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Un film da "L’isola dei naufraghi" di Natsuo Kirino

Malgrado le ricerche, purtroppo non sono riuscita a scovare nuove informazioni riguardo l’uscita a breve dell’ultimo  romanzo di Natsuo Kirino, L’isola dei naufraghi (o L’isola di Tokyo), ma ho comunque una buona notizia per tutti i suoi fan (e in particolare per Barbara): ad agosto, infatti, in Giappone dovrebbe essere uscito il film tratto dal libro, chiamato “Tôkyô-jima” per la regia di Makoto Shinozaki.
Questo il trailer:

"Fiori di un solo giorno" di Anna Kazami Stahl

Oramai posso vantarmi (eeeh! :p) di aver sviluppato quasi un sesto senso nei confronti dei libri d’argomento o d’autore giapponese; è così che, tempo fa, ho trovato inaspettatamente in biblioteca Fiori di un solo giorno di Anna Kazami Stahl (Sellerio, pp. 448, € 16), autrice di origine nipponica per parte di madre.
Malgrado la buona volontà, non sono riuscita a superare la boa delle prime cento pagine, in quanto il romanzo (in parte dedicato all’ikebana) mi è apparso piuttosto piatto e incolore. Glisso per pietà sulla bruttezza della copertina.
Questa è la presentazione dell’editore, con la speranza che qualche lettore del blog trovi il volume interessante:

Nell’appartamento del centro di Buenos Aires, abitato da Eveline, donna sola e anziana, piombano improvvisamente una bambina di otto anni, di nome Aimée, e sua madre Hanako. Madre e figlia sono accompagnate da un messaggio e da un vitalizio per il loro mantenimento, mandati dal fratello di Evelin, che è il nonno della piccola Aimée ed è partito per il mondo decenni prima. Hanako è giapponese; muta, per una meningite infantile, è cultrice esperta dell’arte di comporre fiori, l’ikebana, che è espressione di una filosofia e di una sensibilità; del suo vivere, appartato e sommesso, si occupa Aimée. Nient’altro che questo riesce a sapere delle due donne, Eveline: e nessuna notizia verrà più del fratello. Passano molti anni, Eveline è morta, Aimée ha creato una solida attività di fioraia d’ikebana, i cui prodotti più ricercati sono proprio le composizioni libere di Hanako (che nel linguaggio dei fiori esprimono, ciascuna – viene a sapere Aimée da un suo commesso -, «attesa»); ha un uomo che l’ama e un’esistenza operosa e tranquilla. Quando un giorno riceve una lettera: a New Orleans, città d’origine della parte occidentale della sua famiglia, ha ereditato un fortuna. E a New Orleans si incontra col suo aggrovigliato e oscuro passato familiare che affonda nella Seconda Guerra Mondiale. Ed è la pista di pallidi indizi che sa offrirle la sua enigmatica madre muta, a guidarla nella città e tra le paludi del Mississippi, alla ricerca di un segreto gelosamente custodito. Anna Kazumi Stahl è un singolare caso di artista pluriculturale: nata in America da padre tedesco e madre giapponese, di madre lingua inglese e giapponese, ma scrittrice in spagnolo, per costringersi alla precisione e alla nitidezza della scrittura di una lingua prediletta ma non naturale (come fece con la lingua inglese Nabokov, cui i critici l’accostano). Ma nonostante le somiglianze anagrafiche con la protagonista, non ha scritto una storia autobiografica. Fiori di un solo giorno (i fiori, appunto dell’ikebana) è un romanzo di atmosfera trasparente e misterioso, per la sottile tensione che non sfocia mai in situazioni più allucinanti e stridenti ma si mantiene in una sospensione allusiva; il cui tema è la condizione di frantumazione dell’identità, il contrasto e il mescolarsi dei contesti vitali, delle radici. «Sono interessata alle storie di persone che scelgono di partire e installarsi altrove: come succede, perché succede e in che circostanze».

