Mese: Maggio 2019

Tanizaki Jun’ichirō: “Nero su bianco”

Contraddittorio, egocentrico, compiaciuto e, allo stesso tempo, prigioniero della sua vena decadente, Mizuno è uno scrittore nella Tōkyō della metà degli anni Venti del Novecento: collabora con case editrici e riviste, spende il denaro in alcool e prostitute, non si preoccupa di avere amici o famiglia.

Mizuno non era in grado di controllare la propria mente, il suo cervello era solo il proiettore di un cinematografo interiore. Un proiettore automatico da cui sgorgavano a volontà scene di mostri e fantasmi che lui stesso creava ed era costretto a guardare. Arrivati a un tale stadio non è forse già lecito parlare di pazzia?

Talmente assorbito in sé e nel desiderio di alimentare il suo ritratto di artista maledetto, quasi non bada al fatto che, in uno dei suoi ultimi racconti, immagina l’omicidio di un collega, senza preoccuparsi troppo di dissimulare la vera identità di quest’ultimo. Nel momento stesso in cui, infatti, il pensiero di non nuocergli si affaccia, ecco che la sua mente e il suo corpo vengono investiti da altri stimoli ben più terreni.

Ancora una volta, con la classica maestria, Tanizaki Jun’ichirō ci presenta nel romanzo Nero su bianco (Kokubyaku, 1928), appena pubblicato da Neri Pozza con la traduzione di Gianluca Coci (2019, pp. 266, € 17), un intreccio torbido, in cui inquietudine ed eros arrivano a confondersi e a disorientare persino colui che credeva invece di piegarli a suo piacimento.

Affascinato e intimorito da ciò che la sua mente riesce a creare, dalla sensualità esplicita e aggressiva di una modan gāru* che incrocia in un locale, dalla scrittura che egli padroneggia e che allo stesso tempo lo domina, Mizuno infatti è così creatore e attore di una serie di vicende deliberatamente ambigue. Ma anche ai lettori Tanizaki gioca un tiro: qual è la vera storia che stanno leggendo?

 

* Erano dette modern girls quelle ragazze che, negli anni Venti, seguivano la moda e stili di comportamento provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti.

 

Recensione: “La studentessa e altri racconti” di Dazai Osamu

Le mattine mi sembrano una forzatura. Sono così sature di tristezza che non riesco a sopportarle. Davvero, le odio. Di mattina non sono un bello spettacolo: le mie gambe sono così stanche che già non ho voglia di combinare nulla. Mi chiedo se sia perché non dormo bene. E’ una palla quando dicono che la mattina ci si sent in forma. Le mattine sono grigie. Sempre. E completamente vuote. Quando sono a letto la mattina, sono sempre così pessimista. Sul serio, è terribile. Tutti i miei rimpianti vengono a galla in un colpo solo, e il mio cuore si ferma, agonizzante.
Le mattine sono il male.

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E’ questo un intenso stralcio della storia che dà il nome alla raccolta La studentessa e altri racconti,
a cura di Alessandro Tardito per Atmosphere libri (2019, pp. 208, € 16,50), che riunisce assieme parte della produzione breve di Dazai Osamu composta negli anni
della seconda guerra mondiale.

Se gli altri cinque testi (Il mare delle sirene, Sull’amore e la bellezza, Una storia di onesta povertà, Bambù blu e Lanterne di una storia d’amore) spaziano fra il tradizionale, il folkloristico, il familiare e il fiabesco, la storia che dà nome alla raccolta si distingue per originalità, potenza e freschezza: offre infatti un resoconto in prima persona della giornata di una adolescente di Tōkyō ancora acerba, sospesa fra presente, passato e futuro. Desiderosa di costruire la propria strada senza condizionamenti, è però consapevole di vivere in una società che la vorrebbe ingabbiare in precisi schemi.

La sua voce – svelta, pungente, attraversata da balenanti sensazioni – rivela quando Dazai Osamu sia abile nel maneggiare materiale narrativo e psicologico, ritraendo con finezza alcun degli aspetti più complessi degli esseri umani: la loro natura fragile, il bisogno di evasione dal quotidiano, la loro contraddittorietà.

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