Se abbia visto prima la luce l’uovo o la gallina, è questione che i filosofi, dai tempi di Aristotele, non sono ancora riusciti a sciogliere. Per quanto riguarda la nascita dell’amore tra la cosmopolita Amélie e Rinri, la soluzione si annida senz’altro fra le uova, anzi, per esser più precisi tra le “‘œufs” che lei, in veste di improvvisata insegnante di francese, tenta in ogni modo di far pronunciare correttamente al giovane studente giapponese.
E così, a colpi di simil-fonduta svizzera, okonomiyaki ed espressioni improbabili, tra i due si stabilisce una relazione tenera eppure contraddittoria, raccontata con ironia e sincerità nel breve romanzo Né di Eva né di Adamo di Amélie Nothomb (traduzione di M. Capuani; Voland, pp. 169, € 8, in offerta a 6,80), ambientato in una Tokyo opulenta e a tratti conformista, sul finire degli anni Ottanta.
Il rapporto con Rinri, perfetto gentiluomo d’altri tempi malgrado l’età, diviene per la protagonista uno strumento per ripensare le proprie radici occidentali e il significato stesso della parola ‘cultura’, fin nelle sue più sottili sfumature; eppure, i sentimenti dei due non appaiono mai lost in translation, intorbiditi o incrinati nel passaggio da un codice (linguistico, comportamentale, emotivo, tradizionale…) all’altro, anzi si alimentano e si arricchiscono soprattutto grazie agli scarti tra usi, costumi e linguaggi completamente differenti.
Quello che provavo per lui non aveva un nome in francese moderno, ma in giapponese sì, perchè il termine koi gli si addiceva. Koi in francese classico si può tradurre con “diletto”. Mi procurava diletto. Lui era il mio koibito, colui con il quale condividevo il koi: provavo diletto in sua compagnia.
In giapponese moderno, tutte le giovani coppie non sposate usano per il loro partner la definizione di koibito. Un pudore viscerale bandisce la parola amore. Salvo incidenti o picchi d’amore passionale, questa parola enorme non viene mai utilizzata, è riservata alla letteratura o a quel genere di cose. Mi era andato a capitare l’unico giapponese che non disdegnava né questo vocabolario né i comportamenti che ne conseguivano. Ma il pensiero che l’esotismo linguistico doveva aver ampiamente contribuito a questa stramberia mi rassicurò. Non a caso le dichiarazione di Rinri rivolte a una francofona venivano enunciate sia in francese sia in giapponese: la lingua francese rappresentava indubbiamente quel territorio prestigioso e licenzioso a un tempo dove ci si poteva abbandonare a sentimenti inconfessabili.
L’amore è uno slancio così francese che alcuni vi hanno visto un’invenzione nazionale. Senza arrivare così lontano, ammetto che in questa lingua c’è un nume amoroso. Forse si può dire che Rinri e io avevamo contratto entrambi l’inclinazione tipica della lingua dell’altro: lui giocava all’amore, inebriato da questa novità, e io mi dilettavo del koi. Il che dimostrava quanto fossimo entrambi ammirevolmente aperti alla cultura dell’altro.
Il koi aveva un solo difetto: il nome, l’omonimo perfetto della carpa, l’unico animale che mi abbia mai ispirato repulsione. (p. 49)
La storia d’amore offre ad Amélie anche la possibilità di riconciliarsi con il Giappone, la terra che le ha dato i natali e nel quale ha vissuto uno scorcio d’infanzia. Il paese dei cachi maturi, delle odiate carpe, del venerato Fuji e persino della vessazioni vissute sulla propria pelle in azienda (narrate in Stupore e tremori) l’accoglie nuovamente, costringendola però a confrontarsi con se stessa e, soprattutto, con il significato del termine libertà.
Quanto vale allora la felicità che ci procura l’altro, dal momento che “[…] il piacere bisogna[va] sempre pagarlo”? “E perché il prezzo della voluttà comporta[va] inevitabilmente la perdita della leggerezza originaria?” A tutti questi interrogativi è impossibile dare risposte, sin dalla notte dei tempi: in fondo, persino nel perfetto giardino dell’eden, l’amore – di qualunque tipo – assomiglia sempre a una fuga, una fuga da noi stessi, da ciò che temiamo, da ciò che paradossalmente amiamo.
Nella foto (tratta da qui) statua di Adamo ed Eva a Tokyo.
Il libro è delizioso e lo consiglio, dopo Metafisica dei tubi e Stupori e tremori, anche questi ambientati in Giappone.
Anch’io ero rimasta estasiata dalla parte del libro che citi tu: http://secondodreca.altervista.org/renai-2
Questo per me era stato il primo libro e ne rimasi folgorata. La Nothomb ha uno stile tutto suo, delicato e forte allo stesso tempo…
@Barbara: in quanto a bellezza, credo che “Metafisica dei tubi” e “Né di Eva né di Adamo” per me siano a pari merito. “Stupori e tremori” dovrei rileggerlo, ma credo che la tematica si presti di per sé ad essere apprezzata di meno.
@Dreca: penso che il brano citato da entrambe sia in assoluto una delle parti più belle del libro, perché riesce con pochi tratti a far luce su una relazione (facendone trapelare anche le difficoltà) e su due diverse concezioni dell’amore, capovolgendo però quelli che dovrebbero essere i destinatari naturali di esse: Rinri nutre una vera devozione cavalleresca per Amèlie, mentre quest’ultima prova solo ‘diletto’. Credo sia una bella lezione per tutti coloro che ritengano la cultura nipponica inconciliabile con quella occidentale (ma in realtà quale sarebbe LA cultura occidentale?), tirando sempre in ballo quello spazio grigio e ambiguo in cui ci si sente “lost in translation”.