"Hotel Iris" di Yoko Ogawa

Anche i migliori deludono. O almeno questo è quanto ho pensato al termine di Hotel Iris di Yoko Ogawa (Il Saggiatore, pp. 158, € 9), scrittrice che sinora ho sempre apprezzato soprattutto per la delicatezza, le atmosfere venate da una sottile morbosità, e la bravura nell’ avvolgere il lettore nelle spire di storie apparentemente semplici, ma capaci di rivelare pieghe oscure dell’animo umano.
Hotel Iris, a mio parere, è ben lungi dall’essere all’altezza dell’autrice  Premetto che sono molto impressionabile riguardo tutto ciò che concerne episodi di violenza su donne e minori, e questo di certo ha influenzato pesantemente  il mio giudizio sul libro.
La trama è piuttosto lineare. Mari – un’adolescente solitaria –  vive e lavora a tempo pieno presso l’Hotel Iris, una pensioncina di mare gestita alla bene e meglio dalla tirannica madre, vedova di un alcolizzato. Le giornate trascorrono monotone, sino a che non irrompe per caso nella vita della ragazza il Traduttore, un anziano dall’aspetto decadente e dai desideri torbidi. Ben presto tra i due si instaura una (disgustosa) relazione  a base di lettere d’amore,  fantasie sadiche e atti violenti, destinata ad evolversi sullo sfondo di un presunto omicidio appartenente al passato dell’uomo.
I personaggi si presentano alquanto bidimensionali e spesso – più che attori della vicenda – appaiono “agiti” da qualcosa che non viene messo a fuoco dall’autrice, non per suspence, ma per fretta. Sta dunque al lettore immaginare che Meri sia attratta dai giochi erotici del Traduttore in primis per ragioni legate alla sua condizione di orfana di padre e di ragazza vessata  dall’autorità materna; il testo, infatti, offre poche possibilità di penetrare davvero nella psiche dei personaggi e afferrare il senso delle loro azioni.
L’attenzione della scrittrice pare infatti tutta rivolta a descrivere nei minimi dettagli (e con un certo compiacimento) le rivoltanti tecniche sadiche ideate dal vecchio debosciato, che si succedono l’una dopo l’altra, in un crescendo di perversione; così facendo, Yoko Ogawa trascura quasi completamente di creare un tessuto connettivo e consequenziale solido tra un episodio e l’altro. Per esempio, malgrado sia detto più volte che Meri gode di ristretti margini di libertà gestiti in modo dispotico dalla madre, la ragazza riesce comunque a trascorrere ore e ore nell’abitazione del suo aguzzino e non teme di mostrarsi in sua compagnia nel piccolo paese in cui vivono. I lividi, le ferite, gli abiti strappati – frutto del bondage e degli altri giochi erotici – sembrano svanire nel nulla  una volta giunti alle soglie dell’Hotel Iris; solo qualche ciocca fuori posto appare sospetta.
Le note negative del romanzo non finiscono qui, ma preferisco soffermarmi sugli aspetti positivi. Anche qui, Yoko Ogawa ripropone alcune cifre caratteristiche della sua scrittura: le tinte morbose; l’inscalfibile solitudine dei personaggi; l’attenzione per i corpi e, in particolare, per il loro disfacimento; la concezione distorta del cibo, esibito nei tratti più inquietanti; l’interesse per i tratti oscuri delle giovani menti e per la loro attrazione verso l’insano.
Insomma: anche Hotel Iris, come tutte le opere di Yoko Ogawa, riesce a turbare il lettore e a donargli uno sguardo più inquieto sulla realtà.

