Il 25 novembre 1970 si spense, per sua stessa mano, Mishima Yukio.
La sua morte fu in realtà meno spettacolare e gloriosa di quanto si pensi: (altro…)
Libri, Giappone e letteratura giapponese
Il 25 novembre 1970 si spense, per sua stessa mano, Mishima Yukio.
La sua morte fu in realtà meno spettacolare e gloriosa di quanto si pensi: (altro…)
Quando si parla di samurai, all’uomo medio vengono in mente scene degne di Kurosawa Akira o, al contrario, di uno scalcinatissimo film di serie B, a base di “ghesce” sospiranti e “katane” sguainate.
Nella realtà storica, naturalmente (e per fortuna) le cose stanno in ben altro modo. Ci aiuta a comprendere ciò uno dei testi appartenenti alla cultura nipponica più fraintesi, vale a dire l’Hagakure di Yamamoto Tsunetomo, da poco pubblicato in una nuova edizione realizzata da Francesca Meddi (pp. 87, € 8.0) per la casa editrice Solfanelli (che ringrazio per l’omaggio), corredata di due interessanti saggi di approfondimento trasversale (L’ultimo samurai?, dedicato a Mishima, e Lo stoicismo e lo zen).
Il testo – il cui titolo significa <<All’ombra delle foglie>> – è pù spesso conosciuto come Codice segreto dei samurai, quando in realtà – come viene precisato nell’introduzione della curatrice – era originariamente rivolto soltanto ai giovani appartententi allo stesso han (il territorio retto dal daimyo) dell’autore.
I riferimenti alla morte, alla dignità e all’orgoglio (in ambito pubblico e privato) presenti in quest’opera sono stati e purtroppo sono ancora fraintesi, col risultato di ricondurre tutto ad un’errata e riduttiva visione decadente dei valori del Sol Levante, che avrebbe il suo sbocco naturale nel seppuku di Mishima e nella pratica suicida dei kamikaze della seconda guerra mondiale. In realtà, il reale significato di questi raccolta di aneddoti e aforismi va scoperto pagina dopo pagina, con pazienza, alla luce della storia e dei costumi nipponici.
Concludo citandovi uno dei brani che ho preferito:
Un samurai disse: <<Ci sono due tipi di orgoglio: uno interiore ed uno esteriore. Ma solo se si possiedono entrambi, si rivelerà utile. Paragoniamo l’orgoglio alla lama affilata di una spada: sarà bene che questa venga tenuta riposta nel fodero e di tanto in tanto sguainata, brandita, ripulita e poi nuovamente rinfoderata. Se venisse brandita in continuazione susciterebbe il timore degli altri, allontanando non solo i nemici, ma anche gli alleati. Sarebbe un errore anche il tenerla sempre riposta nel fodero, perché perderebbe la sua affilatura e si ricoprirebbe di ruggine, suscitando il disprezzo e lo scherno della gente.>>
Dopo una pausa estiva, riprendiamo come di consueto, introducendo La spada di Mishima di Christopher Ross (Guanda, pp. 288, € 17). Malgrado Mishima sia ricordato – quasi più che per le sue opere – per il suo suicidio, a distanza di quarant’anni rimangono ancora dei punti oscuri da chiarire in proposito, che il volume si propone di illuminare.
Questa la quarta di copertina:
Il 25 novembre 1970 lo scrittore Yukio Mishima, dopo un concitato proclama ripreso dalle tv di tutto il mondo, si asserragliò in un ufficio e commise seppuku, il suicidio rituale degli antichi samurai. Il suo atto fu definito in modi diversi: dramma meraviglioso e perverso, protesta politica, gesto estremo di un genio folle… Ma quale di queste affermazioni è la più vera? E che fine ha fatto la spada utilizzata da Mishima per uccidersi?
Più di trent’anni dopo, Christopher Ross parte alla ricerca di una risposta definitiva a queste domande. Si mette sulle tracce dei testimoni del suicidio, compiendo un viaggio attraverso il Giappone moderno, i suoi tic e le sue ossessioni, viaggio che si rivela col tempo ricco di sorprese. Nel suo procedere erratico, accompagnato dalla voce inconfondibile delle opere di Mishima e dalla severa disciplina interiore del kendo, la via della spada, Ross ricostruisce in modo nuovo un’enigmatica vicenda umana e letteraria. Un libro di viaggio che diventa biografia e racconto filosofico, nonché ritratto di un paese che deve ancora fare i conti con questa morte.
