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Un kamikaze a Nagoya: un ricordo di Fosco Maraini

aereo kamikaze seconda guerra mon
Primo piano di un aereo kamikaze (credits: Earl Colgrove, Lt. Commander, USNR.)

Un’ultima incursione seria ebbe luogo ai primissimi d’aprile, in pieno giorno.*

Nagoya, come città, era ormai distrutta, ma qualcosa doveva pur rimanere in piedi, se valeva la pena di venire fin là. Questa volta gli apparecchi volavano bassi e tranquilli, come si fosse trattato d’una gita turistica oppure d’un lavoro di rifinitura pedante e minuzioso. Era ovvio che gli apparecchi prendevano con gran cura la loro mira.

Fu allora che i detenuti, tra i quali Clé [alter ego di Fosco Maraini], videro apparire in cielo certi puntolini neri che, accanto alla mole dei B29 americani, sembravano dei moscerini intorno a dei falchi. Fu subito chiaro che si trattava di kamikaze, di piloti suicidi sui loro apparecchi di morte, adatti a partire dal suolo ma senza mezzi per atterrare. Proprio sopra al Tempaku, forse a un migliaio di metri d’altezza, uno dei moscerini puntò diritto verso il suo B29: le distanze s’accorciarono, s’annullarono, ecco il terribile scontro!

Una gran fiamma rossa scoppiò allora in cielo e il gigante, dal quale si era subito staccata un’ala, cominciò a precipitare a foglia morta, bruciando ed esplodendo verso terra. Mentre bombe, corpi, frammenti d’apparecchi calavano con quella che sembrava una solenne e tragica lentezza, da tutta la città si levò un grido di straordinaria potenza, lanciato da migliaia di petti: “Banzai!” urlavano tutti. “Banzai!”.

A quel fatale punto degli eventi, un vano, inutile: “Evviva!” per un tragico giovane eroe.

Fosco Maraini, Case, amori, universi, Mondadori, 1999, pp. 602-603

* I fatti descritti si riferiscono all’aprile 1945 (nota mia)

Immagine tratta da Wisconsin Central.

“Io sarò sempre lì”: lettera di un kamikaze alla figlia

Nell’ottobre del 1944, in piena seconda guerra mondiale, Uemura Masahisa aveva venticinque anni. Era un tenente, forse un ragazzo come tanti, arruolatosi per necessità o desiderio, chissà.
Ma soprattutto era padre di una bambina piccola, cui scrisse una tenera lettera prima di salire a bordo del suo aereo e compiere la sua ultima missione. Da kamikaze.

Motoko,
mi guardavi spesso sorridendo, avevi l’abitudine di addormentarti tra le mie braccia e facevamo il bagno insieme. Quando sarai grande e vorrai sapere chi fosse tuo padre, chiedi a tua madre e a tua zia Kayo. A casa è rimasto un album con mie foto. Sono stato io, tuo padre, a darti il nome Motoko, pensando che saresti divenuta una persona dolce e tenera, che si prende cura degli altri. Voglio essere sicuro che tu cresca felice e diventi una magnifica fanciulla, e anche se io muoio senza che tu possa conoscermi non dovrai mai essere triste.
Quando sarai grande e vorrai incontrarmi, recati al santuario di Kudan. Se preghi con tutto il tuo cuore, ti apparirà il mio volto, […] Anche se mi è capitata la peggiore delle cose, tu non devi considerarti una figlia senza padre. Io sarò sempre lì a proteggerti. Ti prego, prenditi cura degli altri con tutto il tuo amore.
Quando sarai cresciuta e comincerai a pensare a me, ti prego di leggere questa lettera.
Sul mio aereo, ho portato come portafortuna una bambola che ti avevo regalato alla tua nascita. In questo modo sarai sempre con me.

(lettera tratta da R. Calvet, Storia del Giappone e dei giapponesi, pp. 353-354)

Qui a lato: fotografia d’epoca di kamikaze.

"Così triste cadere in battaglia"

Prati d’estate,
tutto quanto rimane
dei sogni dei soldati.

scriveva Basho, diversi secoli fa. A questo haiku vorrei oggi affiancare un libro, Così triste cadere in battaglia (Einaudi, 2007, pp. 214, € 15), rapporto di guerra ricostruito dal giornalista Kumiko Kakehashi, vincitore del premio per la saggistica Soichi Oya. L’editore ne parla così:

La storia del generale che osò dire al suo imperatore: «è triste cadere in battaglia», rifiutando l’apologia del suicidio kamikaze. La storia di un uomo che non voleva fare la guerra, destinato a organizzare la piú spietata e caparbia resistenza all’invasione di un lembo di terra patria da parte di forze americane immensamente superiori. La storia corale di un intero esercito che sprofonda letteralmente sottoterra in condizioni di vita impensabili, e resiste oltre ogni immaginazione, lontano dalle famiglie e da ogni possibilità di soccorso. Una ricostruzione storica avvincente e rigorosa a un tempo, che fissa nella memoria i giorni di Iwo Jima, già oggetto di un recente film-capolavoro di Clint Eastwood, Lettere da Iwo Jima, ispirato appunto a questo libro. Nel mese di giugno 1944, con le forze giapponesi in arretramento ovunque sotto l’offensiva americana, il generale Kuribayashi assume il comando della difesa di Iwo Jima, avamposto di territorio giapponese che, se occupato, sarebbe diventato scalo dei bombardieri per l’invasione del Giappone. «Se l’isola su cui mi trovo sarà catturata, – scrive Kuribayashi alla famiglia, – la terra giapponese sarà bombardata giorno e notte». Questo libro ricostruisce l’intera storia della difesa dell’isola organizzata da Kuribayashi. Iwo Jima doveva cadere, secondo le previsioni americane, in pochi giorni: resistette invece per un mese e mezzo, e il libro di Kakehashi Kumiko riesce letteralmente a disseppellire, senza partigianeria e in uno stile asciutto che ha la forza dell’epica, l’autentica memoria di quei giorni. Un libro che ci permette di guardare la storia «dal punto di vista del nemico»: un modo per distruggere una volta per tutte l’idea stessa di nemico. Un libro infine che fa riflettere su un problema sempre attuale: dove finisce il vincolo che lega un militare all’obbedienza, in presenza di una situazione ingiusta?

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