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“Nipponia Nippon” di Abe Kazushige

nippon nipponia Kazushige AbeLo ricordo di poche parole, serio, coi capelli di un bianco abbagliante; non senza ragione, per molti anni era stato uno dei più rispettabili e rispettati conoscenti della mia famiglia. Così, quando mi fu raccontato che, dopo la morte improvvisa dell’unico figlio, dopo aver meticolosamente tappezzato ogni centimetro di carta, aveva trasformato assieme alla moglie il loro appartamento in un’enorme voliera per uccelli, quasi non volli crederci. Un uomo come lui, tutto d’un pezzo – mi chiedevo – poteva davvero esser diventato schiavo di una simile passione? O, al contrario, l’aveva realizzata al massimo grado?

Questa storia mi è tornata alla mente leggendo Nipponia Nippon di Kazushige Abe (trad. di Gianluca Coci, Edizioni E/O, 2018, pp. 160, € 15); anche il protagonista del romanzo, Haruo, condivide, infatti, una simile idea fissa. Eppure, è solo un ragazzo, un liceale come tanti – non va d’accordo coi genitori, è innamorato di una compagna che non lo ricambia, trascorre ore e ore a navigare su internet. Una serie di incomprensioni lo spingono, però, a chiudersi in se stesso e nel suo mondo: l’unica affinità che percepisce davvero è quella con una rarissima varietà di uccelli, i Nipponia Nippon, di cui sono rimasti pochissimi esemplari custoditi in una riserva naturale.

Era felice come non lo era mai stato, perché sapeva che non c’era niente di più terrificante che dover ammettere di vivere una vita senza senso. (p. 30)

L’interesse dell’adolescente sfocia, in breve tempo, in ossessione e paranoia: sente, infatti, di non poter rimanere impotente di fronte ai soprusi a cui sono sottoposti gli amati animali e decide, perciò, di reagire alla sua maniera.

Alternando diverse modalità di scrittura (pagine web, definizioni del dizionario, report, ecc.) e ricorrendo a uno stile asciutto ma efficace, Kazushige Abe – ritenuto uno dei più rappresentativi scrittori giapponesi contemporanei – ci conduce nella mente di Haruo e rivela, pezzo dopo pezzo, il suo passato, i suoi desideri, i suoi impulsi più reconditi. Sebbene alcuni elementi del romanzo possano apparire in parte deboli o forzati, tanto a livello contenutistico quanto di trama (si vedano, per esempio, i genitori del ragazzo, che hanno un profilo e un comportamento abbastanza stereotipato), la narrazione procede fra accelerazioni e rallentamenti studiati ad arte.

Quel che emerge, riga dopo riga, è una verità amara per lo stesso lettore: nella disperata ricerca di una ragione per cui andare avanti ogni giorno, nel bisogno di amare ed esser amato, Haruo gli assomiglia forse più di quanto pensi e desideri.

 

 

“Arrivederci, arancione” di Iwaki Kei

iwaki kei, arrivederci, arancioneLa vita all’estero è, spesso, come un arazzo: chi la osserva da lontano vede i colori cangianti, i fili che si intrecciano armoniosamente, i disegni che catturano l’attenzione. Solo, però, chi lo ha cucito conosce la segreta trama di punti, le battute d’arresto, i nodi.

Arrivederci, arancione di Iwaki Kei (trad. di Anna Specchio, Edizioni e/o, 2018, pp. 160, € 14,50), romanzo vincitore del prestigioso premio Ōe Kenzaburō, riesce a restituire bene questo quadro complesso attraverso la semplice e toccante storia di Salima e Sayuri, conosciutesi per caso in Australia.

La prima è un’operaia, intelligente ma analfabeta, scappata dall’Africa, mentre la seconda, giapponese, fatica a conciliare le sue aspirazioni di scrittrice e accademica col ménage domestico. Le due, insomma, non potrebbero sembrare più diverse: eppure, per quanto distanti per estrazione sociale, cultura, personalità, le donne sono accomunate dall’esser madri in condizioni difficili, dal desiderio di riscatto, dal senso di estraniamento geografico e linguistico, dal bisogno di costruire relazioni genuine, non importa se con una tenace insegnante di inglese o con un camionista dalla lacrima facile.

Il linguaggio, in tutto ciò, riveste un ruolo fondamentale: può gettare ponti, raccontare un’assenza lancinante, ricostruire e rigenerare se stesse dopo che la propria esistenza è stata stravolta dagli eventi. Crede, giustamente, Sayuri:

[l]eggere e scrivere, ovvero coltivare le parole che supportano il nostro pensiero, sono due azioni personali che si riproducono nella mente di ogni individuo sotto forme molteplici e diverse. E’ quasi come se ognuno di noi spargesse i semi delle parole nel profondo di sé. […] Ora che non sono più giovane […] voglio invece affidarmi all’atto di produrre attraverso la mia maldestra scrittura, affinché sul suolo del mio spirito possa un domani crescere una rigogliosa foresta di parole. (p. 38)

Arrivederci, arancione è, in conclusione, anche – e, forse, soprattutto – una dichiarazione di amore verso le parole: quando nessun passaporto è in grado di identificare la propria casa e i rapporti umani sembrano vacillare, esse sanno farsi nido, famiglia, patria.

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