E dopo l’editoriale di Amitrano, oggi vi presento una sorta di lettera aperta di Antonietta Pastore (traduttrice a lungo residente in Giappone), tratta dal sito della casa editrice Einaudi, per cui lei ha curato Leggero il passo sui tatami e Nel Giappone delle donne, nonché alcune opere di Murakami. Ecco il testo:

Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici…
Davanti alle immagini del terremoto e dello tsunami più devastanti che la storia del Giappone ricordi, benché il suo popolo non sia stato vittima della follia omicida degli esseri umani, ma della violenza innocente della natura, sono queste parole di Primo Levi a tornarmi in mente con insistenza. Perché per quanto ci si possa sentire partecipi del dolore e dell’angoscia dei giapponesi, resta il fatto che loro sono lì, in uno stato di totale incertezza ed estrema privazione, e noi invece qui, nella confortevolezza delle nostre abitudini quotidiane. Sono immagini difficili da sopportare quelle che vediamo scorrere sugli schermi dei nostri televisori: un uomo che cerca il figlio sepolto sotto macerie irriconoscibili, una mamma che solleva le braccia del suo bambino perché venga controllato dal rilevatore di radioattività, un vecchio – unico sopravvissuro della sua famiglia – che si stringe al petto un cagnolino, una donna che contempla attonita un ammasso surreale di detriti sul luogo dove un tempo sorgeva la sua casa… Di fronte a queste scene e al senso di perdita che ci trasmettono, non possiamo che ammirare il ritegno con cui i giapponesi esprimono il proprio dolore. Ma questo ritegno fa parte della loro cultura e della loro identità: manifestare in modo plateale i propri sentimenti, per queste persone cui non resta quasi nulla, equivarrebbe a smarrire anche il senso di sé, in un momento in cui, per sopravvivere, vi si devono aggrappare con tutte le forze.

Il divario fra la tragica situazione delle zone sinistrate e la nostra seppur relativa sicurezza è tale da provocare in noi – impotenti, se non in minima misura, ad alleviare la sofferenza di tanta gente – frustazione e sgomento. In un angolo della nostra coscienza però si acquatta anche, malgrado la tristezza, il sollievo di non essere noi le vittime, di non esserci trovati lì nel momento sbagliato – avrebbe potuto accadere, prima dello tsunami l’incantevole costa di Matsushima era una meta turistica –, di non essere un abitante di Sendai, di non vivere vicino a quelle centrali nucleari che stanno rilasciando il loro micidiale veleno e potrebbero esplodere da un momento all’altro. E questo sollievo per essere sani e salvi, insieme ai nostri cari, nell’ambiente che ci è familiare, a sua volta ingenera sensi di colpa, che cerchiamo di alleviare inviando denaro, versando qualche lacrima, scambiando meste considerazioni con amici e conoscenti, mostrandoci afflitti.
La vita quotidiana però ci impone il suo ritmo, allontanando la nostra attenzione dalla sciagura che ha colpito il popolo giapponese. Nelle prima pagine dei giornali questa ha già lasciato il posto ad eventi più vicini a noi, e gli articoli che ancora ne parlano si occupano più del rischio nucleare e degli spostamenti della nube radioattiva, che dello strazio di decine di migliaia di persone. Tornare alle occupazioni ordinarie è d’altronde un processo inevitabile e necessario. Anche in Giappone, dove la popolazione non direttamente coinvolta nell’emergenza continua a lavorare, a fare acquisti, a studiare, ma anche a svagarsi e a divertirsi: nelle zone lontane dalla costa nord-orientale, cinema, ristoranti e locali notturni, dopo un primo momento di shock, hanno ripreso a funzionare a pieno ritmo.
Col passare dei giorni, il pensiero torna sempre meno a quanto accaduto nelle regioni di Iwate, Miyagi e Fukushima l’11 marzo 2011. E noi occidentali, una volta messa a posto la coscienza con una donazione, o con qualche preghiera se siamo credenti, ci rassegniamo a lasciare che le cose facciano il loro corso, rassicurati dalla convinzione che i giapponesi, con l’efficienza e il coraggio consueti, sapranno tirarsi su e ricostruire ciò che è stato distrutto.
E non ci sbagliamo, perché ci riusciranno. Tuttavia, qualcosa di buono per loro lo possiamo fare anche noi, qualcosa di cui saremo i primi a trarre beneficio.

In questi giorni abbiamo visto, sugli schermi che riempiono le nostre tiepide case, persone che hanno perso tutto, provate dal dolore, dalla fatica, dalle privazioni, dal disagio di stare ammassate a centinaia in ricoveri di fortuna. E abbiamo imparato a riconoscere sui loro volti e nei loro atteggiamenti, al di là della compostezza, i segni della sofferenza; ad apprezzare la loro umanità; a intuire in loro la capacità di soffrire, di gioire e di amare quanto e come noi. Allora cerchiamo di ricordarla, questa verità che abbiamo intravisto nelle lacrime furtivamente asciugate e nei singhiozzi a fatica repressi, cerchiamo di non confinare di nuovo i giapponesi in quell’immagine stereotipata – gentili ma distanti, sorridenti ma inaffettivi – che in modo del tutto arbitrario, per ignoranza, abbiamo creato e a lungo conservato. Continuiamo a sentirci vicini a loro, uniti e solidali nella comune sorte umana.

Foto tratte da qui e qui.

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