Sempre grazie alla casa editrice Solfanelli, vi segnalo una delle edizioni italiane del cosiddetto Libro dei samurai, ossia Hagakure. All’ombra delle foglie di Yamamoto Tsunemoto; il volume è stato curato da Francesca Meddi, consta di 88 pp. e costa 8 €.
Come ricorda la presentazione,
L’Hagakure, considerato un classico del Bushido, è un manuale per i guerrieri (Bushi) composto da 1300 brevi aneddoti e riflessioni di diverso carattere.
La famosa la frase Ho capito che la via del samurai è la morte, tratta dal Hagakure di Yamamoto Tsunetomo, spesso interpretata parzialmente o addirittura in modo fazioso, condusse talvolta al fanatismo estremo. Emblematico fu a questo proposito il suicidio di Yukio Mishima secondo il rituale del seppuku, il sacrificio di giovani militari giapponesi indotti alla cieca obbedienza per l’imperatore.
Tuttavia, dietro al facile fraintendimento che l’assunto genera, si cela un pensiero diverso; paradossalmente è un invito alla vita, a viverla in ogni suo istante al meglio, ricordando che l’uomo, come ogni altro essere vivente, è destinato a morire.
In questo libro sono stati tradotti gli aneddoti più significativi, quelli che più si accordano al Giappone di oggi, riassumendone gli aspetti sostanziali.
In appendice, “L’ultimo samurai” e “Lo stoicismo e lo zen”, i due saggi della traduttrice Francesca Meddi.
Qui, il concetto del Cuore Zen, soggetto imperturbabile, oggetto della strenua ricerca dei samurai e strumento per superare la paura della morte, è termine di confronto fra il seppuku di Mishima e con quello di Catone.
In questo paragone, la teatralità della morte di Mishima non ha il senso dell’atto patriottico che riscatta il disonore, quanto il gesto estremo di un uomo “(…) che aveva fatto della sua vita uno spettacolo (…)”, e la glorificazione dell’idea romantica della morte. E’, in definitiva, un seppuku quale perfetta conclusione di un dramma, come uno di quelli tante volte raccontati nei suoi romanzi.
Diversamente, la virtù stoica di Catone lo rende simile al samurai, e proprio come un samurai Catone decide di togliersi la vita per seppuku.
(qui a lato: un fotogramma de I sette samurai di Akira Kurosawa)
Provate a menzionare Mishima Yukio a un lettore medio.
In men che non si dica assumerà consistenza l’uomo che, il 25 novembre del 1970, vestito della divisa militare della Tetenokai, lo hachimaki che gli cinge la fronte, il volto alterato nello sforzo dell’ultimo proclama, arringa le truppe del Jieitai.
A voler essere indugenti, se uno scrittore candidato per ben due volte al Nobel a tanto si riduce, non è tutta colpa del lettore medio. In fondo, questo è ciò che per decenni i mezzi di comunicazione gli hanno fornito; in alternativa, qualche ritratto in costume adamitico, spada in pugno o legato a un albero, novello san Sebastiano agonizzante.
A non voler essere indulgenti, ci si domanderà in virtù di che cosa quest’immagine cristallizzata resista nella eprcezione del lettore medio, dopo che, dalla metà degli anni ’80 (seppur con lentezza e lungo un percorso irto di pregiudizi) tanta energia si è profusa nel diffondere opere dello scrittore, le più policrome.
[…] E’ dunque così superfluo sottolineare che, prima di scegliere di morire, Mishima ha vissuto? […]
tratto da Virginia Sica, Mishima e la ‘sindrome di Jorge’, prefazione a romanzo Abito da sera
Quest’oggi vi presento un altro libro per approfondire la figura di Mishima, L’angelo ferito. Vita e morte di Mishima (Liguori, p.360, 23,50 €) di Emanuele Ciccarella, docente di Lingua e letteratura giapponese all’Università degli Studi di Torino, e autore anche de La maschera infranta. Viaggio psicoestetico nell’universo letterario di Mishima (Liguori, p. 110, 12,50 €).
Eccone una recensione di Donatella Trotta, intitolata Mishima, Icaro del Giappone, e apparsa su Il Mattino del 2 febbraio 2007.
