“[…] Non è strano? Piú che di tutto il resto mi ero innamorato di quello Stupido detto da Kyōko. Del suo sguardo diretto e libero. Che mi scrutava dentro. Io volevo che lei mi scrutasse dentro.
Ma era difficile. Per quanto spesso ci incontrassimo, lei andava in un’altra direzione. Credo che non sapesse dove. Procedeva decisa e basta, non necessariamente con la speranza di arrivare da qualche parte, ma per la pura gioia di essere in cammino. Sono una pianta, diceva, ho bisogno di fuoco, di aria, di terra, di acqua. Altrimenti deperisco. E: Anche nel matrimonio si deperisce, non è vero? Il fuoco si spegne. L’aria diventa rarefatta. La terra si secca. L’acqua si esaurisce. Io appassirei. E tu anche. Si gettò indietro i capelli. Lavanda. E se invece no, obiettai. Se proprio la quotidianità, la nostra quotidianità fosse la promessa che ti faccio? Il tuo spazzolino accanto al mio. Tu che ti arrabbi perché ho dimenticato di spegnere la luce in bagno. Noi che scegliamo una tappezzeria che un anno dopo ci sembra orrenda. Tu che dici che sto mettendo su pancia. La tua sbadataggine. Hai di nuovo lasciato l’ombrello da qualche parte. Io che russo e tu non riesci a dormire. Io che in sogno sussurro il tuo nome. Kyōko. Tu che mi fai il nodo alla cravatta. Che mi saluti con la mano quando vado a lavorare. Io che penso: Sei una bandiera al vento. Lo penso con un dolore lancinante nel petto. Per amor del cielo, non basta questo? Non è sufficiente per essere felici? Svicolò: Dammi tempo. Ci penserò.
Aspettai. Per un mese. Poi finalmente arrivò una lettera. La sua scrittura. Rotonda. Aveva allegato dei fiori pressati. La mia risposta è sí, lessi: Sí, vorrei perdere migliaia di ombrelli finché non avrai messo su pancia. Le risposi. Scrittura spigolosa. Andiamo a scegliere la tappezzeria.”
Milena Michiko Flašar, Il signor Cravatta (trad. di Daniela Idra, Einaudi, 2014)
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