"Il Crocifisso del samurai" di R. Cammilleri

Cercando nel sito della Rizzoli un volume, mi sono imbattuta in  tutt’altro, e cioè ne Il Crocifisso del samurai di Rino Cammilleri (Rizzoli, pp. 280, € 18,50), di cui – sinceramente – ignoravo del tutto l’esistenza; vi rimando dunque alla presentazione dell’editore: 

È l’alba quando la giovane Yumiko viene prelevata dalle guardie dello Shogun e torturata pubblicamente. La sua unica colpa è essere figlia di Kayata, samurai cattolico che non ha potuto pagare le tasse alle autorità, i cui uomini ormai da anni umiliano i cristiani di Shimabara con una violenza cieca e annientatrice. Ma nonostante la miseria e il sangue fatto scorrere per fiaccare la loro volontà, gli abitanti del villaggio si raccolgono attorno al simbolo di cui nessuno può privarli: il crocifisso di Cristo. Lo stesso al quale i primi cristiani giapponesi venivano inchiodati dalle guardie dello Shogun. La violenza su Yumiko è la scintilla che spinge uomini e donne alla ribellione estrema: rifugiati nel castello di Hara si oppongono al giogo persecutorio e a un destino ineluttabile. L’assedio da parte degli uomini dello Shogun dura cinque interminabili mesi, senza cibo e possibilità di scampo, ma quel “branco di contadini”, guidati dall’Inviato del Cielo, da Kayata e dal suo discepolo Kato, resistono, aggrappandosi alla speranza incrollabile nella resurrezione. Perché solo la fede può superare ogni sopraffazione e dare linfa vitale a un popolo in lotta.
Il crocifisso del samurai, l’opera forse più ambiziosa di un autore che ha trascorso la vita a indagare la storia della cristianità, è uno struggente romanzo storico capace di toccare le corde più profonde dell’anima esplorando le radici del concetto stesso di fede. L’epica ribellione dei samurai cristiani di Shimabara nel 1637 – dopo la quale per due secoli il Giappone si chiuse a ogni contatto con l’esterno – rivive in un affresco crudo e realistico, denso di azione e di colpi di scena, che testimonia l’eroismo di chi è morto per non rinnegare il proprio credo.

Da Carmilla: "Antifrasi di Mishima"

Vi propongo con piacere un articolo di Franco Ricciardiello apparso su Carmilla e dedicato a Mishima. Buona lettura.

Feltrinelli ha iniziato nel 2009 la riproposizione in Italia del ciclo del “Mare della Fertilità”, che comprende gli ultimi quattro romanzi scritti da Mishima prima della morte nel 1970; la quadrilogia è apparsa in precedenza in Italia nella traduzione Bompiani (4 volumi singoli, 1999) e nei Meridiani Mondadori (volume unico, 2006). Nel marzo 2010 è appunto edito da Feltrinelli con il titolo “A briglia sciolta” il secondo volume di questo ciclo della lunghezza totale di oltre 1500 pagine; potrebbe essere l’occasione per riparlare dell’opera più ambiziosa di uno dei più discussi autori del secolo scorso, autentico personaggio mediatico che modellò la propria vita come aveva imparato dai suoi maestri europei, Wilde e Nietzsche, ma soprattutto D’Annunzio (del quale Mishima tradusse in giapponese il “Martirio di San Sebastiano”).

