Tag: bomba atomica

“Il peso dei segreti” di Shimazaki Aki

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Matsumoto Shiori

Le storie nella Storia, si sarebbe tentati di definire sbrigativamente Il peso dei segreti di Shimazaki Aki (trad. C. Poli, Feltrinelli, 2016, pp. 394, € 19, ora in offerta a 16,15), da anni residente in Canada, dove insegna giapponese e traduce.

Leggendo questo ciclo romanzesco che solca tutto il Novecento, torna alla mente una citazione di Tolstoj in particolare: “Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” (trad. P. Zveteremich). Anche quella di Namiko non fa eccezione. Una madre anziana, un figlio alle soglie dell’adolescenza, piccole commissioni da sbrigare, e poi, all’improvviso, una crepa nella quotidianeità da cui si riversa, inatteso, un mondo perduto costellato di tradimenti, scoperte inattese e dolore, che ha per sfondo alcuni delle pagine più tragiche della cronaca giapponese dell’ultimo secolo, quali l’invasione della Manciuria, le ritorsioni contro i coreani e l’ascesa del nazionalismo durante la seconda guerra mondiale.

Sullo sfondo, imponente e implacabile, l’ordigno nucleare lasciato precipitare su Nagasaki nel 1945, capace, come il terremoto che colpì duramente il Kantō e Tōkyō nel 1923 (altro evento protagonista dell’opera), di stravolgere vite e seppellire – ma non in eterno – segreti. (altro…)

La necessità di ricordare: “Nagasaki. Racconti dell’atomica” di Hayashi Kyōko

orologio nagasaki bomba atomica
Tomatsu Shomei, “Atomic Bomb Damage: Wristwatch Stopped at 11:02, August 9, 1945, Nagasaki”

  Le vittime della bomba atomica, prima ancora di essere vittime della guerra o dello scontro generato tra nemici e alleati, sono vittime del genere umano.

E’ questa, con buone probabilità, una delle frasi che meglio riassume il senso di una consistente parte dell’opera di Hayashi Kyōko, sopravvissuta – come narra in Nagasaki. Racconti dell’atomica (trad. di M. Suriano, Gallucci editore, 2015, pp. 231, € 18, in offerta a € 15,30) – all’esplosione dell’ordigno nucleare rilasciato sull’omonima città.

Tra il rombo del motore del Bockscar che risaliva e la distruzione della fabbrica ci fu solo il tempo per quelle brevi parole: ‘Un raid!’ E in quel lasso di tempo 73889 persone morirono all’istante. Quasi lo stesso numero, 70499, furono scaraventate fuori nel sole cocente di piena estate, con la pelle scorticata come il coniglio bianco di Inaba.

(altro…)

“Kyoto è una città bella/ fino alle lacrime.”: Wisława Szymborska, Kyoto e Hiroshima

kyoto tempio

Kyoto ha fortuna,
fortuna e palazzi,
tetti alati,
gradini in scala musicale.
Attempata ma civettuola,
di pietra ma viva,
di legno,
ma come crescesse dal cielo alla terra.
Kyoto è una città bella
fino alle lacrime.

Vere lacrime
d’un certo signore,
un intenditore, un amatore di antichità,
che in un momento decisivo
al tavolo delle conferenze
esclamò
che in fondo ci sono tante città peggiori –
e d’improvviso scoppiò in lacrime
sulla sua sedia.*

Così si salvò Kyoto,
decisamente più bella di Hiroshima.

Ma questa è storia vecchia.
Non posso pensare sempre solo a questo
né chiedere di continuo
cosa accadrà, cosa accadrà.

Nel quotidiano credo alla durata,
alle prospettive della storia.
Non riesco ad addentare le mele
in un continuo orrore.
[…]

da Scritto in un albergo, tratto da Wisława Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Adelphi, 2012, p. 231

* Secondo quanto si racconta, Henry L. Stimson, il Segretario alla guerra del governo statunitense, propose di risparmiare Kyoto dal bombardamento atomico facendo appello a una serie di ragioni “ufficiali”. In realtà, ciò che molto probabilmente lo spinse a chiedere che la città venisse risparmiata, fu il suo amore per essa: a Kyoto, infatti, sarebbe stato sia da giovane, sia in luna di miele.

