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Tra piacere e strazio: “Occhi nella notte” di Yamada Eimi

occhi nella notte yamada eimi marsilio romanzo Occhi nella notte di Yamada Eimi è un pezzo jazz suonato nel bel mezzo della notte da un pianista ubriaco, che ride e piange allo stesso tempo, esita, sbraita contro il pubblico, per poi, infine, riversare la sua nostalgia impotente sulla tastiera.

Pubblicato nel 1985, questo breve romanzo – che qualcuno ha definito erotico – è,  prima di tutto, la storia di due corpi che si cercano, si feriscono, si distaccano con violenza: quelli di Kim – cantante giapponese destinata a pianobar da quattro soldi – e Spoon, disertore nero dell’esercito americano di stanza a Yokosuka. (altro…)

Il rumore dolce del tempo: “Musica e danza del principe Genji”

[…] La maestosa Amenouzume appese fresche fronde del profumato monte del cielo alla corda che le rimboccava le maniche, si acconciò la capigliatura con una bella ghirlanda, e adornò le braccia con erbe e foglioline dei bambusa del profumato monte. Sistemò poi presso la porta della rocciosa stanza del cielo [ossia la caverna in cui si era rinchiusa la dea Amaterasu, irata contro il fratello Susanowo] un recipiente capovolto, vi batté sopra i piedi con un baccano così assordante da restarne spiritata, fece penzolare fuori le mammelle e abbassò la cintola del vestito fino a mostrare il sesso. Le pianure del sommo cielo sobbalzarono e uno scoppio di risa di levò da tutte le otto centinaia di miriardi di esseri.
Amaterasu grande sovrana e sacra, incuriosita, aprì uno spiraglio nella porta della rocciosa stanza. […]
(tratto da Kojiki. Un racconto di antichi eventi, a cura di Paolo Villani)

E’ questo senz’altro uno dei passi più celebri del Kojiki, capolavoro della letteratura e della mitologia giapponese, che immortala con pochi e intensi tratti una curiosa ma efficace forma di danza. Su questa e su molte altre manifestazioni estetiche si sofferma il bel saggio Musica e danza del principe Genji. Le arti dello spettacolo nell’antico Giappone dell’etnomusicologo Daniele Sestili (ed. LIM – Libreria Musicale Italiana, pp. 190, € 19), che offre una ricca panoramica sulla raffinatissima epoca Heian (794-1185), con un’ampia pluralità di prospettive, proponendosi al contempo come un testo godibile da un largo pubblico per chiarezza e fluidità. Lo studioso non soltanto analizza i repertori (musicali, coreutici, corali…) tipici del tempo – insieme alle circostanze, ai ruoli e ai significati in cui essi si dispiegavano -, ma riesce soprattutto a ridestare il fascino imperituro di tutta un’epoca. L’autore ha inoltre corredato l’opera di cinque utili appendici, che aiutano il lettore a destreggiarsi meglio con gli argomenti trattati; all’interno di esse trova posto il saggio Il Genji monogatari visto attraverso la musica di Yamada Yoshio, che evidenzia in quali maniere, adoperando lo studio degli strumenti e delle tecniche musicali, sia possibile datare con maggior precisione il periodo storico in cui il romanzo è ambientato.

Grazie alla stabilità politica e alla maturità raggiunta dalla cultura nipponica (fecondata anche da apporti cinesi, coreani, indiani), la ristrettissima aristocrazia del periodo Heian poté dare vita a un insieme di pratiche improntate alla <<legge del gusto>>, volte da un verso a intessere e consolidare relazioni interpersonali (con ovvi risvolti politici), dall’altro a esaltare il carattere sublime ed élitario della classe nobiliare.

All’interno di questo scenario si collocava naturalmente anche la musica, che non svolse la funzione di mero sottofondo armonico, ma costituì una delle massime espressioni artistiche dell’epoca, nonché un’attività molto ricorrente nella quotidianeità dei blasonati, che individuarono in essa un fondamentale tramite per portare alla luce il mono no aware, il “sentimento delle cose” che svela la caducità di tutto ciò che ci circonda con delicato pathos.

