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Una riflessione sul terremoto dello scrittore “otaku” Hiroki Azuma

A distanza da un mese esatto dai tragici eventi che hanno funestato il Giappone, condivido con voi un articolo apparso nei giorni scorsi su “La Repubblica”. Si tratta di una riflessione di Hiroki Azuma, già autore di Generazione otaku, riguardante il terremoto dell’11 marzo.

Mentre camminavo verso casa, cercando di resistere alle scosse di assestamento che mi spingevano il cuore il gola, pensavo a come riuscire a parlare con mia moglie. Erano già tre ore che non riuscivo a contattarla, da quando avevo sentito la prima scossa nel mio ufficio, e poi la seconda nelle scale, diventate improvvisamente sabbie mobili. Questo non è un terremoto, ho pensato subito. E’ una guerra. Certo che noi giapponesi siamo abituati ai terremoti. Ci prepariamo fin da piccoli, abbiamo le esercitazioni, le simulazionie le prove vere perché ognuno di noi, a un momento o l’ altro della vita, deve affrontare almeno un sisma grave. Sai che ti toccherà, prima o poi. Sappiamo anche che esistono gli tsunami, molti genitori o nonni raccontano favole sul mare “arrabbiato”, i bambini spesso disegnano degli omini capaci di camminare sulle onde, è il superpotere che tutti sognano di avere. Eppure mai nessuno di noi aveva neanche immaginato questo terremoto, né questo tsunami. In strada, dopo i primi minuti di panico controllato, quella strana calma che noi giapponesi abbiamo anche in queste grandi prove, ho incominciato a sentire una paura nuova. Il mio cellulare era staccato, la rete di Internet funzionava a singhiozzo. A quel punto, la mia unica preoccupazione era riuscire a comunicare. Lavoro al Tokyo Institute of Technology, come tutti quelli della mia generazione sono anche io un “otaku”. Sono cresciuto in mezzo ai fumetti, cartoni animati e videogiochi, mi hanno educato al mito della potenza tecnologica e la mia è la cultura dello “stare in casa”, il significato letterale della parola “otaku”. L’ assenza di comunicazione è diventato un pensiero fisso. Una sensazione mai provata per quelli come me abituati a essere eternamente connessi. Dal mio ufficio ho dovuto camminare quasi cinque chilometri per arrivare a casa. Non c’ erano più autobus, né metropolitana. Ero in luogo aperto, insieme a molte altre persone, ma mi sentivo improvvisamente solo. Come se il black-out nelle comunicazioni fos se già un principio di morte. Alla fine, mi sono fermato in una cabina telefonica. Ce n’ è ancora qualcuna a Tokyo. L’ ultima volta che l’ avevo usata dovevo essere un ragazzino. Ma ecco che la vecchia cabina telefonica funzionava. Grazie a questo arnese del passato sono riuscito a parlare finalmente con mia moglie che era tornataa casa, dopo essere passata a prendere mia figlia piccola a scuola. Tutte e due stavano bene. Anche loro aspettavano di parlarmi. «Papà cosa è successo?» è stata la prima domanda di mia figlia, appena sono arrivato. Ci siamo abbracciati, mia moglie ha pianto. Le abbiamo detto la verità. Una bambina di cinque anni è abbastanza grande per capire. Almeno lo spero. Domani tornerà a scuola, insieme ai suoi compagni. Io andrò in ufficio. Dovremo cercare di tornare a una vita normale, perché solo così il Giappone potrà farcela. Ciò che sta accadendo ha superato i nostri peggiori incubi. Faccio lo scrittore, ma da venerdì [11 marzo] non sono ancora stato capace di mettere in parole quello che stiamo vivendo. Se non, forse, che questa è una guerra, o almeno qualcosa che assomiglia a come la immagino, visto che ho quarant’ anni e non ho mai conosciuto un conflitto vero. Le conseguenze di questo terremoto sono ancora imprevedibili. Il bilancio delle vittime è tale che ci vorranno anni per superare il lutto. La ricostruzione sarà faticosa. La nuova minaccia nucleare ci renderà comunque più fragili e ci porterà a cambiare le nostre convinzioni, probabilmente anche le nostre abitudini di vita. Per noi giapponesi niente sarà mai più come prima. E la generazione di mia figlia sarà per sempre quella che ha vissuto l’ 11 marzo 2011. (Testo raccolto da Anais Ginori)

