All’inizio del secolo scorso, raggiungere il Giappone si profilava un’impresa ardita, che richiedeva settimane di viaggio e una grande determinazione. Buona parte dei coraggiosi si spinsero fino ai confini del mondo soltanto per ragioni economiche; nello sparuto gruppo dei curiosi – che pur esisteva ed aveva una sua dignità – figurava anche Paul Claudel, poeta, drammaturgo e diplomatico francese, che dalla fine del 1921 sino quasi alla primavera del 1927 risiedette (con qualche interruzione) nel Sol Levante, in veste di ambasciatore.
Nato nel 1868 – l’anno che inaugurò l’era Meiji e il rapido processo di modernizzazione -, Claudel giunse in Giappone ormai maturo, dopo aver risieduto e lavorato in molte nazioni; ciò gli permise di guardare alla cultura nipponica con un’ampiezza di vedute certamente poco comune all’epoca, come ben testimoniano i numerosi saggi raccolti ne L’uccello nero del Sol Levante (a cura di Maria Antonietta Di Paco Triglia, ed. il Cerchio, pp. 148, € 15).
In queste pagine trovano ospitalità gli argomenti più disparati, in grado di far breccia nella vita e nell’animo dello shijin taishi (il diplomatico-poeta, come veniva chiamato): e così ci si avventura tra le cronache dei solenni funerali dell’imperatore o fra quelle della devastazione, fisica ed emotiva, provocata dal terremoto di Tokyo del settembre 1923; si rimane incantati dalle affascinanti leggende degli autoctoni e dalla poesia nipponica, allora semisconosciuta in Europa. E ancora: si riflette sulla politica, la letteratura, l’antropologia e le forme di devozione locali, tanto differenti da quelle del cattolicissimo Claudel. Una consistente parte degli scritti raccolti nel volume, infine, è dedicata ad uno dei più grandi amori dell’autore, il teatro: i principali espedienti narrativi, scenici e drammatici del kabuki, del nō e del bunraku vengono analizzati con acume e vivo interesse.
Lo sguardo dell’autore d’oltralpe vaga qua e là per l’orizzonte giapponese, riuscendo a cogliere i tratti salienti dei fenomeni, per portarli poi alla luce con sincera ammirazione attraverso una prosa ricca e suggestiva, capace di fecondare la fantasia del lettore, sino a farlo immergere nel Giappone fantasmagorico e nostalgico dei lontani anni Venti.
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Un ricordo del terremoto del 1 settembre 1923
Una toccante pagina di Paul Claudel (poeta e ambasciatore della Francia in Giappone durante gli anni Venti del Novecento), frutto di un’esperienza in prima persona, in occasione del terremoto del 1 settembre 1923 che sconvolse Tokyo e Yokohama:
I mercanti di crespi e di broccati, la via dei mercanti di ninnoli, Nakadori, con i suoi ammassi di tesori, Nihonbashi, Shimbashi, il quartiere dei ristoranti e delle case eleganti da tè, Kanda, il quartiere delle Scuole, l’Università imperiale, Asakusa, il campo dei divertimenti popolari con il suo Yoshiwara e il suo tempiodi Kwannon, poi, dall’altra parte della Sumida, Riyogoku, la grande arena dei lottatori, e quegli immensi quartieri senza fine dove viveva a fior d’acqua nella risaia appena riempita, nell’aria greve delle esalazioni chimiche, tutto un popolo miserabile e rassegnato, la capanna del paria, il negozio dell’incisore di sigilli, la roulotte del pulitore di pipe, e accanto i grandi teatri, il museo Okura stivato di lacche d’oro e stoffe reali, i ristoranti bellissimi che in fondo al loro tokonoma espongono ogni giorni una pittura differente di Koorin e di Sesshuu, tutto questo è stato spazzato dalle fiamme. E’ il vecchio Giappone che sparisce in un sol colpo per far posto all’avvenire in un olocausto paragonabile alla distruzione di Alarico. Dei tram, in mezzo alle strade, non resta che un ammasso di ferraglie e un groviglio di pali e di fili. Ha spirato un grande alito di fuoco. Anche l’acqua degli stagni si è messa a bollire […]. Ma è a Honjoo, nel quartiere più miserabile della metropoli industriale, che si è trovata preparata la trappola più grande, una vasta piazza vuota in un’antica costruzione per equipaggiamento militare dove trentamila disgraziati avevano cercato riparo. Il fuoco li ha circondati da tutte le parti, sono morti. L’acqua nera e stagnante intorno a loro è coperta da uno strato di grasso umano. Sopra, in un piccolo commissariato di polizia in un edificio in cemento armato, si vedono cinque cadaveri ripiegati su se stessi. Sono gli agenti che si sono lasciati bruciare sul posto piuttosto che abbandonare il proprio ufficio.
(Paul Claudel, L’uccello nero del Sol Levante, trad. a cura di M. A. Di Paco Triglia, ed. Il Cerchio, pp. 38-39)