Melodie e danze heian – coppia spesso inscindibile – si incarnavano principalmente in due tipologie, non esenti da contaminazioni reciproche o di provenienza popolare: la gagaku, legata ai riti e alle solennità della corte, e la miasobi, l'”augusto svago” amato e coltivato con assiduità da uomini e donne titolati.

Daniele Sestili, nel trattare ciò, non si limita a prendere in considerazione soltanto elementi di teoria o storia della musica, ma realizza un vero e proprio affresco del periodo storico, comprendente forme artistiche anche molto diverse tra loro (calligrafia, poesia, danza, canto, architettura, moda…), accomunate però dall’ideale heian – influenzato dal pensiero taoista (di origine cinese) e dal sostrato autoctono shintō –  che voleva tutte le attività umane “[…] specchio fedele dell’armonia presente nel cosmo”. Ciò non implicava un’imitazione pedissequa della natura, anzi. L’optimum era infatti rappresentato proprio da quel che era in grado di inserirsi con spontaneità e grazia nel paesaggio circostante:

[Genji a Tamakatsura]: Sai quello che mi piace? Suonare uno strumento come il tuo in una fresca sera d’autunno, quando la luna è alta, stando seduto proprio accanto alla finestra. Allora si suona in concerto con le cicale, inserendo il frinire nell’accompagnamento. Ne risulta una musica che è intima, ma al tempo stesso tutta moderna.
(tratto dal Genji monogatari di Murasaki Shikibu)

‘Moderno’ (imamekashi) fu una delle parole d’ordine dei secoli heian ma, paradossalmente, non entrò mai in conflitto con il carattere rituale e sacrale che molta musica nipponica custodisce tuttora in sé, retaggio di una fase – ormai persa nella notte dei tempi – in cui si adoperava  la cetra per consultare gli dèi, o si eseguivano danze per propiziare il raccolto: per questa ragione, numerose manifestazioni connesse all’ambito melodico presentavano strutture, forme e linguaggi (figurativi, espressivi, cinetici…) altamente codificati. La foggia e i colori di un abito, la scelta dei materiali (legni pregiati, carta, seta…) e degli accessori (spade, maschere, rami e fiori…), il timbro d’uno strumento o un’inclinazione particolare della voce: nulla era lasciato al caso, perché – ben prima di essere un mero intrattentimento, come già accennato sopra – la musica rivestiva molteplici altre funzioni.

In primis, dal momento che ciascuna classe era dotata di generi, strumenti e tecniche peculiari, essa fungeva da mezzo di identificazione comunitario e, nel caso dei nobili, di celebrazione del proprio elevato status, poiché rispecchiava la sopraffine estetica degli yokihito (le “persone di qualità”); come se non bastasse, le manifestazioni musicali venivano utilizzate per intessere e rafforzare relazioni (è questo il caso, per esempio, del corteggiamento), adempiere obblighi religiosi e sociali, rinconciliarsi con la natura, entrare in contatto con i numi e tentare di riprodurre sulla misera terra le bellezze del paradiso, al punto tale che persino gli animi più duri erano costretti a piegarsi all’incanto:

Seguì un gran concerto, nel quale fu eseguito con mirabile effetto il brano <<Ci fu mai giorno come questo?>>. Perfino i mozzi e i facchini […] stavolta tesero l’orecchio e di lì a poco ascoltavano a bocca aperta, stupefatti e rapiti. Perché era impossibile che gli strani acuti tremoli del Modo di primavera [=sōjō], che l’insolita bellezza della notte rendeva ancor più intensi, non commovessero persino le più insensibili creature umane.
(tratto dal Genji monogatari di Murasaki Shikibu)

 

Nuove note per antiche parole: intervista a Ramona Ponzini

Un tranquillo pomeriggio di settembre, davanti al computer, a scrivere. Distrattamente, apro l’ennesima pagina del browser e clicco su un link. D’improvviso, la stanza si riempie di una musica strana, nuova, che non ho mai sentito prima. Campanelli, versi giapponesi, una melodia avvolgente e, al tempo stesso, distante, antica.
Ho appena conosciuto Ramona Ponzini e la sua bellissima voce, e ancora non lo so.