Alberto Moravia, che intervistò Mishima quando in Europa era etichettato come “fascista”, lo definì piuttosto “un conservatore decadente”. Mishima in realtà non avallò mai alcuna appartenenza ideologica, e non ebbe problemi a rispondere all’invito dello Zenkyōtō, il Comitato di Lotta interfacoltà degli studenti di sinistra, per una serie di conferenze nelle università sconvolte dal 1968, altrettanto vivace in Giappone che in Europa. Non bisogna dimenticare che da giovane lo scrittore mosse i primi passi intorno a Bungei bunka, rivista pubblicata tra il 1938 e il 1944 dal circolo neoromantico del primo periodo Shōwa, composto da artisti provenienti dal marxismo; né bisogna dimenticare che non furono considerazioni meramente ideologiche a spingerlo a denunciare pubblicamente nel 1967 la Rivoluzione culturale cinese, insieme al futuro premio Nobel Kawabata Yasuunari, bensì una concezione che precisò l’anno successivo nel saggio Sulla cultura: affinché un sistema culturale possa trasferirsi di generazione in generazione, è necessario che il sistema politico garantisca libertà di pensiero e pluralità di espressione democratica. È evidente che quest’idea è inconciliabile con la politica maoista del tempo.
La genesi del “Mare della Fertilità” risale probabilmente al 1963, la sua prima ideazione al 1960; come ha fatto rilevare Giorgio Amitrano, è significativo che il titolo scelto da Mishima per questo suo testamento letterario sia in realtà un’antifrasi: il toponimo del cratere lunare Mare fœrtilitatis richiama infatti qualcosa che è fecondo solo quando è morto, perfetta metafora del nichilismo cosmico.
Intenzionato a scrivere un “romanzo interpretazione del mondo” sull’esempio degli scrittori europei di inizio secolo, preparò il lavoro con estrema accuratezza, recandosi di persona nei luoghi scelti per l’ambientazione, dal sudest asiatico alla provincia giapponese. Scrisse in proposito: “Per quanto riflettessi, non riuscivo a immaginare un lungo romanzo che fosse diverso dalle grandi opere apparse in Occidente a partire dal XIX secolo e avesse una sua precisa ragione di esistere. […] Per fortuna ero giapponese e per fortuna avevo a portata di mano le teorie della reincarnazione.” Diverse teorie buddiste sulla metempsicosi sono infatti la “giustificazione” di fondo della tetralogia, che segue due protagonisti tra il 1910 e il 1970: il professore Honda Shigekuni, e un secondo personaggio che alla fine di ogni romanzo — è questa l’originalità del ciclo di Mishima — muore per reincarnarsi nel romanzo successivo.
Honda non è soltanto un protagonista/punto di vista, ma un vero e proprio testimone della metempsicosi, l’unico che riconosce i segni del ciclo karmico di morte e rinascita: nei quattro romanzi avrà a che fare successivamente con altrettanti giovani bellissimi destinati a morte precoce e reincarnazione. Ognuno di loro è la rappresentazione, l’alter/ego di Mishima a un certo stadio della vita.
Nel primo volume della tetralogia, “Neve di primavera”, Honda è il precettore di Matsugae Kiyoaki, giovane rampollo dell’aristocrazia nel periodo immediatamente successivo la vittoriosa guerra contro la Russia zarista: l’intreccio è una storia d’amore tra due adolescenti ai quali è impedito sposarsi. Kiyoaki è la rappresentazione della sensibilità estetica di Mishima adolescente: compresso tra la personalità della nonna paterna, che lo strappò alla madre per educarlo in prima persona, e la volontà del padre di avviarlo alla carriera diplomatica, Hiraoka Kimitake (è questo il vero nome di Mishima) ebbe un’infanzia infelice e cagionevole, che lo portò a sviluppare una sensibilità particolare, e forse anche il desiderio di ribellarsi alle imposizioni. “Neve di primavera” è il romanzo dell’amore puro, della dedizione adolescente. La sua cifra stilistica è rappresentata dal colore bianco: la neve, la purezza, i fiori di ciliegio (talvolta screziati di rosso, come un presagio di morte) e soprattutto la pelle femminile.