[Recensione] Nagasaki andata e ritorno: “Il canto delle parole perdute” di Andres Pascual

canto delle parole perduNagasaki, 9 agosto 1945. Kazuo – adolescente olandese d’origine e giapponese d’adozione – aspetta impaziente Junko. Oggi, forse, si daranno finalmente il primo bacio. Nell’attesa, stringe in mano uno haiku (una brevissima poesia) che lei gli ha regalato. Improvvisamente, però, nel cielo sboccia un fiore di fuoco. La città tace, dopo lo scoppio della terribile bomba. (altro…)

Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki nelle canzoni di De Gregori e dei Nomadi

Il co-pilota e la bomba: “Nagasaki per scelta o per forza” di F. J. Olivi

Molto tempo fa viveva una fanciulla di rara bellezza: Otoyo. La ragazza era a servizio da Lord Bizen ed era anche la sua favorita. Un giorno, in compagnia di Otoyo, Lord Bizen camminò a lungo nel suo giardino ed estasiato dalle piacevoli fragranze emanate dai fiori decise di fermarsi in quel luogo fino al tramonto.
Sulla via del ritorno al castello i due non si accorsero di essere seguiti da un enorme gatto nero. Otoyo si ritirò nella sua stanza e andò a letto. Nel bel mezzo della notte, però, si svegliò e vide l’enorme gatto nero dietro di sé: spaventata da tale visione, urlò terrorizzata. Il gatto fece un balzo in direzione della fanciulla e affondò le sue zanne nella gola della sventurata, uccidendola. Dopo averla seppellita, l’animale assunse le sembianze di Otoyo e cominciò a tormentare il signore. Giorno dopo giorno Lord Bizen diventava sempre più pallido e debole senza che nessuna medicina avesse effetto alcuno sulla sua salute. Alla fine, Itoh Suneta, un servitore impavido e leale, scoprì il mistero di quel travestimento e il gatto fu costretto a fuggire in montagna. Inseguito dalla folla, venne ucciso.

Questa, che parrebbe una favola macabra come tante, è in realtà il testo di uno dei volantini americani sganciati sul Giappone dopo il bombardamento di Hiroshima. Tutto il contenuto va letto in chiave metaforica, come spiegano gli stessi compilatori: il messaggio, infatti, vuol rimandare in realtà a significati diversi da quelli manifesti, dal momento che “il gatto mostruoso rappresenta i capi militari che vi succhiano il sangue e costringono a un inutile sacrificio migliaia di giovani vite. Inoltre indeboliscono il vostro Paese perché ostacolano la distribuzione del cibo e delle forniture mediche necessarie. La fanciulla uccisa può essere paragonata al  governo costituzionale la cui formazione è stata impedita dalla cricca dei capi”.

Per amore dell’imperatore e della loro stessa nazione, i giapponesi – nell’opinione degli statunitensi – avrebbero dovuto ribellarsi e spodestare i militari; peccato solo che le ragioni del conflitto mondiale e dell’intervento degli USA fossero più complesse e certamente più interessate. Molti americani, però, parvero accettare senza scomporsi troppo le spiegazioni fornite di volta in volta dal governo per arruolarsi, affrontare un nemico oltreoceano e persino morire in nome della gloriosa patria.

Per comprendere meglio questa ideologia e, soprattutto, i retroscena  delle missioni atomiche, vi consiglio di leggere le testimonianze sulla seconda guerra mondiale, sotto forma di diario, raccontate da uno dei suoi protagonisti in Nagasaki per scelta o per forza (fbe edizioni, pp. 239, € 14), opera di Fred J. Olivi, copilota italo-americano a bordo del bombardiere B-29 ‘Bockscar’, noto per aver sganciato la tristemente famosa bomba atomica ‘Fat Man’ sulla città giapponese di Nagasaki, il 9 agosto 1945, tre giorni dopo quella di Hiroshima, per fiaccare una volta per tutte il Paese del Sol Levante e mettere così fine alla guerra.