Quello che mi è parso un canto remoto, eppure vivo nella carne e nelle sonorità, proviene in effetti dal passato. A partire dal 2004 Ramona ha sviluppato insieme ai My Cat Is An Alien (Maurizio and Roberto Opalio) il progetto Painting Petals On Planet Ghost (PPOPG; http://www.mycatisanalien.com/PPOPG.htm), volto a scoprire e sperimentare le potenzialità musicali della poesia giapponese, sposandole a contaminazioni inattese.

I sorprendenti risultati sono racchiusi in tre album, il primo dei quali, Haru (Time-Lag Records; vedi sopra la copertina), del 2005, s’ispira ai versi e alla letteratura dell’epoca Heian (794-1185), ed in modo particolare a una delle più antiche antologie poetiche giapponesi, il Kokinshū (Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne); non manca un tributo al celebre incipit del Makura no Sōshi (Note del guanciale) di Sei Shōnagon.

Nel 2008 è il turno di Fallen Cammellias (A silent place), che riprende alcuni tanka (composizioni liriche strutturate in 5-7-5-7-7 sillabe) della poetessa primonovecentesca Yosano Akiko, attingendo soprattutto alla raccolta Midaregami. L’anno dopo, in Haru no omoi (PSF Records; qui a destra la copertina), vengono riuniti alcuni brani estratti dai dischi precedenti, con l’aggiunta di due pezzi inediti, ancora una volta ispirati ai tanka di Yosano Akiko.

Ramona Ponzini non si ferma qui, e collabora anche con artisti quali Z’EV e Lee Ranaldo dei Sonic Youth, eseguendo in giapponese ― sua lingua musicale ed artistica d’elezione ― improvvisazioni live e testi da lei composti, come nel caso dell’album Ankoku.

Oggi sono felice di poterla intervistare e di scoprire qualcosa di più riguardo le sue interessanti ricerche. Prima di leggere il seguito dell’articolo, vi suggerisco di ascoltare qualcuno dei brani presenti in http://paintingpetalsonplanetghost.bandcamp.com.

Biblioteca giapponese (d’ora in poi Bg): Innanzitutto, Ramona, ti ringrazio per la disponibilità. Alla tua giovane età hai già all’attivo importanti traguardi (una laurea coronata da una tesi sugli esordi letterari della poetessa Yosano Akiko; collaborazioni di valore con numerosi artisti; interventi sul tuo lavoro pubblicati negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Giappone…). Oltre che alla tua bravura, naturalmente, una parte del tuo successo è legata al progetto Painting Petals On Planet Ghost: puoi raccontarci come è nata l’idea di battere nuove strade attingendo alla poesia giapponese?

Ramona Ponzini (d’ora in poi RP): Il progetto Painting Petals on Planet Ghost nasce dopo anni di interazione sinergica tra me e i My Cat Is An Alien. Ho conosciuto i fratelli Opalio nel 2001 e sono rimasta subito affascinata dal loro approccio anticonvenzionale alla musica e all’arte in generale. All’epoca mi occupavo di teatro sperimentale ma ho seguito costantemente i loro concerti, tenuto sott’occhio le innumerevoli uscite e dopo qualche anno è iniziato il nostro sodalizio artistico. Painting Petals on Planet Ghost scaturisce dall’esigenza di coniugare l’anima più lirica e melodica dei MCIAA con il lavoro di ricerca da me condotto, e che ancora sto conducendo, sulla poesia giapponese come fonte privilegiata di testi musicabili. Il punto di partenza sono proprio le liriche in giapponese: di solito seleziono i testi, li traduco per i ragazzi affinché possano comprendere il motivo che mi ha spinto a scegliere determinate liriche, nonché il loro significato, poi passiamo a concentrarci all’unisono sulla musicalità intrinseca della lingua e della metrica delle poesie per poter creare quel tessuto sonoro che viene a costituirsi quale perfetta culla per i testi e  le melodie.

Bg: Cosa pensi che i versi giapponesi possano comunicare oggi agli ascoltatori occidentali, tanto più che essi sono spesso digiuni di poesia nipponica?