Due iniziative per aiutare il Giappone

Per raccogliere fondi a favore della ricostruzione del Giappone e dei sopravvissuti, si stanno organizzando in tutta Italia (e non solo) numerosi eventi; vi propongo oggi due delle moltissime iniziative in corso.
La prima avrà luogo domani pomeriggio, sabato 2 aprile, a Ostia (Roma), presso la parrocchia di santa Monica (Piazza di Santa Monica 1): dalle 16 alle 18 si terrà un mercatino di prodotti artigianali giapponesi (origami, dolci, opere di calligrafia, piatti nipponici, etc.), seguito alle ore 19,15 da un concerto tenuto dai due soprano Keiko Morikawa e Nagi Fukuda, accompagnati al pianoforte da Yukari Nakayama.
La seconda proposta d’aiuto è molto originale ed è frutto della fantasia di una giovane studentessa italiana, Caterina.

Ascoltate il suo messaggio su Youtube qui sotto:

“Cosa possiamo fare per il Giappone” di A. Pastore

E dopo l’editoriale di Amitrano, oggi vi presento una sorta di lettera aperta di Antonietta Pastore (traduttrice a lungo residente in Giappone), tratta dal sito della casa editrice Einaudi, per cui lei ha curato Leggero il passo sui tatami e Nel Giappone delle donne, nonché alcune opere di Murakami. Ecco il testo:

Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici…
Davanti alle immagini del terremoto e dello tsunami più devastanti che la storia del Giappone ricordi, benché il suo popolo non sia stato vittima della follia omicida degli esseri umani, ma della violenza innocente della natura, sono queste parole di Primo Levi a tornarmi in mente con insistenza. Perché per quanto ci si possa sentire partecipi del dolore e dell’angoscia dei giapponesi, resta il fatto che loro sono lì, in uno stato di totale incertezza ed estrema privazione, e noi invece qui, nella confortevolezza delle nostre abitudini quotidiane. Sono immagini difficili da sopportare quelle che vediamo scorrere sugli schermi dei nostri televisori: un uomo che cerca il figlio sepolto sotto macerie irriconoscibili, una mamma che solleva le braccia del suo bambino perché venga controllato dal rilevatore di radioattività, un vecchio – unico sopravvissuro della sua famiglia – che si stringe al petto un cagnolino, una donna che contempla attonita un ammasso surreale di detriti sul luogo dove un tempo sorgeva la sua casa… Di fronte a queste scene e al senso di perdita che ci trasmettono, non possiamo che ammirare il ritegno con cui i giapponesi esprimono il proprio dolore. Ma questo ritegno fa parte della loro cultura e della loro identità: manifestare in modo plateale i propri sentimenti, per queste persone cui non resta quasi nulla, equivarrebbe a smarrire anche il senso di sé, in un momento in cui, per sopravvivere, vi si devono aggrappare con tutte le forze.