Partendo dall’infanzia e dall’adolescenza vissute nel pieno della grande crisi del ’29 nei quartieri poveri di Chicago, Fred (qui nella foto a lato) ci mostra le ragioni che lo spinsero ad arruolarsi come volontario: il bisogno di racimolare un po’ di denaro, il richiamo dell’avventura, il grande desiderio di volare e, senz’altro, un sincero attaccamento alla nazione che lo aveva accolto e cresciuto. Il ragazzo, riconoscente,  abbracciò in tutto e per tutto il modello del perfetto soldato americano: adorava il severo allenatore delle scuole superiori, svolgeva senza battere ciglio tutte le esercitazioni possibili, tornava appena poteva dalla famiglia per riabbracciare l’amata madre e si compiaceva per “la soddisfazione di sganciare le ‘zucche’ [bombe] sugli obiettivi”, di qualsiasi tipo essi fossero. A proposito del 15 agosto 1945 – giorno della resa incondizionata dei giapponesi e della fine del conflitto – l’uomo scrisse infatti: “Una gioia indicibile accolse quell’annuncio! Era proprio finita! Avevamo messo in ginocchio l’Impero del Sol Levante. C’erano voluti quattro anni ma alla fine, come aveva promesso il presidente Roosvelt dopo l’attacco a Pearl Harbour, la vittoria – immancabile – avrebbe premiato gli americani. […] Ero orgoglioso, veramente orgoglioso di essere americano“.

In fondo, già nella scelta del titolo si rivela molto dell’ideologia della voce narrante: se l’edizione italiana recita Nagasaki per scelta o per forza, lasciando uno spiraglio all’inelettuabilità del destino e al possibile pentimento per quanto fatto, quella originale reca Decision at Nagasaki. The Mission That Almost Failed (ossia: Decisione a Nagasaki. La missione che quasi fallì), volta invece a sottolineare in modo sottile – almeno nella mia personale opinione – la bravura dello staff che riuscì, malgrado le avversità, a sganciare le quattromila tonnellate e mezzo di Fat Man sulla città nipponica (“[…] Poveri giapponesi… Se la sono cercata, però!”, scrisse in quell’occasione Olivi). I membri dell’équipe, ritenuti al termine del conflitto degli eroi della patria, erano ben lontani da qualsivoglia etica dei kamikaze: mentre i piloti giapponesi cercavano volontariamente la morte con la speranza di giovare alla propria nazione, i colleghi americani – come leggiamo nel libro – tremavano all’idea di poter saltare in aria a causa di un ordigno esploso al momento sbagliato.

A vedere le foto in bianco e nero di questi ragazzoni in calzoncini o con la brillantina che sono stati strumenti di una volontà superiore (non divina, piuttosto economica e politica) viene da riflettere. Sarà bastato dirsi di aver fatto il proprio dovere per mettere a tacere la coscienza? E cosa avrà pensato il sergente che volava sempre con una bambola portafortuna regalatagli da una nipotina osservando le immagini dei bambini orfani, deturpati dalle radiazioni, uccisi senza ragione?

Leggendo le memorie di Olivi, non ho potuto fare a meno di pensare a un’altra pagina nera della storia degli USA, la guerra in Vietnam. Migliaia e migliaia di uomini partirono, chi per necessità, chi per servire con fedeltà il proprio paese, forse convinti che far strage di ‘charlie’ (viet-cong) fosse in fondo facile come sterminare i ‘musi gialli’. Eppure, neanche questa lezione sembra esser servita agli ancora numerosi sostenitori  delle guerre (sacro)sante e allo stesso Fred J. Olivi, che inviò questo telegramma al presidente George Bush Senior nel 1991:

Signor Presidente,
in qualità di co-pilota del B29 “Bockscar” che sganciò la seconda bomba atomica su Nagasaki, mi complimento con Lei per la decisione presa di non chiedere le scuse ufficiali al Giappone per la missione atomica delle Seconda Guerra Mondiale.
Sono molto lusingato per il fatto che gli sforzi dei due equipaggi, coinvolti negli attacchi che posero fine alla guerra, non furono vani.