RP: Painting Petals on Planet Ghost rappresenta il punto di congiunzione tra il mio lavoro di studiosa della lingua e della letteratura del sole levante e la mia personalità artistica: parafrasando Joan La Barbara, in quanto musicista mi occupo dei “suoni come presenza fisica”, li scolpisco attraverso la voce, e lascio che il flusso dei pensieri e la visualizzazione dei gesti sonori portino alla creazione del risultato finale. Credo fortemente che non sia sempre essenziale per il fruitore di musica capire alla lettera il testo di una canzone: l’essenza del mio lavoro risiede nel tentativo di far scoprire all’ascoltatore la funzione di base della voce come primario mezzo di espressione. PPOPG è un progetto che rispecchia una fuga verso l’interiorità più delicata e poetica, uno scavo intimista che lascia spazio alla pura catarsi: la musicalità che scaturisce dalla lingua giapponese sotto forma di poesia ne è il mezzo sublime.

Bg: All’inizio del ventesimo secolo, Yosano Akiko era ritenuta una poetessa trasgressiva e una donna fuori dal comune: pioniera del femminismo, anti militarista e scrittrice estremamente prolifica. Come mai hai voluto ispirarti a lei per il tuo album Fallen Cammellias e per la realizzazione di altri brani?

RP: Sin dal liceo (ma anche all’università), scorrendo l’indice delle varie antologie letterarie, mi sono sempre chiesta come mai queste fossero così digiune di nomi femminili. Era davvero possibile che i più grandi autori delle più grandi opere fossero esclusivamente uomini? Così ho iniziato a cercare, ad andare oltre quelli che erano i programmi scolastici e ho scoperto Gaspara Stampa, Elsa Morante, Amalia Guglielminetti, Kate Chopin, Simone de Beauvoir, Virginia Woolf, Jane Austen, Emily Brontë, Sylvia Plath, Murasaki Shikibu, Yosano Akiko, per citare solo alcuni nomi. Credo sia dovere di ogni donna leggere, innanzitutto, Una stanza tutta per sé della Woolf e Il secondo sesso di  Simone de Beauvoir, ma principalmente indagare e scoprire che anche noi abbiamo lasciato un segno indelebile nella storia dell’arte, di tutte le arti, dalla poesia alla pittura, dalla musica al cinema; la nostra funzione creativa non si espleta solo nel mettere al mondo dei bambini, non può bastarci e in realtà non ci è mai bastato (anche se vogliono farci credere il contrario). Un esempio su tutti: Yosano Akiko, per l’appunto. Ha cresciuto undici figli eppure è una delle più grandi poetesse del ventesimo secolo.

Bg: Ascoltando i tuoi pezzi si rimane colpiti dalla sensazione di essere proiettati in una dimensione senza tempo; la ragione forse sta nell’aver sposato dei testi poetici – talvolta secolari – a sonorità nuove. Inserire questi versi in un tessuto musicale contemporaneo è un modo per tentare di renderli più attuali e dunque maggiormente apprezzabili anche dal pubblico?

RP: Credo che il nocciolo della questione risieda nella natura stessa della musica in quanto arte: l’Arte per eccellenza, secondo Nietzsche, il punto di sutura tra l’Uomo e il Dionisiaco.
In Musica e parola il filosofo ha sostenuto: “Mettere la musica completamente al servizio di immagini, e di concetti, utilizzarla come mezzo allo scopo di dar loro forza e chiarezza, questa è la strana arroganza del concetto di “opera”; (…) Perché la musica non può mai diventare un mezzo anche se la si vessa, se la si tormenta; come suono, come rullo di tamburo, ai suoi livelli più rozzi e più semplici essa supera ancora la poesia e la abbassa ad un proprio riflesso. (…) Certamente la musica mai può diventare mezzo al servizio del testo, ma in ogni caso supera il testo; diventa dunque sicuramente cattiva musica se il compositore spezza in se medesimo ogni forza dionisiaca che in lui prende corpo, per gettare uno sguardo pieno d’ansia sulle parole (…).”
Volendo bilanciare quelli che sono i due elementi del contendere, reputo che l’interazione sinergica, nonché paritaria, tra musica e poesia faccia sì che il testo poetico arrivi all’ascoltatore in maniera più immediata e viscerale, fino a toccare le corde più profonde dell’anima.

Bg: Oltre ad essere una bravissima cantante, sei certamente un’amante della letteratura giapponese: quali opere e autori ami, escludendo i testi e gli artisti su menzionati?