«Senza ali, la sua vita sarebbe stata molto più leggera. Le ali non sono adatte per camminare sulla terra… Non c’è nessuno che gli insegni come liberarsi di queste ali?» Così riflette Sugio, il protagonista di Tsubasa (Ali, appunto), al termine di un racconto favolistico del 1951 di Yukio Mishima, riproposto in italiano nel 1992 da Stampa Alternativa: «una storia alla Gautier», la definì l’autore stesso, che in una nota rivela di non essere stato compreso, all’epoca, nella «sincerità» della sua «confessione» senza maschera. «Probabilmente era la conseguenza di essere sempre apparso agli altri come chi non vuole mai dire nulla di sé», concludeva il grande e controverso scrittore giapponese (1925-1970), fenomeno non solo letterario divenuto un classico tra i più tradotti all’estero (anche nei 2 volumi dei Meridiani Mondadori 2004-2006, a cura di Maria Teresa Orsi). Questi dettagli tornano non a caso in mente leggendo l’intensa biografia appena pubblicata, dopo un meticoloso lavoro decennale, da Emanuele Ciccarella: L’angelo ferito. Vita e morte di Mishima, che esce a trent’anni dalle due celebri biografie in inglese di John Nathan e Henry Scott Stokes (tradotta in italiano da Feltrinelli e ispiratrice del film «Mishima» di Paul Schrader), e dalla suggestiva ”rilettura” metafisica di Marguerite Yourcenar (Mishima o la visione del vuoto, Bompiani). L’immagine metaforica dell’angelo – tra le tantissime che costellano l’esistenza inquieta e i 40 volumi della fluviale opera omnia di Mishima, per tre volte candidato al Nobel della letteratura – percorre infatti la monografia di Ciccarella dall’inizio (con i non casuali versi dannunziani dall’Alcyone dedicati a Icaro, in exergo, e i primi ”voli” di un talento letterario precoce analizzato nella sua prismatica e ambigua evoluzione) sino alla fine: ponendosi come una delle più preziose chiavi di lettura di quella che Yasunari Kawabata, mentore di Mishima, ebbe a definire l’«indecifrabile originalità» del poliedrico autore della geniale tetralogia Il mare della fertilità. Il quarto e ultimo volume della tetralogia, dall’emblematico titolo La decomposizione dell’angelo, è anche quello che non a caso suggella pure la fine volontaria del trasgressivo e discusso romanziere, drammaturgo, saggista, critico letterario, pensatore, persino regista e (mediocre) attore, assetato d’assoluto al punto di pianificare (e lasciar presagire) a lungo il suo cruento suicidio rituale per seppuku: giacché «la vertigine del vuoto è un’attrazione troppo grande per chi ha davvero deciso di volare», commenta in chiusura Ciccarella, fine yamatologo napoletano, docente di lingua e letteratura giapponese all’università di Torino, traduttore di grandi autori del Novecento nipponico e specialista di Mishima, del quale ha fatto conoscere tra l’altro i racconti giovanili de La foresta in fiore, l’unico romanzo sulla psicoanalisi, Musica, e due illuminanti interviste mai tradotte, Le ultime parole di Mishima (tutti editi da Feltrinelli). E se nel suo precedente saggio La maschera infranta (Liguori) Ciccarella intraprendeva una sorta di viaggio psico-estetico nell’universo interiore e nella formazione di Mishima riverberati dal romanzo autobiografico giovanile Confessioni di una maschera, con L’Angelo ferito va oltre: nel cuore – inafferrabile e spiazzante – dell’enigma Mishima tout court. Un enigma indagato con una aggiornata documentazione, diversi tagli prospettici e una cifra stilistica affettiva, senza pregiudiziali ideologiche. E in primo piano, nel libro, è la statura intellettuale di Mishima ad emergere, più che la sua scomoda e scandalosa public figure: perché Ciccarella parte dall’analisi delle sue opere, per arrivare a far luce attraverso il laboratorio di scrittura dell’autore anche sui suoi tratti esistenziali pubblici e più intimi. Un approccio originale, che riesce a mettere a fuoco tutti i dualismi antagonistici che hanno segnato vita e opera di Mishima: corpo e parole, innanzitutto, ma anche eros e thanatos, dimensione dionisiaca e apollinea, via della penna e della spada, arte come «miele e veleno», nichilismo estetico e filosofia dell’azione, romanticismo e classicismo, diversità non solo sessuale e derive ultranazionaliste.