Il divario fra la tragica situazione delle zone sinistrate e la nostra seppur relativa sicurezza è tale da provocare in noi – impotenti, se non in minima misura, ad alleviare la sofferenza di tanta gente – frustazione e sgomento. In un angolo della nostra coscienza però si acquatta anche, malgrado la tristezza, il sollievo di non essere noi le vittime, di non esserci trovati lì nel momento sbagliato – avrebbe potuto accadere, prima dello tsunami l’incantevole costa di Matsushima era una meta turistica –, di non essere un abitante di Sendai, di non vivere vicino a quelle centrali nucleari che stanno rilasciando il loro micidiale veleno e potrebbero esplodere da un momento all’altro. E questo sollievo per essere sani e salvi, insieme ai nostri cari, nell’ambiente che ci è familiare, a sua volta ingenera sensi di colpa, che cerchiamo di alleviare inviando denaro, versando qualche lacrima, scambiando meste considerazioni con amici e conoscenti, mostrandoci afflitti.
La vita quotidiana però ci impone il suo ritmo, allontanando la nostra attenzione dalla sciagura che ha colpito il popolo giapponese. Nelle prima pagine dei giornali questa ha già lasciato il posto ad eventi più vicini a noi, e gli articoli che ancora ne parlano si occupano più del rischio nucleare e degli spostamenti della nube radioattiva, che dello strazio di decine di migliaia di persone. Tornare alle occupazioni ordinarie è d’altronde un processo inevitabile e necessario. Anche in Giappone, dove la popolazione non direttamente coinvolta nell’emergenza continua a lavorare, a fare acquisti, a studiare, ma anche a svagarsi e a divertirsi: nelle zone lontane dalla costa nord-orientale, cinema, ristoranti e locali notturni, dopo un primo momento di shock, hanno ripreso a funzionare a pieno ritmo.
Col passare dei giorni, il pensiero torna sempre meno a quanto accaduto nelle regioni di Iwate, Miyagi e Fukushima l’11 marzo 2011. E noi occidentali, una volta messa a posto la coscienza con una donazione, o con qualche preghiera se siamo credenti, ci rassegniamo a lasciare che le cose facciano il loro corso, rassicurati dalla convinzione che i giapponesi, con l’efficienza e il coraggio consueti, sapranno tirarsi su e ricostruire ciò che è stato distrutto.
E non ci sbagliamo, perché ci riusciranno. Tuttavia, qualcosa di buono per loro lo possiamo fare anche noi, qualcosa di cui saremo i primi a trarre beneficio.

In questi giorni abbiamo visto, sugli schermi che riempiono le nostre tiepide case, persone che hanno perso tutto, provate dal dolore, dalla fatica, dalle privazioni, dal disagio di stare ammassate a centinaia in ricoveri di fortuna. E abbiamo imparato a riconoscere sui loro volti e nei loro atteggiamenti, al di là della compostezza, i segni della sofferenza; ad apprezzare la loro umanità; a intuire in loro la capacità di soffrire, di gioire e di amare quanto e come noi. Allora cerchiamo di ricordarla, questa verità che abbiamo intravisto nelle lacrime furtivamente asciugate e nei singhiozzi a fatica repressi, cerchiamo di non confinare di nuovo i giapponesi in quell’immagine stereotipata – gentili ma distanti, sorridenti ma inaffettivi – che in modo del tutto arbitrario, per ignoranza, abbiamo creato e a lungo conservato. Continuiamo a sentirci vicini a loro, uniti e solidali nella comune sorte umana.

Foto tratte da qui e qui.

Un video e un convegno per riflettere sulla situazione in Giappone

In questi giorni – com’è giusto che sia – si sta parlando molto dei terremoti e dei problemi nucleari in Giappone; non di rado, però, i mass media hanno trasmesso al pubblico notizie false e talvolta persino tendenziose.
Per questa ragione, consiglio la visione di un servizio di Emilio Casalini (Report) andato in onda ieri sera, dedicato alla vita quotidiana a Fukushima in questi giorni (disponibile qui); inoltre, raccomando a chi abbia la possibilità di trovarsi a Milano di partecipare all’incontro “Il Giappone e l’informazione <<mediata>>”, promosso dall’Università degli studi di Milano, dall’Istituto giapponese di cultura, dal Contemporary Asia Research Centre e dall’Aistugia, che si terrà il 31 marzo alle 10,30 presso l’Aula magna del Polo di Mediazione linguistica e culturale, Sesto S. Giovanni, Piazza I. Montanelli 1.