Olivi non ricevette mai una risposta, e rimase amareggiato di ciò. Chissà se, almeno allora, ebbe il sospetto di aver sbagliato qualcosa nella sua vita.

Hiroshima, 6 agosto 1945

Il 6 agosto 1945 su Hiroshima venne sganciato un ordigno atomico, dal candido e ironico nome “Little boy”.
Quella che vedete qui sopra è la città, a sessantasei anni di distanza,
spiata da me in una chiara giornata di gennaio.
Non so perché io abbia istintivamente scelto questa foto,
e non la consueta immagine della detonazione;
forse perché quando mi sono avvicinata alle rovine del Dome,
proprio allora nell’aria è risuonato d’improvviso l’urlo d’una sirena;
forse per le migliaia di gru di carta multicolori, rinchiuse dietro una teca
o strette attorno a un monumento funebre;
forse per il desiderio di vivere di Sadako, che avrebbe voluto conoscere la nuova Hiroshima.

“L’ultima estate di Hiroshima” di Hara Tamiki

hara tamiki l'ultima estate di hiroshimaDa piccola, la nonna mi raccontava per ore della guerra; delle sue fughe sotto i bombordamenti, della scarsità di cibo, degli allarmi notturni, dei piccoli trucchi quotidiani per sopravvivere.

Proprio quando lei aveva trovato un po’ di pace, nell’agosto 1945, a migliaia di chilometri di distanza, a Hiroshima, una, cento, diecimila famiglie stavano vivendo un inferno.

Grazie ad Hara Tamiki e al suo L’ultima estate di Hiroshima (trad. di G. M. Follaco, L’ancora del Mediterraneo, pp. 128, €  13,50; ora in offerta su Amazon.it a 11,48; qui è possibile leggerne un brano), ho avuto modo di conoscere meglio questa realtà, cui mi ero avvicinata già attraverso il Diario di Hiroshima, redatto da Hachiya Michihiko, medico dell’ospedale cittadino e vittima egli stesso dell’atomica; ricordo di esser rimasta colpita dalla lucidità della narrazione e dalla grande dignità dimostrata da ogni personaggio, malgrado le durissime condizioni di vita.

Sono rimasta sorpresa quando – leggendo il volume di Hara – ho ritrovato questi stessi elementi, stemperati da una vena d’inquietudine malinconica, applicati stavolta ad una realtà familiare ed intima, descritta con semplicità stupefacente, senza mai cadere nella retorica o in un facile patetismo autocommiserativo.

hara tamiki
Hara Tamiki

Tutto inizia con un “preludio alla devastazione”: nelle settimane antecedenti i drammatici eventi del 6 agosto, Seiji e Shoozoo condividono la quotidianeità. La loro esistenza è scandita dalle sirene antiaeree e dalle ristrettezze belliche, nonché da piccoli accadimenti (le fughe della cognata, i brontolii della sorella, le novità in fabbrica…). Sebbene siano fratelli, i due mostrano caratteri alquanto diversi: il serioso Seiji dedica anima e corpo al lavoro nell’azienda di famiglia, mentre Shoozoo, pensieroso e riservato, cerca nella letteratura (compresa quella occidentale) un conforto alla morte dell’amata moglie e all’amarezza del vivere, calzando così i panni – neppure troppo velatamente – dell’autore stesso.

Il 6 agosto, alle 8.16 del mattino, il cielo si riempie improvvisamente di “fiori d’estate”, per riprendere il nome del capitolo centrale. Nessuno è in grado di comprendere cosa stia accadendo, ma – col passare delle ore – la situazione rivela la sua tragicità: le abitazioni cadono a pezzi, i corpi si disfano, i cari si disperdono o vengono decimati. Nulla è più come prima, soprattutto negli animi.