Nel secondo volume, “A briglia sciolta”, Honda Shigekuni ha occasione di vedere nudo durante una esercitazione di arti marziali il figlio di un suo conoscente: riconosce su di lui alcuni segni fisici di Kiyoaki, l’amico morto di consunzione alla fine del romanzo precedente. Qualche indagine lo porta a appurare che si tratta di un caso di reincarnazione, proprio come sostengono numerose teorie religiose. Inuma Isao è affiliato a una setta tradizionalista che propugna il ritorno alla tradizione dell’onore giapponese tramite l’omicidio politico dei ministri fiolo-occidentali. Il gruppo si ispira allo Shinpūren (Lega del vento divino), una cospirazione di ex-samurai che nel 1876 si ribellò alla restaurazione imperiale, e fu soffocata nel sangue. Significativamente, lo Shinpūren storico è anche l’ispirazione ideale del Tatenokai, l’Associazione degli scudi, milizia privata fondata da Mishima con l’obiettivo di tornare ai valori tradizionali giapponesi, rappresentati dalla persona del Tenno, l’imperatore. Di nuovo risulta difficile distinguere letteratura e vita in Mishima. Épater le bourgeois è il motto imparato dagli europei, e sconcertare la borghesia sarà il suo fine; ci riuscirà anche nei romanzi più “borghesi” scritti per le riviste femminili, come “Musica e abito da sera”. Alla fine del secondo romanzo, la polizia scopre e sgomina la cospirazione; Isao, che dell’autore rappresenta la volontà di azione, è costretto al suicidio rituale con la spada, il seppuku, in un’anticipazione della morte di Mishima stesso. Con uno stile quanto mai decadente, la politica diventa opera d’arte.
Il terzo romanzo, “Il tempio dell’alba”, è in parte ambientato in Thailandia. Dopo la morte di Isao, ancora una volta Honda riconosce la reincarnazione di Kiyoaki in una principessa siamese, figlia di un vecchio compagno di studi: la giovanissima Ying Chang che viene a sua volta a studiare in Giappone. La sua bellezza conturbante provoca in Honda reazioni contrastanti, non solo ispirate dal ciclo di morte e rinascita che è costretto a osservare; diventa addirittura un voyeur, e arriva a spiare di nascosto la sua ospite. Ritorna il simbolismo dei colori di “Neve di primavera”, ma con una differenza significativa: il bianco associato alla pelle femminile contraddice in apparenza il bruno-dorato della carnagione di Ying Chang, colore che Mishima associa con la virilità della pelle maschile ambrata, abbronzata (v. per esempio il saggio “Sole e acciaio”), ma è chiaro che la principessa rappresenta l’amore temporale, carnale. Per contrasto, e in maniera molto significativa, nella simbologia dello scrittore la pelle di San Sebastiano appare bianca come marmo; celebre la foto in cui Mishima impersona il santo cristiano in un’esibizione vagamente masochista. Ancora una volta èpater le bourgeois. Questo culto della forma fisica, misto di omosessualità e virilità, appare come una rivincita su un’infanzia gracile vissuta all’ombra della madre (e della nonna). Del carattere di Mishima, la principessa Ying Chang rappresenta il narcisismo.
Invece il giovane protagonista dell’ultimo episodio della serie, Tōru, ne impersona il nichilismo assoluto. Il romanzo si intitola “La decomposizione dell’angelo”, il titolo originale allude alla tradizione buddista: la morte di un angelo è preannunciata da cinque segni di decomposizione. “Gli angeli sono come principesse senza scampo, colte dalla peste in un giardino tropicale” (pag. 1348 ed. Mondadori). Honda Shigekuni, ormai anziano e vedovo, riconosce e adotta un giovane orfano solitario che lavora in un faro sulla scogliera, anche se nutre dubbi sulla sua identità segreta (il ragazzo infatti risulta concepito qualche giorno prima della morte di Ying Chang). Il giovane cerca lo scontro con il padre adottivo, la sua ribellione è dettata da un nichilismo che spiega il pessimismo cosmico dell’autore. Simbolicamente, dopo la parola fine Mishima appone sul manoscritto lasciato a disposizione dell’editore la data del 25-11-1970, che non è quella di termine del lavoro bensì quella progettata per il seppuku davanti a un reparto delle Jietai, le Forze di Autodifesa nazionali che erano il solo esercito permesso al Giappone dopo la sconfitta nella guerra mondiale.
Il ciclo del “Mare della fertilità” è l’ultima opera composta da Mishima. Il 25 novembre 1970 insieme a quattro giovani attivisti del Tatenokai sequestra il generale comandante della guarnigione militare di Ichigaya, costretta a radunarsi per ascoltare l’arringa dello scrittore. Mentre già si sentono gli elicotteri dalla polizia, Mishima si rende conto che il suo appello alla fedeltà verso il Tenno cade nell’indifferenza o peggio nella derisione; si ritira nell’ufficio del generale per il suicidio rituale. Il seppuku si prolunga in maniera innaturale a causa della giovane età e dell’inesperienza degli attivisti, la decapitazione di Mishima dopo l’autosventramento è lunga e penosa, molto diversa dal gesto stilizzato e estetizzante del suo personaggio Isao in “A briglia sciolta”. Il nichilismo si è trasformato in impulso autodistruttivo, l’ultimo tentativo di reazione ai valori di quell’occidente assimilati così perfettamente da Mishima autore. Rimane la vasta opera letteraria di un uomo che nel privato della scrittura si rivelò molto più colto e sensibile della maschera pubblica che volle costruire.