Interverranno di persona o in collegamento via skype:
– Corrado MOLTENI, Professore ordinario dell’Università degli Studi di Milano, Addetto
Accademico e Culturale presso l’Ambasciata d’Italia a Tōkyō
– Carlo FILIPPINI, Professore ordinario di Economia Politica, Università Bocconi
– Alberto MENGONI, ENEA, Addetto Scientifico dell’Ambasciata d’Italia a Tōkyō
– Emilio CASALINI, giornalista RAI per la trasmissione “Report”
– Naotaka SAKAGUCHI, Console Generale Aggiunto, Consolato Generale del Giappone a Milano
– Studenti ed ex studenti rientrati in Italia dopo gli eventi sismici
Letture:
– La cognizione del dolore
di Giorgio Amitrano, Professore ordinario, Preside della Facoltà di
Scienze Politiche dell’Università “L’Orientale” di Napoli
– testimonianza quotidiana di Miya Itō, cittadina di Sendai

Ringrazio Francesca per la segnalazione.

Editoriale di Amitrano sul terremoto giapponese

Vi propongo il toccante editorale di Giorgio Amitrano, docente universitario e noto traduttore, apparso ieri ne “Il manifesto”:

«Non ci sono parole». È una frase che in questi giorni ricorre spesso nei nostri discorsi a proposito di ciò che è avvenuto in Giappone. Eppure questa dichiarazione di silenzio è subito smentita da un inarrestabile bisogno di commentare, raccontare e giudicare. Unanime l’ammirazione per il comportamento dei giapponesi. Le parole «dignità» e «compostezza» sono ripetute di continuo. Non mi preoccupa che diventino un luogo comune. Le trovo giuste, adeguate, e non c’è bisogno di affannarsi a cercare sinonimi. Però spero che tutti coloro i quali seguono ipnotizzati le immagini della tragedia percepiscano, dietro la dignità e la compostezza, il dolore. I giapponesi lo soffrono come ogni altra popolazione del mondo, né le loro emozioni sono meno profonde e sconvolgenti di quelle degli altri.
Eventi del genere attenuano le differenze culturali che, anche in tempi di omologazione globale, continuano ad alimentare l’attrazione e la curiosità (a volte venate di razzismo) che ogni alterità ispira. Le tragedie ci ricordano l’appartenenza di tutti a un’unica razza umana e, anche se per un tempo breve, ci affratellano. Il dolore umano è lo stesso a Fukushima e ad Haiti o all’Aquila, nel Friuli o in Irpinia, anche se espresso in una lingua incomprensibile ai più, anche se meno urlato, e comunicato con una gestualità forestiera, fatta di inchini e povera di abbracci. Un dolore che parlando un linguaggio diverso dice lo stesso strazio per la perdita delle persone e delle cose materiali. La disperazione per la perdita delle case, ma anche di oggetti superflui e incongrue suppellettili, è un sentire le cui radici affondano in un’era precedente a quel consumismo su cui il Giappone ha costruito la propria fortuna nel dopoguerra, e che forse risale a vite precedenti dell’umanità.
Conservare le cose e con esse costruire il proprio ambiente ricorda il lavoro concreto e poetico degli uccelli che fabbricano il nido o di animali che si costruiscono una tana, i quali trasformano senza saperlo, attraverso la scelta di una varietà di materiali, il concetto ancestrale di rifugio in quello storico di casa. Quando guardiamo le rappresentazioni della Shoah, quegli ammassi indistinti di cose strappate alla vita delle persone tra cui si riconoscono qua e là un violino, una bambola, degli occhiali, una scarpa femminile, stringono il cuore quasi come le immagini degli uomini e delle donne che ne sono stati deprivati. Le persone, spogliate dei loro vestiti e delle loro cose, ci appaiono atrocemente decontestualizzate. Anche i giapponesi che vediamo fissare sgomenti le proprie case trasportate da una corrente violenta e impassibile, o cercare tra le macerie un figlio, un padre, una compagna, lo sono. E guardano piangenti e disorientati il loro contesto frantumato, quelle case senza muri e senza porte, fatte a pezzi, ormai indifese eppure di colpo diventate inespugnabili. Non c’è più nessun modo di costruirsi un varco in quella massa di detriti per entrare e ritrovare il proprio mondo.
Il dolore è universale. I giapponesi però, più di altri popoli, sono abituati da sempre a interrogarsi sulla natura della sofferenza e sulle sue possibili cure. Il verbo buddhista, che ha attecchito in Giappone alle origini della sua civiltà, ha individuato in quattro semplici leggi il percorso della sofferenza: dalla sua origine, che si fonda sull’attaccamento, alla via per superarlo, fino alla sua cessazione. Quale discorso più adatto a una umanità innamorata dell’eterno e condannata al transitorio? Il Giappone ha fatto proprio questo insegnamento straniero e lo ha fuso in un abbraccio sincretico con lo shintoismo, religione indigena della sacralità di rocce, alberi e nuvole, e il confucianesimo, dottrina anche questa importata, che ha segnato la posizione dell’uomo nel mondo, insegnandogli la legge del dovere e del rispetto verso l’altro. Da questa combinazione di fattori nasce la sensibilità nipponica. L’intensità dell’emozione di un giapponese di fronte alla fioritura dei ciliegi contiene in un frammento di tempo la sapienza di queste tre religioni. La sensazione di un respiro divino nel fiore, la coscienza della sua caducità, e lo sguardo di un osservatore il cui baricentro è saldamente nel mondo. Ed è questa la sensibilità che colpisce gli stranieri, i quali si riconoscono nel dolore ma si stupiscono di vederlo in forme a loro sconosciute.