Per chi ne volesse sapere di più, questo è l’indice dell’opera:
Ringraziamenti – Avvertenza – Capitolo I – Preambolo – Sangue aristocratico e contadino – Recluso nell’ombra – La nascita dei primi racconti – La foresta in fiore – Capitolo II – Burocrate di giorno, poeta di notte – Confessioni di una maschera – L’ossessione della Morte – Il doppio Edipo – Il palanchino sacro – La seduzione di San Sebastiano – La seduzione del mare – “Tempo omosessuale” e “tempo eterosessuale” – Il martello del nichilismo – Capitolo III – Il cammino dopo la “confessione” – Colori proibiti – Il teatro – La voce delle onde – Capitolo IV – Il Padiglione d’oro – Un rigoroso metodo di scrittura – Il matrimonio – La casa Kyōko – Il teppista solitario – Capitolo V – I germogli del nazionalismo – Patriottismo – Romanticismo e classicismo – Il sapore della gloria – Dopo il banchetto – Il mare della fertilità – Capitolo VI – Neve di primavera – Bunburyōdō: la via della penna e della spada – A briglia sciolta – Gli scudi di Sua Maestà l’Imperatore – Capitolo VII – Il tempio dell’alba – Gli ultimi drammi – La decomposizione dell’angelo – I preparativi per l’azione – Il giorno dell’azione – Post mortem – Nel giardino degli angeli – Glossario – Bibliografia – Bibliografia delle opere pubblicate in Italia
L’articolo e le foto sono dei rispettivi proprietari.
Yukio Mishima è forse lo scrittore giapponese più controverso del secolo scorso. Autore di Confessioni di una maschera (pubblicato in Italia da Feltrinelli), romanzo autobiografico che gli valse all’inizio degli anni Cinquanta la notorietà mondiale, fu poi etichettato come fanatico di destra, anche per la bizzarria di essersi costruito un esercito personale. Morì nel 1970, con un suicidio spettacolare, dopo aver preso in ostaggio un generale dell’esercito giapponese. Ora arriva nelle librerie italiane la biografia che di questo grande autore scrisse nel 1974 Henry Scott Stokes, giornalista inglese oggi settantenne, inviato del Times a Tokyo negli anni ‘60 e ‘70. Già dal titolo, Vita e morte di Yukio Mishima (Lindau) si propone come “la” biografia. Anche in ragione del fatto che Stokes fu amico di Mishima, conobbe la sua famiglia, trascorse periodi di vacanza insieme a lui, e fu anche l’unico occidentale ad avere il permesso di seguire le esercitazioni del suo esercito privato. Da questa conoscenza personale emerge un racconto smaliziato (a tratti addirittura critico) della vita di Mishima, che passa in rassegna tutti gli aspetti della poliedrica – e contraddittoria – personalità dello scrittore. Mishima e l’arte, l’amore appassionato per i libri, Mishima che fu il primo scrittore giapponese in odor di Nobel per la letteratura e che però si vide soffiare il prestigioso premio, nel 1968, dal più anziano Yasunari Kawabata. Mishima e la sessualità faticosa, l’attrazione latente per gli uomini, la difficoltà nell’intrattenere rapporti fisici, l’attaccamento morboso alla madre. Mishima e il matrimonio, una scelta fatta a 32 anni (molto tardi, per gli standard dell’epoca) e sostanzialmente solo per far stare tranquilla la famiglia. Mishima e la moglie trovata attraverso gli omiai, gli incontri fatti apposta per combinare matrimoni – e fa quasi sorridere leggere le caratteristiche che lo scrittore aveva indicato come indispensabili per la sua sposa: doveva essere carina e più bassa di lui (anche con i tacchi!), accettare di buon grado il ruolo di angelo del focolare, e non disturbarlo quando lavorava. Mishima e l’esibizionismo, tratto marcato del suo carattere, che unito all’egocentrismo lo spingeva sempre a desiderare di essere al centro dell’attenzione. Mishima e i viaggi in giro per il mondo, dagli Stati Uniti all’Europa, da quella New York che gli faceva un po’ paura (e che definì, suggestivamente, “Tokyo tra cinquecento anni”) al salotto dei baroni Rotschild a Parigi, dalle conferenze alla Michigan University alla Grecia, dove s’innamorò “del limpido cielo della culla del classicismo”. E infine, Mishima e la morte: forza oscura che sullo scrittore esercitò, fin dall’infanzia, un fascino invincibile, specialmente nella forma più tradizionale e truculenta – quella del suicidio rituale tramite seppuku (l’autosventramento, che in Italia spesso viene indicato impropriamente con il termine “harakiri”). Tanto è vero che Mishima mise in scena molte volte il seppuku nei suoi lavori letterari: e un’ultima volta nella vita reale, su se stesso, quando si suicidò. Il libro condensa, in oltre quattrocento pagine, la vita e l’arte di Mishima, in un continuo intersecarsi di aneddoti biografici e citazioni dai romanzi. Per trovare quel che lo scrittore ha nascosto di sè nelle pagine dei suoi libri: “Dietro la maschera del samurai“, riflette Stokes, “Mishima sarà sempre un uomo emotivo e vulnerabile. Sensibilissimo a ogni minima offesa e nel contempo all’influenza altrui, invocava amore pur essendo apparentemente incapace di amare”.
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