Nuovo romanzo di Natsuo Kirino tradotto in italiano

Sembra ufficiale: in autunno, come annunciato dalla newsletter della casa editrice Neri Pozza, dovrebbe uscire un nuovo, coinvolgente romanzo di Natsuo Kirino. Per ora, paiono esserci ancora dubbi sul titolo definitivo: in alcuni siti è chiamato L’isola dei naufraghi, in altri L’isola di Tokyo. In ogni caso, il denso volume (conta 384 pp. per 17 euro) è tradotto da Gianluca Coci direttamente dal giapponese e in via di pubblicazione dalla Giano (un ramo della Neri Pozza). Ed ecco un’anticipazione della storia, a dire il vero un po’  troppo rivelatrice; vi consiglio perciò di leggere solo le prime righe.

Sayako e suo marito Takashi finiscono su un’isola disabitata al largo di Taiwan e delle Filippine in seguito al naufragio della barca a vela su cui viaggiavano. Dopo circa sei mesi, vengono raggiunti prima da venti giovani maschi giapponesi, anch’essi naufraghi, e poi da undici giovani maschi cinesi, abbandonati sull’isola lungo la tratta dei clandestini verso il Giappone. Che cosa può generare la presenza di una sola donna in mezzo a trentadue giovani maschi se non lotta, contesa, abbrutimento e violenta competizione? Takashi muore, precipitato o spinto giù da una scogliera a circa un anno dal naufragio, e Sayako si «risposa» due volte. La prima volta con l’arrogante e violento Kasukabe, che precipita però anche lui dalla scogliera; la seconda volta con Noboru, il buono a nulla, l’inetto della comunità, scelto, in base a una regola stabilita e accettata da tutti, mediante un’estrazione a sorte. Lo status di «marito di Sayako», per fortuna, ha durata limitata a due anni. La «lotteria» assegna perciò a Sayako, come quarto marito, Yutaka, un ragazzo timido e gentile. Sayako se ne innamora, attratta dalla sua natura cortese. Sembra perciò regnare la calma sull’isola, ma il fuoco cova sotto la cenere. Anche se presa dal nuovo marito, Sayako è attratta da Yan, il leader dei cinesi che sembra desiderarla molto più dei suoi connazionali e sta meditando di lasciare l’isola su due rudimentali imbarcazioni. Sedotta da Yan, Sayako ne accetta l’invito di unirsi a lui nell’avventuroso viaggio. Il mare è in tempesta, e una delle due barche viene inghiottita dalle onde, mentre quella su cui si trovano Yan e Sayako riesce a restare a galla. I due si amano, davanti agli altri, come bestie, fino a crollare stremati e affamati. Poi, dopo una decina di giorni, avvistano un’isola e approdano su una spiaggia. Ma si trovano di fronte a una sgradita sorpresa: senza accorgersene, sono ritornati a Tokyojima, l’isola di Tokyo! Dove i giapponesi, quasi come se avessero subito una metamorfosi, si sono enormemente incattiviti!