Dalla pazienza all’ira
In questi giorni seguo costantemente le notizie sul canale satellitare della Nhk, la televisione di stato giapponese. La dignità e la compostezza resistono, ma nelle zone colpite e in più adesso soggette al pericolo nucleare, quando i soccorsi tardano o i viveri sono insufficienti, si cominciano a registrare segni di insofferenza e rabbia. Dicevo prima della matrice confuciana del comportamento giapponese, e del preciso senso dei propri doveri verso la società. Ma in Giappone, e questo in Occidente spesso lo si dimentica, è altrettanto vivo il senso dei propri diritti e di ciò che ci si deve attendere dagli altri e da chi governa. La loro straordinaria pazienza si basa anche su questo: un’aspettativa ragionevolmente fondata di vedere rispettati i propri diritti. L’incapacità dei responsabili di contenere i danni causati dal terremoto alle centrali nucleari o una gestione inadeguata della crisi da parte del governo potrebbero incrinare questa fiducia e mostrarci il volto irato del Giappone.
È di poco fa la notizia che i morti nella prefettura di Iwate sono saliti a oltre 1300. Questa zona, una di quelle su cui si è abbattuto lo tsunami, è la regione dove visse (tra il 1896 e il 1933) un grande poeta e autore di fiabe, Miyazawa Kenji. Iwate, che lui bambino e poi adolescente visitava nei suoi vagabondaggi alla ricerca di piante, rocce, minerali, e di cui ha descritto la natura maestosa e spesso spietata in versi e prose incantevoli, è stata in gran parte distrutta, nella zona costiera, dallo tsunami. Il paese natale di Kenji, Hanamaki, scampato all’onda anomala a causa della sua distanza dal mare, ospita in questi giorni, oltre a molti cittadini evacuati, i cadaveri trasportati dalle zone devastate. Ma anche le zone che il maremoto e il terremoto hanno risparmiato, sono minacciate dal pericolo radioattivo.