RP: La lista potrebbe essere molto lunga! Per dovere di cronaca credo sia giusto partire da quelle che sono state le mie letture al liceo: Yoshimoto Banana, in un primo tempo, e poi Kawabata Yasunari e Tanizaki Jun’ichirō. Tanikazi ha segnato profondamente la mia formazione letteraria, in particolare i primi racconti brevi, quali Shisei (Il tatuaggio) e Shōnen (Adolescenti), ma soprattutto opere come Bushūkō hiwa (Vita segreta del signore di Bushū) e Hakuchū kigo (Morbose fantasie), con la loro “estetica della crudeltà” continuano ad essere un’inesauribile fonte di stimoli e d’ispirazione. Rischio di essere scontata ma non posso non citare Mishima Yukio con Kinkakuji (Il padiglione d’oro), Tayō to tetsu (Sole e acciaio) e Eirei no koe (La voce degli spiriti eroici). Potrei mai omettere Murasaki Shikibu e il Genji monogatari? No. Categoricamente impossibile. Sarà sempre una delle più grandi opere della letteratura mondiale, non solo giapponese.

Bg: Rimanendo in tema: c’è qualche opera o qualche scrittore cui vorresti rivolgere le tue attenzioni musicali in futuro? Quali progetti hai in cantiere?

RP: Al momento sto lavorando sulle liriche di Takamura Kōtarō: è in uscita proprio in questi giorni un vinile intitolato Transaparent winter, per l’etichetta inglese Blackest Rainbow, che presenta due pezzi ispirati ai testi del poeta dell’epoca Shōwa, ma rielaborati e dilatati, frutto di un lavoro di improvvisazione e composizione istantanea che catapulta le sonorità tipiche di PPOPG in una dimensione più sperimentale rispetto ai primi tre album.
Il 23 novembre parteciperò insieme ai MCIAA e allo scrittore inglese Ken Hollings (autore di Benvenuti su Marte) ad uno show radiofonico alla londinese Resonance: il titolo della performance è ‘Ghost Blood Spectrum’ e per l’occasione selezionerò delle liriche giapponesi incentrate su quella che definisco “l’estetica del sangue”. Il 25 novembre sarò in concerto con Painting Petals On Planet Ghost al Cafe OTO di Londra, venue di culto per la musica sperimentale contemporanea (http://cafeoto.co.uk/my-cat-is-an-alien.shtm).

Bg: Grazie ancora, Ramona, e in bocca al lupo per i tuoi progetti.

Un’inquietante sinfonia: “Musica” di Mishima Yukio

Lo ammetto: così proprio non me lo aspettavo. Probabilmente è stato il titolo a ingannarmi, a farmi credere che si sarebbe trattato di un romanzo piano, senza scossoni, delicato; insomma, per usare una parola vecchio stampo che calza a pennello: garbato.

Ma Musica (trad. di E. Ciccarella, Feltrinelli, pp. 208, € 7,50; ora in offerta cliccando qui su Amazon.it a € 5,62) di Mishima Yukio si rivela in realtà ben altro, malgrado agli esordi dia tutta l’impressione di voler presentarsi soltanto come un puntuale e accurato referto clinico (non a caso, il sottotitolo dell’opera è Un’interpretazione psicoanalitica di un caso di frigidità), stilato in prima persona da un tal dottor Shiomi Kazunori, analista di successo, alle prese con Reiko, giovane paziente ossessionata dalla sua incapacità di abbandonarsi alla soave melodia dell’orgasmo e con una spiccata tendenza alla menzogna.

Man mano che la narrazione procede – sempre all’insegna della lucidità e del rigore scientifico – s’infiltrano nella trama elementi perturbanti in grado di creare scompiglio nella vita e nell’interiorità di chiunque abbia a che fare con Reiko; più la ragazza tenta di avvicinarsi alla verità, più sente il bisogno di confondere se stessa e gli altri, suscitando conflitti e sentimenti ambigui.

Ciò che ne scaturisce è un racconto capace di mettere in discussione non soltanto la presunta normalità sessuale, ma una vasta gamma di valori e di certezze (la sanità della famiglia borghese, i metodi infallibili della psicoanalisi, la purezza dell’amore…), inevitabilmente corrotti dalle vischiose zone d’ombra dell’animo umano.