La voci del passato di Taichi Yamada

Spesso, quando si ama una nazione, si tende a trascurarne gli aspetti più spiacevoli o prosaici, enfatizzandone altri; in virtù di ciò, il Giappone rappresenta per molti soltanto il paradiso del sushi, popolato di geisha, robottoni e samurai.
Ma persino l’idilliaco Paese del Sol Levante, come dimostrano le cronache politiche degli ultimi giorni, ha i suoi problemi interni, più o meno gravi: di essi ci parla – con una prospettiva tutta sua – Taichi Yamada, in Una voce lontana (trad. di Emanuela Cervini, ed. Nord, pp. 192, € 13), presentato così dall’editore:

Durante l’arresto di sei clandestini provenienti dal Bangladesh, Tsuneo, un ufficiale dell’immigrazione, blocca uno degli stranieri in fuga, ma improvvisamente crolla a terra, travolto da un’irresistibile sensazione. Sembra un episodio isolato in una vita altrimenti tranquilla, ma, poco dopo, quel particolare «svenimento» si ripete. E non solo: Tsuneo comincia a sentire una voce – una voce di donna – che gli parla, lo ammonisce, gli dà consigli, gli chiede di ricordare: ricordare ciò che ha fatto durante la sua permanenza negli Stati Uniti, quando lui stesso era un clandestino. In breve tempo, quella voce diventa l’unica cosa veramente importante. Tsuneo abbandona il lavoro, la fidanzata e qualsiasi impegno sociale, e si getta anima e corpo nel tentativo di capire che cosa voglia da lui la voce. Uno slancio che farà emergere tutto il dolore sopito nel suo passato e che gli aprirà gli occhi su un mondo che lui non ha mai voluto vedere né ascoltare…

Un libro… da brividi: "Estranei" di Taichi Yamada

Indecisi sul libro da portare (beati voi) in vacanza?
A chi ama i brividi e la suspense, oggi lo “chef” consiglia Estranei di Taichi Yamada (ed. Nord, pp. 222, € 14), vincitore dello Yamamoto Shugoro Prize for Literature.
L’editore Nord ne parla così:

Hideo Harada è un uomo di mezz’età, divorziato, con un figlio che non vede quasi mai e un lavoro – scrivere sceneggiature per la televisione – che stenta a decollare. Per di più, vive nel suo ufficio, in una grande e asettica palazzina nei pressi di una trafficata strada statale di Tokyo.
Così, per sfuggire allo squallore e alla solitudine della propria esistenza, il giorno del suo compleanno Hideo decide di recarsi ad Asakusa, il quartiere della sua infanzia, dove a dodici anni aveva perduto entrambi i genitori, investiti da un’auto. Ma, quando entra in un teatro, tra il pubblico nota un individuo straordinariamente somigliante al padre. L’uomo lo invita a seguirlo a casa sua, dove lo aspetta la moglie: anche lei è identica alla madre morta
Hideo trascorre con i due una serata sconcertante e meravigliosa, e questo gli dà la forza di riprendere a lavorare con rinnovata energia. Gli incontri si susseguono, e sono una fonte di gioia e serenità, eppure… Hideo appare agli occhi dei suoi amici sempre più pallido e smunto, come se un male oscuro lo stesse consumando. La persona più angosciata di tutti è Kei – una vicina di casa con la quale Hideo ha intrecciato una relazione sentimentale -, che, una volta scoperto il suo segreto, gli consiglia di interrompere quelle visite, perché è evidente che lo stanno distruggendo.
Ma anche Kei nasconde una verità inquietante
Riecheggiando lo stile di Paul Auster e le atmosfere di Haruki Murakami, Estranei è un romanzo commovente sul potere della memoria e sulla difficoltà di instaurare un rapporto autentico e sincero con gli altri.