Lentamente, a fatica, i sopravvissuti tentano di dare una nuova forma alla loro vita, traendola dalle macerie e dal dolore; ma il bisogno di cercare propri simili, di narrare la propria storia  e, soprattutto, di trovare una ragione a quanto è accaduto permangono con forza, come ricorda una lirica di Hara Tamiki rievocata tra le strade impregnate del lezzo di cadaveri, che oramai hanno perso ogni traccia di umanità:

Schegge lucenti e
ceneri bianche sono
come un paesaggio sconfinato.
Il ritmo misteriosi dei rossi cadaveri di genti consumate dal fuoco.
E’ successo davvero? E’ potuto succedere per davvero?
Il mondo di domani strappato via tutto d’un fiato,
accanto ai vagoni rovesciati del treno
il torso gonfio d’un cavallo,
l’odore del fumo che si solleva dai fili elettrici.

Immagine tratta da Wikipedia.

Dopo Hiroshima. Esperienza e rappresentazione letteraria, a cura di Gustav-Adolf Pogatschnigg

Cosa è accaduto nella letteratura nipponica in seguito alla tragica esperienza della bomba atomica? In che modo poeti e scrittori sono riusciti a trovare dentro e fuori di sé una risposta all’orrore e alla paura?
A questi interrogativi vuol rispondere Dopo Hiroshima. Esperienza e rappresentazione letteraria, a cura di Gustav-Adolf Pogatschnigg (ed. Ombrecorte, pp. 159, 15 €). L’editore ci presenta così il libro:

Questo volume nasce dal convegno “Quando la guerra finisce”, tenutosi a Bergamo nel 2005, in coincidenza con il 60esimo anniversario delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. L’agosto 1945 segna l’inizio di una minaccia reale che da allora incombe, e oggi forse di nuovo e più che mai, sull’umanità. Contro la censura politico-culturale e tramite un vivace scontro con la critica letteraria giapponese dominante, paragonabile alla discussione sul “verdetto della poesia dopo Auschwitz” pronunciato da Adorno, si afferma la genbaku bungaku, la “letteratura della bomba atomica”. Tra centinaia di testimonianze scritte in forma di diari, racconti brevi e poesie haiku e non, romanzi e piece teatrali spiccano i nomi di Kurihara Sadako, Ibuse Masuji, Hara Tamiki, Ôta Yôko e il premio nobel Ôe Kenzaburo. Anche in Europa e negli Usa, l’arte, la filosofia e la letteratura cercano una risposta a questo evento che dalla storiografia viene spesso abbinato alla Shoa. Gli autori di questo volume offrono sia una panoramica, sia esempi di analisi approfondita di vari aspetti della rappresentazione letteraria della violenza inaudita che ha preso il nome di Hiroshima. Un monito che non dovremmo mai smettere di ricordare.

Hiroshima nei manga: "Barefoot Gen"

Qualcuno crede che i manga siano adatti solo ai bambini.
Qualcun altro pensa, invece, che oramai, a distanza di più di sessant’anni, sia possibile dimenticare Hiroshima.
Qualcun altro ancora ritiene, invece, che i manga e Hiroshima messi insieme possano far sì che la tragedia non sia dimenticata e riesca, attraverso il linguaggio diretto e artistico del fumetto, a coinvolgere un maggior numero di persone.
Con questi intenti è nata Barefoot Gen (はだしのゲン, Hadashi no Gen), una serie di manga firmati da Keiji Nakazawa che rivolgono la loro attenzione proprio ai drammatici giorni dello scoppio delle bombe atomiche e alla difficilissima esistenza dei sopravvissuti. Tra questi figura anche il piccolo Gen che tenta, insieme alla sua famiglia, di andare avanti, nonostante gli stenti: malnutrizione, scarsità di cibo, sofferenze fisiche e psicologiche rendono infatti la quotidianeità un inferno. I disegni, a noi abituati alla grafica di alto livello, potranno apparire semplicistici e ingenui, ma hanno il dono di rappresentare con pochi tratti lo stato disperato e commovente della situazione.
Qui
potete trovare una parte del volume Barefoot Gen: The day after; qui sotto, invece, un video tratto da uno dei tre film ispirati al manga.

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