E’ difficile far caso a Katagiri in strada, in ufficio o mentre fa la spesa; d’altronde, è solo un salaryman come tanti – anzi, se possibile, ancora più insignificante. O, almeno, è tale sino al giorno in cui torna a casa e, ad aspettarlo, trova un ranocchio parlante e una missione – letteralmente sovrumana – da portare a termine.
” […] È una vita da schifo. Tutto quello che faccio è dormire, alzarmi, mangiare, andare al gabinetto. Che vivo a fare, non lo so neanch’io. Perché un uomo come me dovrebbe salvare Tōkyō?
“Signor Katagiri,” disse Ranocchio con voce dolce. “A salvare Tōkyō può essere solo una persona come lei. Ed è per le persone come lei che sto cercando di salvare questa città.”
Katagiri trasse di nuovo un sospiro profondo.
“Allora, mi dica cosa devo fare.”
Breve, fulminante, reso ancora più d’impatto grazie alle illustrazioni di Lorenzo Ceccotti, Ranocchio salva Tokyo di Murakami Haruki (trad. di Giorgio Amitrano, Einaudi, 2017, pp. 72, € 12,75) è uno di quei racconti che si amano o si odiano perché non vanno incontro in alcun modo al lettore: sta a quest’ultimo, infatti, la scelta della prospettiva o dei valori da applicare alla storia, sulla base di quel che gli suggerisce la coscienza o l’istinto.
Che significato ha, allora, questa narrazione? Si tratta di una semplice storia di fantascienza? E’, invece, un’allegoria dell’ineluttabile scontro fra Bene e Male a cui tutti – perfino i più apparentemente anonimi e inutili – siamo chiamati a partecipare? Oppure è, come già avvenuto ne La strana biblioteca, una sorta di piccolo labirinto in cui i confini fra realtà e mondo onirico si sfocano, mentre la fantasia diviene l’unica bussola? Per (s)fortuna, non lo sapremo mai.
Il vero terrore è quello che gli uomini provano per la loro immaginazione, aveva detto Ranocchio. Senza esitare, Katagiri spense l’interruttore della sua immaginazione, e scivolò in una pace priva di gravità.
Sono fra coloro che amano Ranocchio salva Tokyo, anche se non saprei indicare una precisa qualità che lo distingue da altre storie di Murakami, che lo renda speciale. Forse è vero l’opposto, e Ranocchio salva Tokyo condensa alcuni temi tipicamente murakamiani: l’antieroe che trasuda normalità e disincanto, l’ambientazione metropolitana, la dimensione onirica sotto la crosta della realtà. Non ci ha messo i gatti per non esagerare. XD
Questo racconto mi ha riportato alla mente le atmosfere di Kafka. Certo, l’ambientazione è molto diversa, il contesto culturale e geografico sono totalmente agli antipodi. E anche la storia non si collega in maniera particolare a quella dello scrittore europeo. Però il racconto giapponese è intriso di un particolare straniamento, di un’amplificazione iperbolica di significati emozionali e di un galleggiante senso di sommesso stupore. L’abilità dello scrittore sta qui nell’aver raccontato una storia in modo calmo e sereno, quasi onirico. Murakami non sembra infatti aver ripreso il fil rouge dell’angoscia che pervade gli scritti kafkiani. Eppure, nonostante un atteggiamento generale di soavità, questo racconto scava come un fiume carsico nelle nostre certezze e negli automatismi di pensiero quotidiano. In tal modo ci pone di fronte a dei dubbi etici, veri e propri bivi di strade d’esistenza. Sono luoghi di viaggio che non conosciamo, ma che dobbiamo percorrere, perché a noi spetta il compito di decidere in quale direzione muovere il nostro destino. Forse il Ranocchio è funzionale alla storia, un po’ come il Grillo Parlante lo è per Pinocchio. Ma, a differenza del romanzo di Collodi, l’anfibio non ama emettere sentenze morali. Lascia, al contrario, uno spazio di libero arbitrio. E all’interno di quello spazio nasce il giudizio, o la scelta. Mai pilotata, però. Lo scrittore propone solo una traccia-argomento da cui far iniziare i passi del lettore. La rotta la stabilisce il singolo fruitore della storia. Perché la vita è metamorfosi.