"Un bel giorno per rimanere da sola" di Aoyama Nanae

Per cercare di rinfrescare questa afosa giornata estiva, oggi vi propongo un volume fresco di stampa, dall’ottimistico titolo Un bel giorno per rimanere da sola (Salani, pp. 142, € 13) di Aoyama Nanae, vincitrice del premio  Akutagawa. L’editore lo presenta così:

Chizu ha vent’anni e si è appena trasferita a Tokyo per decidere che cosa fare della sua vita. Non ha molta voglia di continuare a studiare e trascorre le sue giornate tra lavoretti precari e un fiacco rapporto con un coetaneo molto più interessato ai videogiochi che a lei. A Tokyo è ospite di un’anziana amica di famiglia, Ginko, sulla quale Chizu rovescia la sua rabbia. Tanto Chizu è cinica e sprezzante, quanto Ginko è ottimista e fiduciosa. Ma un anno di (difficile) convivenza farà cambiare molte cose, e mentre i rapporti sentimentali di Chizu falliranno, Ginko si aprirà a un amore che, seppur tardivo, si rivelerà solido e felice. E Chizu imparerà a vivere proprio dalla donna che tanto disprezzava…
Caso letterario in patria, uno romanzo di formazione che rovescia ogni stereotipo sui rapporti intergenerazionali, raccontando in modo originale la contrapposizione gioventù e vecchiaia: l’età è certezza di serenità e di vero godimento della vita.

"Una ragazza comune" di John Burnham Schwartz

Che succede se un autore occidentale tenta di immaginare cosa accade dentro il perimetro delle mura imperiali giapponesi, pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale? Potete trovare la risposta in Una ragazza comune di John Burnham Schwartz (Neri Pozza, pp. 304, € 17). Ecco una breve presentazione dell’editore:

È un giorno di aprile della fine degli anni Cinquanta e, nel silenzio di più di mille testimoni, il principe erede al Trono del Crisantemo e la giovane Haruko entrano nel tempio sacro di Kashikodokoro. Il principe vi mette piede per primo, preceduto dal maestro del rituale con la sua lunga tunica bianca. Nella mano destra stringe uno scettro di legno levigato, che rappresenta la sua autorità sulle cose di questo mondo. Indossa una veste antica ed elaborata, dello stesso colore arancione scuro e bruciato del primo sorgere del Sole sulla terra.
Haruko entra per seconda. Tiene lo sguardo fisso avanti, come le hanno detto di fare. Gli abiti pesano quindici chili, i capelli tre. I piedi si trascinano a tentoni sotto il sudario di seta del kimono.
All’interno del Kashikodokoro, su entrambi i lati spiccano tempietti dedicati agli dèi del cielo e della terra e alle anime di tutti gli imperatori e le imperatrici. Ma è nel luogo più sacro di tutti, nella stanza segreta in cui e’ conservato lo specchio sacro, una delle tre reliquie che attestano le origini millenarie e leggendarie della dinastia del Sole, che il principe e Haruko sono diretti.
Mentre i dignitari si bloccano all’esterno, il principe avanza nel sancta sanctorum con in mano un ramo di sasaki, l’albero sacro, adorno di fiocchi rossi e bianchi, subito seguito da Haruki in ginocchio. Con sincronia perfetta i due fanno quattro profondi inchini, poi il principe estrae una pergamena dalla cintura e declama un’antica promessa in giapponese arcaico. La sua voce è forte e abbastanza chiara da essere sentita dalle centinaia di persone raccolte sotto i tetti a pagoda in cortile.
Poi i due tornano nella parte esterna del santuario e lì, mandando giù qualche sorso di sakè da una scodella di ceramica bianca non smaltata, Haruko, la giovane figlia di un dirigente d’industria, una ragazza comune, una borghese qualsiasi, diventa Sua Altezza Imperiale del Giappone, la principessa Haruko.
Così comincia questo romanzo, liberamente ispirato alle vicende reali dell’imperatrice Michiko e della principessa Masako. È la storia della prima donna non aristocratica a fare il proprio ingresso nella più misteriosa e longeva corte del mondo, dove è accolta con distacco e diffidenza dall’imperatrice e sorvegliata quotidianamente dalla servitù. È anche il commovente racconto del rapporto tra due donne che si ritrovano a vivere lo stesso destino fatto di pubblica ribalta e profonda solitudine interiore. È, infine, un impeccabile ritratto del Giappone uscito «dalla seconda guerra mondiale totalmente distrutto, ma con il suo cuore imperiale protetto da un fossato invalicabile» (USA Today).

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