letto il libro pochi giorni fa…devo dire che della storie (storia) raccontate non ne sapevo quasi nulla. Lo stile del romanzo mi è piacito molto, l’uso di un singolare plurale che mantiene le differenze, ma sottolinea la comunanza.

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