A tutto rock: "Japrocksampler" di J. Cope

Se dico Giappone, cosa vi viene in mente? Geisha, samurai, sushi, ninja… non certo il rock. A ribaltare questa visione tradizionale (e a tratti banalizzante) ci ha pensato Julian Cope, professione rockstar. Trovate il risultato dei suoi sforzi in Japrocksampler (ed. Arcana, € 22), di cui vi propongo la presentazione ufficiale:

Ecco a voi Japrocksampler di Julian Cope, rocker e musicologo visionario, archeologo specializzato in siti megalitici primitivi ed ex leader dei Teardrop Explodes. A causa delle barriere linguistiche, la musica giapponese del Dopoguerra è sempre stata un enigma per gli occidentali. Perciò Julian si è sentito in dovere di trovare la chiave d’accesso a una porta ingiustamente sbarrata. Questa storia racconta di come la musica occidentale giunse sulle coste giapponesi dopo la Seconda Guerra Mondiale, e del delizioso caos che scatenò. Cover strumentali dei successi degli Shadows zeppe di toni e colori musicali inauditi, la resurrezione dei cantastorie tradizionali rokyoku ispirati da Dylan e altro ancora: non esiste luogo in cui l’eterna metamorfosi del rock’n’roll sia stata più affascinante e originale che in Giappone. Attraverso il racconto degli scambi e degli influssi reciproci tra l’avanguardia giapponese, i nuovi movimenti controculturali, compositori come John Cage e Stockhausen e la scena underground del free jazz, Japrocksampler esplora lo scontro tra i valori della tradizione conservatrice giapponese e gli indomabili rinnegati rock’n’roll degli anni Sessanta e Settanta. Racconta la storia degli artisti-chiave del dopoguerra nipponico – poeti frequentatori delle sale d’essai oppure gruppi rock violenti e anticonformisti con un debole per i dirottamenti aerei – e propone una lista di album Japrock fondamentali. Dopo il successo internazionale del leggendario Krautrocksampler (libro che da solo è riuscito a “resuscitare” un intero movimento musicale dimenticato), di cui questa nuova opera si pone come ideale prosecuzione, Japrocksampler, già acclamato in Inghilterra da fans e autorevoli storici e intellettuali, è un’altra sorprendente, bizzarra, sciamanica esplorazione di un aspetto poco conosciuto della nostra storia culturale recente che ci avvicina un po’ di più a comprendere il senso del rock’n’roll, della nostra mente di occidentali imbarbariti dalle nuove divinità del denaro e del progresso, e della nostra stessa vita.

Per saperne di più del libro, è disponibile anche un apposito sito internet.

Tre volumi sulla musica giapponese

Oggi, post artistico, dedicato ai suoni del Sol Levante. Iniziamo subito con Musica giapponese. Teoria e storia (ed. LIM, pp. 223, € 15). volume curato dall’etnomusicologo Daniele Sestili, con contributi di Akira Hoshi, Eishi Kikkawa, Shigeo Kishibe, Fumio Koizumi e Mario Yokomichi
<<Concepita come un’introduzione alla musica giapponese, l’opera raccoglie i lavori di cinque fra i maggiori studiosi giapponesi e si articola in due sezioni: una storica e una teorica. L’edizione italiana è arricchita da un apparato di note, una prefazione sulla cultura musicale giapponese e una nota bibliodiscografica.>>
Per ripercorrere la storia della musica nipponica, sempre dello stesso autore consiglio Musica e danza del principe Genji – Le arti dello spettacolo nell’antico Giappone, pubblicato da Libreria Musicale Italia (pp. 188, € 19) e La voce degli Dèi. Musica e religione nel rito giapponese del «kagura» (Ut Orpheus ed., pp. 176, € 18.50), di cui qui sotto trovate la presentazione.