Il prezzo del benessere
Pur abituati da molti decenni a convivere con le centrali nucleari, che in un paese povero di materie prime rappresentano la migliore fonte di autonomia energetica, credo che i giapponesi comincino a chiedersi quanto alto possa essere il prezzo da pagare per il benessere fornito dall’energia nucleare. Non vi è altro popolo al mondo che abbia vissuto sulla propria pelle (nel senso letterale, non metaforico) la devastazione di due bombe atomiche. La cognizione del dolore dei giapponesi è segnata da quella tragedia senza ritorno. Grandi scrittori, a cominciare da Ôe Kenzaburô, hanno scritto sulle conseguenze della bomba pagine che bisognerebbe, spenta per qualche ora la televisione, tornare a leggere. Ma chissà perché in questi giorni il ricordo che mi accompagna con più insistenza è quello del film di un autore russo, anche se costellato di riferimenti al Giappone: Sacrificio di Tarkovskij. Il protagonista, angosciato dall’annuncio di una catastrofe nucleare imminente, decide di distruggere la casa e tutti i suoi beni «per salvare il mondo». Egli racconta al figlio la parabola di un monaco che, a forza di annaffiare un albero morto, con pazienza e disciplina, riesce a farlo rifiorire. La storia si apre proprio con l’immagine dell’uomo che, insieme al bambino, pianta un arbusto fragile e secco che chiama l’«albero giapponese».
Alla fine del film, quando il padre, dopo aver dato fuoco alla casa, viene portato via, il bambino continua a portare secchi d’acqua, fiducioso che l’albero rifiorirà. L’immagine di quel bambino che annaffia l’albero dissecato, in questi giorni di angoscia e di profonda preoccupazione per il futuro del Giappone, mi sembra rischiarare un poco, con la sua luce, un buio spaventoso.

Foto tratte da qui e qui.

Poche parole

In seguito al terremoto e ai conseguenti, gravissimi problemi che stanno funestando il Giappone, mi sono spesso chiesta in questi giorni che senso avesse ora parlare nel blog di libri, letteratura, versi; talvolta mi è persino sembrato quasi un modo di voltare la testa dalla parte opposta della tragedia, di fingere che tutto vada come al solito.
Mi torna spesso alla mente un pomeriggio del gennaio scorso, all’ultimo piano della stazione di Nagoya, inondato dal sole. Chiacchierando con un’amica giapponese delle differenze tra i nostri due paesi, le chiesi come i suoi connazionali potevano aver fiducia nel nucleare, dopo aver subito diversi attacchi atomici. “Ma le centrali nucleari sono diverse; la loro energia è positiva, aiuta il Giappone”, mi disse.
Oggi ho deciso di interrompere il mio silenzio con una piccola pretesa: vorrei che le mie parole e i miei post servissero a ricordare che il popolo giapponese non è soltanto ripetutamente vittima del nucleare, ma soprattutto il custode di una cultura ricca e affascinante.

N. b.: mi sono vista costretta a nascondere _tutti_ i commenti a questo post, in quanto i toni si stavano man mano riscaldando. Il dibattito sul nucleare interessa a ragione molti di noi, compresa me; vi prego però di portarlo avanti in sedi diverse da questo spazio, che vorrebbe semplicemente trattare di libri e letteratura. Grazie.

Nuova edizione per le “Storie di Yokohama” di Tanizaki

Tanizaki Jun’ichirō è spesso ricordato per le sue storie non prive di sensualità ed erotismo decadente ; si pensi, per esempio, a Morbose fantasie o La chiave.
Oggi vorrei però segnalarvi un’opera molto meno conosciuta, vale a dire la raccolta Storie di Yokohama, di recente riedita da Cafoscarina (pp. 190, € 15; trad. a cura di Luisa Bienati), che custodisce tre racconti composti nei primi anni ’20 (Minato no hitobito, ossia La gente del porto; Aoi hana, Fiore blu; Ave Maria), ispirati dal grande amore che il giovane scrittore provava per la città giapponese, poi sconquassata dal terremoto del primo settembre 1923.

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