Sotto una patina di occidentalizzazione e secolarizzazione, il Giappone contemporaneo conserva gelosamente una vita religiosa complessa e ricca di elementi di grande antichità. Tra i momenti maggiormente rilevanti del culto si collocano senza dubbio i kagura, azioni rituali comunitarie volte a rinvigorire l’energia dei partecipanti tramite l’evocazione delle divinità. Tali cerimonie, capillarmente diffuse su tutto il territorio del Giappone propriamente detto, sono caratterizzate da specifici comportamenti coreutico-musicali, i quali contribuiscono in modo sostanziale all’essenza del kagura stesso. Gli ensemble formati da tamburi, cimbali e flauti, nonché l’intervento vocale, accompagnano e guidano l’azione dei danzatori-attori; la musica punteggia e sorregge, imponendo la sua specifica temporalità, l’intero impianto rituale. Recuperando in modo organico i diversi lavori scientifici (demoetnologici, storico-religiosi, etnomusicologici) e sulla base di una personale ricerca sul campo, l’autore si propone di analizzare la presenza della musica nei kagura – finora trascurata come fenomeno unitario – per tentare di svelarne essenza e funzione, al di là della frammentazione localistica.
Calata nel complessivo contesto rituale, la componente sonora della cerimonia rivela intime connessioni con comuni concezioni religiose sottostanti, mentre le valenze magico-simboliche degli strumenti musicali impiegati appaiono nitidamente. Nel complesso la ricerca, condotta in un’ampia prospettiva storica e con richiami al più vasto contesto est-asiatico (in particolare alla realtà coreana), permette di tessere una fitta trama di riferimento indispensabile per la corretta comprensione dell’universo musicale dei kagura. A naturale completamento del suo specifico percorso, il volume giunge a riflettere sul più generale tema della musica nella ritualità giapponese, evidenziando come il comportamento sonoro si manifesti quale dimensione privilegiata nella relazione con il divino in tutta la cultura tradizionale. In tal senso, la natura più vera della musica dei kagura appare allora compiutamente sintetizzata nell’espressione ripresa nel titolo del presente volume: né metafora né immagine poetica, bensì antica credenza popolare, secondo la quale il suono del flauto impiegato nel rito sarebbe, appunto, la voce degli dèi.

Buone letture e buon ascolto.

"Concerto in Sol levante" di David Santoro

Pe rallegrare questa Pasquetta che, almeno qui, è velata dalle nuvole e freddina, il libro presentato oggi riguarda la musica giapponese contemporanea, fuori dai soliti schemi. Il suo nome è Concerto in Sol levante. Musiche e identità in Giappone (Casadeilibri, pp. 160, € 16) e l’autore è David Santoro, collaboratore di diverse testate giornalistiche.

Intoccabili, nippobrasiliani, rappers di Tokyo e di Okinawa, giovani musicisti in fuga dalla logica di mercato, artisti gruppi sociali e popolazioni che fanno della musica uno strumento di affermazione e resistenza culturale.
Questi sono solo alcuni dei protagonisti di Concerto in Sol Levante, un libro per scoprire la storia e la realtà del Giappone moderno attraverso la musica e sfuggire ai nostri pregiudizi. Un racconto attraverso le parole dei protagonisti che mostra lo stretto legame fra tradizione e ibridazione e come nella cultura l’incontro prevalga sulla separazione.

Mishima contro la frigidità

Negli ultimi anni, abbiamo assistito ad un proliferare di cure, più o meno credibili e costose, per risolvere ogni sorta di problema. Tra queste ve n’è una che approvo in linea di principio, ma che nella pratica mi lascia dubbiosa: la biblioterapia (ossia: leggi che ti passa). La creatrice, Stéphanie Janicot, ha anche scritto un libro a riguardo, uscito da poco in Italia: 100 romanzi di primo soccorso per curare (quasi) tutto (Corbaccio, pp. 208, 15,60 €).
Tra i volumi consigliati per recuperare il benessere perduto, figura anche Musica di Mishima Yukio, che racconta la storia di una ragazza alle prese con la sua incapacità di percepire le melodie. Scavando a fondo, grazie anche all’aiuto di uno psicanalista, si scoprirà che la musica è metafora dell’orgasmo e che Reiko, la protagonista, è infatti frigida. La sua esperienza, secondo Mme Janicot, può aiutare molte donne a superare lo stesso problema attraverso la lettura del libro. Ma sarà vero?

 

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